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Società

Andare in pensione a 36 anni? Si può fare. Potrebbe non essere solo un sogno…

Yaron ce l’ha fatta. Ha scelto la felicità al posto della carriera e si è ritirato dal lavoro a 36 anni. Con una mentalità mirata agli investimenti e alla riduzione delle spese, ha realizzato il suo sogno di una vita senza preoccupazioni finanziarie.

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    Yaron ce l’ha fatta. Ha scelto la felicità al posto della carriera ed è andato in pensione a 36 anni. Con una mentalità mirata agli investimenti e alla riduzione delle spese, ha realizzato il suo sogno di una vita senza preoccupazioni finanziarie. Vediamo come. A 25 anni Yaron decide di ricercare la felicità anziché l’avanzamento di carriera e di non voler passare tutta la sua vita al lavoro. Si è immediatamente messo in moto verso il primo step che si era prefissato di raggiungere. Ovvero? Cercare il modo migliore per ottenere l’indipendenza economica nel minor tempo possibile.

    Una questione di priorità

    Yaron ha puntato su una vita in cui potesse essere libero dalle preoccupazioni e dallo stress derivanti da soldi e lavoro. Qualcosa che gli portasse gioia senza chiedere l’elemosina. Tedesco, originario di Berlino Yaron ha iniziato il suo progetto mentre era impegnato a ottenere un dottorato in matematica avanzata e computazionale. Durante uno stage a New York, è entrato in contatto con un consulente per gli investimenti di Wall Street che sarebbe presto diventato il suo mentore e che gli avrebbe indicato la giusta strada per raggiungere il suo sogno – e la pensione – a 36 anni.

    L’indipendenza economica

    Il percorso di Yaron è iniziato con alcune letture. Il suo mentore, infatti, gli ha consigliato dei testi ritenuti necessari per poter raggiungere il suo obiettivo: “La settimana lavorativa di 4 giorni” di Tim Ferriss e “Outliers” di Malcolm Gladwell. I due libri gli hanno permesso di riflettere sul collegamento tra i soldi e la felicità: “Tra 40 anni non vorrò essere il tipo di persona che basa la sua intera vita sulla carriera“, ha pensato. Nei 10 anni successivi Yaron ha lavorato in Google e Meta, viaggiando da Tel Aviv a Zurigo, fino alla California. L’obiettivo era chiaro nella sua mente e ha iniziato con dei piccoli investimenti. E così quando ha ottenuto il suo primo impiego, ha cominciato a mettere da parte qualche centinaio di euro ogni mese e aumentato pian piano i contributi versati. Quattro anni dopo la scelta di raggiungere l’indipendenza economica, Yaron ha pianificato il suo piano per la pensione ovvero 5.000 euro mensili.

    Questione di mentalità

    Al principio, l’uomo spendeva circa due terzi del suo stipendio per vivere, poi è passato al 50%, mettendo da parte tutti i vari ed eventuali bonus. Con 10mila euro al sicuro nel suo conto, il resto è stato investito nel mercato azionario. Yaron afferma che il successo del suo progetto è dovuto soprattutto alla sua mentalità e al suo approccio. Ha iniziato a valutare cosa gli portasse felicità e come evitare spese inutili. Prima di ogni acquisto, si chiedeva: “C’è qualcosa che mi soddisferebbe altrettanto ma per un terzo del prezzo?“.

    La pensione va pianificata

    Un esempio del suo modo di pensare ha riguardato la sua passione per il tè verde: “Anche se comprassi del tè di lusso, che costa circa 50 euro ogni 50 grammi, alla fine del mese risparmierei rispetto ad andare tutti i giorni da Starbucks a comprare il caffè. Eppure, manterrei un qualcosa di molto più esclusivo nella mia vita, che mi dà gioia“. Ammette, comunque, che in parte Yaron è stato assistito dalla fortuna. Così, a 36 anni, 10 anni dopo aver messo in moto il suo piano, Yaron Goldstein è andato in pensione e ora è pronto a godersi la vita che già da tempo sogna e progetta: “Nessuno può convincerti del fatto che il successo voglia dire lavorare per una grossa azienda, rimanere lì per 40 anni e fare carriera“. Che aggiungere? Provare per credere…

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      Società

      Lo Zingarelli 2026 parla inglese: da “ghostare” a “skillato”, l’italiano è sempre più “social”

      Entrano “gaslighting”, “retrogaming” e “mansplaining”, ma anche ibridi come “whatsappare”, “flexare” e “culturalizzare”. Bartezzaghi: «Parole che sembrano mostriciattoli, ma ormai fanno parte del nostro modo di parlare».

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        Lo Zingarelli 2026 fotografa un’Italia sempre più anglofona e digitale. Nella nuova edizione del celebre dizionario, l’inglese dilaga come mai prima: “retrogaming”, “gaslighting”, “ghostare”, “mansplaining”, “skillato”, “tokenizzare”. Parole nate nei social e nei videogame che oggi entrano a pieno titolo nella lingua di Dante, trasformandola in un esperimento continuo di ibridazione.

        Secondo Stefano Bartezzaghi, i nuovi termini «sembrano mostriciattoli artificiali, invenzioni un po’ ridicole, ma reali». “Breccare”, “whatsappare” o “flexare” – adattamenti italiani di verbi inglesi – fanno ormai parte del linguaggio comune, specie tra i giovani. E anche se a leggerli su carta fanno storcere il naso, nessuno può negare che si siano imposti per forza d’uso.

        Il dizionario, del resto, non giudica: registra. Così “quadricottero”, sinonimo di drone, ottiene finalmente cittadinanza linguistica, mentre termini come “perculare” e “pezzotto” entrano dopo anni di uso popolare. “Perché l’italiano”, spiegano i lessicografi, “è una lingua viva, non un museo”.

        Non mancano le creazioni ibride, costruite con radici italiane ma spirito burocratico: “culturalizzare”, “turistificare”, “eventificio”, “rinazionalizzare”. Parole goffe, ma utili a descrivere un Paese che organizza eventi più che idee.

        Tra le curiosità, spunta “amichettismo”, la parola dell’anno: definisce con sottile veleno quel sistema di conoscenze e favori che in Italia funziona meglio di qualsiasi curriculum. E, come se non bastasse, il lessico del web si arricchisce di “bromance”, “omosociale” e “riciclone”.

        Lo Zingarelli 2026 racconta così un’Italia che non ha più paura dell’inglese, ma rischia di dimenticare il proprio lessico. È una lingua in perenne mutazione, dove si “flexa”, si “posta” e si “ghostano” le persone. E dove, per dirla con Bartezzaghi, «anche i mostriciattoli linguistici, a forza di essere usati, finiscono per diventare di famiglia».

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          Società

          Che cos’è davvero la “cultura woke”? Dalle origini al suo controverso significato di oggi

          Il termine “woke”, nato come simbolo di consapevolezza sociale e lotta alle ingiustizie, è oggi al centro di un acceso dibattito. Da bandiera dei diritti civili a parola usata per descrivere il “politicamente corretto estremo”: ecco come è cambiato il suo senso.

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          woke

            Negli ultimi anni, la parola “woke” è entrata nel linguaggio quotidiano, spesso utilizzata nei dibattiti pubblici, nei social network e persino nei titoli dei giornali. Ma cosa vuol dire esattamente? Letteralmente, il termine deriva dal verbo inglese to wake, cioè “svegliarsi”. In senso figurato, “to be woke” significa essere svegli, consapevoli, in particolare rispetto alle ingiustizie sociali, alle disuguaglianze e alle discriminazioni.

            Oggi però il termine ha assunto sfumature molto diverse rispetto alle sue origini, diventando per alcuni un simbolo di sensibilità civile e per altri un’etichetta negativa, sinonimo di eccesso di correttezza o censura culturale.

            Le origini del termine: una “sveglia” sociale

            Le prime tracce della parola “woke” in ambito politico risalgono agli anni Quaranta, quando nella comunità afroamericana statunitense si usava per indicare chi era “cosciente” delle ingiustizie razziali. Negli anni Sessanta, durante il movimento per i diritti civili, il termine fu ripreso per descrivere la consapevolezza delle discriminazioni e la necessità di reagire.

            L’espressione è tornata in auge dopo il 2013, con la nascita del movimento Black Lives Matter, sorto per denunciare le violenze della polizia contro la popolazione nera negli Stati Uniti. “Stay woke” – “resta sveglio” – è diventato uno slogan diffuso tra attivisti e manifestanti, un invito a non chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie.

            Dalla consapevolezza sociale al “politicamente corretto”

            Con il tempo, il termine “woke” ha oltrepassato i confini del razzismo per includere altre battaglie: la parità di genere, i diritti LGBTQ+, la tutela dell’ambiente e la lotta contro ogni forma di discriminazione. Nella cultura digitale, essere “woke” significava riconoscere i propri privilegi e sostenere una società più equa e inclusiva.

            Tuttavia, a partire dalla fine degli anni 2010, il concetto è stato progressivamente distorto. Alcuni critici – soprattutto in ambito politico e mediatico – hanno iniziato a usare “woke” in modo ironico o dispregiativo, per indicare un atteggiamento considerato troppo rigido, moralista o censorio, associato al cosiddetto cancel culture: la tendenza a boicottare o escludere personaggi pubblici, opere o idee considerate offensive.

            Il dibattito contemporaneo

            Oggi, “woke” è una parola fortemente divisiva. Da un lato, molti continuano a usarla nel suo significato originario, come simbolo di attenzione e responsabilità sociale. Dall’altro, è diventata un termine di derisione politica, usato per accusare certi movimenti di voler imporre un pensiero unico o di esagerare con il linguaggio inclusivo.

            In molti Paesi occidentali, il termine è entrato persino nel linguaggio istituzionale e accademico. Alcuni politici parlano di “agenda woke” per criticare iniziative progressiste, mentre numerose università ne discutono come fenomeno culturale da analizzare e non solo da giudicare.

            Tra evoluzione e travisamento

            Secondo gli esperti di linguistica, “woke” è un esempio emblematico di come le parole cambino significato nel tempo, riflettendo le tensioni e le trasformazioni della società. Ciò che nasce come espressione di consapevolezza può diventare, in un contesto diverso, un’etichetta divisiva.

            Il rischio, secondo molti sociologi, è che l’uso distorto del termine ne svuoti il valore originario, riducendo a slogan o a battuta un concetto che, in principio, rappresentava un invito all’empatia e alla giustizia.

            Conclusione: una parola specchio del nostro tempo

            In definitiva, “woke” è più di un semplice termine di moda. È uno specchio delle contraddizioni contemporanee, dove il desiderio di un mondo più giusto si scontra con la paura dell’eccesso e dell’omologazione.

            Capire davvero cosa significa essere “woke” oggi richiede più che una definizione: richiede la capacità di ascoltare, riflettere e distinguere tra l’impegno autentico per i diritti e le semplificazioni mediatiche che spesso lo circondano.

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              Lifestyle

              Cani e gatti in ufficio! Come diventare un’azienda pet-friendly

              Diventare un’azienda pet-friendly richiede impegno e pianificazione, ma i benefici per il benessere dei dipendenti e la produttività sono notevoli. Implementando una policy chiara, coinvolgendo esperti e creando spazi adatti, si può garantire un ambiente di lavoro armonioso e accogliente per tutti.

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                Portare il proprio cane o gatto in ufficio può migliorare l’umore, ridurre lo stress e favorire le interazioni tra colleghi. Ma sono davvero poche finora in Italia le aziende che possono rendere un ufficio davvero pet-friendly. Chi ce la fa ha stabilità di comune accordo con i dipendenti precise regole di convivenza da seguire.

                Stabilire un comportamento comune

                Per prima cosa è fondamentale introdurre una policy formale che specifichi i requisiti per i proprietari e i loro animali. I dipendenti devono essere responsabili del comportamento, del benessere e dell’igiene dei propri pet, assicurandosi che non siano di intralcio al lavoro e mantenendo gli spazi puliti.

                Coinvolgere tutti i dipendenti anche chi non ha animali o decide di lascarli a casa

                Chi non possiede animali deve sentirsi a proprio agio e in grado di lavorare senza distrazioni. È importante quindi prevedere un processo per gestire eventuali lamentele e soluzioni per chi preferisce non entrare in contatto con gli animali, come aree pet-free o sale conferenze designate.

                Tutti vaccinati e ben addestrati

                Tutti gli animali che seguono i loro padroni in ufficio devono essere in regola con le vaccinazioni e privi di infezioni contagiose o parassiti. Devono essere ben educati, abituati a socializzare e senza comportamenti aggressivi. Prima di decidere di portare in ufficio il proprio cane o gatto, dopo l’accordo con la propria azienda, è consigliabile attivare una polizza assicurativa per coprire i costi di eventuali danni a cose e persone.

                Pulizia e gestione degli incidenti

                Prepararsi a gestire incidenti come sporcizia o danni è parte integrante di un ambiente pet-friendly. Le aziende dovrebbero fornire materiale per la pulizia e stabilire procedure per la disinfezione delle aree dopo gli incidenti aiuta a mantenere un ambiente sano per tutti.

                Delimitare aree pet-free

                Bisogna definire le aree dove gli animali non possono entrare, come spazi di produzione, laboratori, cucine o aree con attrezzature sensibili. Considerare anche aree dedicate a chi soffre di allergie per garantire un ambiente confortevole per tutti.

                Supporto degli esperti e certificati di buona condotta

                Collaborare con esperti del settore, come veterinari ed educatori cinofili, per formare i dipendenti. Iniziative come il patentino di buona condotta, che certifica il comportamento del cane e il rapporto con il proprietario, possono essere utili per garantire un ambiente armonioso.

                I benefici di lavorare accanto al proprio cane

                Secondo ricerche condotte da aziende come Mars e Purina, la presenza di animali domestici in ufficio può migliorare l’umore (47%), ridurre lo stress (42%) e stimolare la creatività (31%). Questi benefici si riflettono anche sulla produttività (27%) e sulle interazioni tra colleghi (40%).

                Strumenti e guide utili

                Mars ha prodotto un manuale intitolato “Pet friendly office: Teoria e pratici consigli per ospitare al lavoro gli amici a quattro zampe” per aiutare le aziende a diventare pet-friendly. Per il settore turistico, la guida “Dog-In-Dog-Out, Diventa leader nella Dog Hospitality” di Elisa Guidarelli ed Emanuele Clemente è una delle diverse pubblicazioni che fornisce consigli specifici per l’accoglienza degli animali.

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