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Cinema

Il diavolo veste Prada 2 sbarca a Milano: 2mila comparse cercasi per il sequel più fashion di sempre

Dall’8 al 16 ottobre la troupe sarà nel cuore della capitale della moda: Meryl Streep, Anne Hathaway ed Emily Blunt tra Quadrilatero e Brera. Casting aperti, ma servono requisiti precisi.

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    Milano si prepara a trasformarsi in set cinematografico internazionale. Dopo Parigi, tocca al Quadrilatero della moda e alle vie del centro accogliere “Il diavolo veste Prada 2”, sequel attesissimo che arriverà nelle sale il 1° maggio 2026. Le riprese in città sono fissate tra l’8 e il 16 ottobre, in una Milano ancora intrisa della polvere di stelle della fashion week (23-29 settembre). Il tempismo non è casuale: la produzione ha scelto di cavalcare l’atmosfera glamour lasciata dalle sfilate per portare sul grande schermo il cuore pulsante della moda italiana.

    E non si parla di comparse qualunque. Per una delle scene clou in Brera serviranno fino a 900 persone, per un totale stimato di 2mila figuranti. Ma i candidati devono avere almeno 30 anni ed essere già attivi nel mondo della moda, del design, della comunicazione o degli eventi. In alternativa, sarà il reparto costumi a occuparsi di trasformarli in degni protagonisti dello stile milanese. L’obiettivo è uno solo: restituire quell’eleganza innata che l’Italia porta sulle passerelle di tutto il mondo.

    Il primo ciak, secondo quanto riportato da Milano Finanza, dovrebbe scattare al RG Showroom. Poi, a cascata, toccherà alle location più iconiche della città. A guidare la carovana delle star sarà ancora una volta Meryl Streep, nei panni della temibile Miranda Priestley, affiancata da Anne Hathaway ed Emily Blunt. Un ritorno che fa già discutere i fan e incendia i social, dove da settimane circolano foto rubate dal set e ipotesi sulla trama.

    Ma di cosa parlerà questo secondo capitolo? Le certezze sono poche, le indiscrezioni invece abbondano. Variety anticipa che al centro della storia ci sarà la crisi dell’editoria cartacea e il ruolo sempre più dominante dei fondi pubblicitari: un tema che vedrà protagonista Emily, il personaggio interpretato da Emily Blunt, alle prese con un nuovo lavoro nel settore. Runway, la rivista simbolo della Miranda Priestley, dovrà affrontare la tempesta della rivoluzione digitale.

    Milano, in questo contesto, diventa molto più di un set: è simbolo e metafora di un’industria che cambia, un palcoscenico in cui moda e cinema si intrecciano fino a confondersi. L’attesa è spasmodica e cresce la curiosità: la produzione riuscirà a ricreare la magia del primo film, entrato nell’immaginario collettivo, e al tempo stesso aggiornare il racconto alla nuova era digitale?

    Per ora resta una certezza: la capitale della moda è pronta a vestirsi di cinema. E chissà se il pavé milanese riserverà ancora qualche imprevisto ad Anne Hathaway, come accadde con il celebre tacco rotto.

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      Cinema

      Eva Murati, la prima attrice italiana creata con l’intelligenza artificiale: debutta sul red carpet di Roma e parla ai giornalisti

      Occhi magnetici, sorriso perfetto e voce sintetizzata: Eva Murati è la prima attrice italiana interamente generata con l’intelligenza artificiale. Il progetto, sostenuto da EDI Effetti Digitali Italiani, esplora il confine tra creatività umana e tecnologia.

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        Ha calcato il red carpet come una star consumata, sorridendo ai flash e concedendo interviste come se fosse nata per questo. Ma Eva Murati, protagonista del cortometraggio The Last Image, non esiste. O meglio: non esiste in carne e ossa. È la prima attrice italiana interamente generata con l’intelligenza artificiale, una creazione che segna un nuovo capitolo nel rapporto tra cinema e tecnologia.

        Dietro di lei c’è HAI – Human & Artificial Imagination, il laboratorio creativo che ha realizzato il progetto con il supporto di EDI Effetti Digitali Italiani, una delle aziende leader europee nel campo dei visual effects.
        Il cortometraggio, diretto da Frankie Caradonna e prodotto da Film Affair, è il primo esperimento nazionale in cui l’intelligenza artificiale è coinvolta in tutte le fasi: scrittura, fotografia, montaggio e post-produzione. Ma non per sostituire l’uomo — per affiancarlo.

        Sul tappeto rosso della Festa del Cinema di Roma, Eva Murati si è comportata come una vera interprete: ha rilasciato dichiarazioni ai giornalisti («Sono felice di essere a Roma, città della Dolce Vita, film preferito di mia nonna») e ha posato per i fotografi con un’eleganza quasi inquietante nella sua perfezione. Un esercizio di stile che lascia intravedere il futuro del cinema digitale.

        The Last Image racconta un mondo prossimo al collasso, dove le immagini diventano l’ultimo ricordo dell’umanità. Un tema che dialoga con la stessa esistenza della sua protagonista, nata da un algoritmo ma modellata da mani umane. Oltre cinquanta professionisti — sceneggiatori, artisti visivi, tecnici e programmatori — hanno lavorato fianco a fianco con le macchine, dimostrando che la creatività artificiale può essere uno strumento, non un rivale.

        Il risultato è un cortometraggio che interroga, più che stupire: quanto è reale ciò che ci emoziona? E quanto siamo pronti ad accettare un volto sintetico sullo schermo, se riesce a farci sentire qualcosa di autentico?

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          Cinema

          Johnny Depp e Tim Burton: l’amicizia che ha resistito al dolore

          Durante le riprese di Sweeney Todd nel 2007, la figlia di Depp, Lily-Rose, si ammalò gravemente. Il regista interruppe la produzione per stargli accanto. Oggi, una docuserie racconta quell’episodio che ha cementato un legame umano oltre il set.

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          Johnny Depp e Tim Burton

            Johnny Depp e Tim Burton condividono da oltre trent’anni uno dei sodalizi più affascinanti del cinema contemporaneo. Ma dietro le atmosfere gotiche e visionarie dei loro film, si nasconde una storia di amicizia profonda, segnata anche dal dolore.
            A raccontarla è Depp nella docuserie in quattro parti Tim Burton: Life in the Line, diretta dalla regista Tara Wood, che esplora la carriera e l’universo creativo del cineasta americano.

            Nel terzo episodio, l’attore ricorda il 2007, anno in cui la sua vita si fermò bruscamente. Durante le riprese di Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, sua figlia Lily-Rose — allora di appena sette anni, nata dalla relazione con Vanessa Paradis — fu colpita da una grave infezione da Escherichia coli che compromise i reni, costringendola alla dialisi.
            “Tim ha fatto enormi sacrifici durante Sweeney,” racconta Depp. “Lo consideravo già parte della famiglia. Quando gli dissi che dovevo lasciare il film, lui mi fermò subito: ‘Non dirlo nemmeno, amico. Troveremo un modo’.”

            La produzione si fermò per quasi un mese. “Siamo rimasti in ospedale più di tre settimane,” ricorda l’attore. “Tim venne a trovarci il giorno dopo la telefonata, portando fiori. Si comportò da vero zio, da padrino amorevole. Non lo dimenticherò mai.”

            Derek Frey, storico produttore di Burton, conferma l’episodio nella docuserie: “La malattia di Lily-Rose cambiò l’atmosfera sul set. Era un film oscuro, e Johnny stava vivendo il suo personale incubo. Credo che quel dolore autentico abbia influenzato la sua interpretazione.”

            Fortunatamente, la storia ha avuto un lieto fine. Lily-Rose Depp si è completamente ristabilita e oggi, a 26 anni, è un volto emergente del cinema. Dopo il successo della serie The Idol, sarà tra le protagoniste del nuovo Nosferatu di Robert Eggers, in uscita nel 2025.

            “Quell’esperienza ci ha segnati per sempre,” ha dichiarato Depp. “Tim è rimasto vicino a me quando tutto sembrava crollare. Da allora, ogni film con lui è anche un atto di gratitudine.”

            La docuserie, che include interviste a Helena Bonham Carter, Danny Elfman e Michael Keaton, mostra un Tim Burton più umano che mai — e un Johnny Depp finalmente disposto a ricordare che, dietro il mito, c’è un uomo che ha imparato a sopravvivere anche grazie all’amicizia.

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              Cinema

              Anthony Hopkins, il silenzio degli abissi: “Quando bevevo parlavo con l’oceano. Ora dico a me stesso: è andata bene, ragazzino”

              “Quando bevevo avevo esperienze semi-religiose. Parlavo all’oceano di Malibu e lui mi rispondeva”, racconta Sir Anthony Hopkins nella sua autobiografia in uscita il 4 novembre per Longanesi. Smette di bere nel 1975: “Ovunque vada, l’abisso mi segue. È carburante per razzi, ma può distruggerti”.

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                A 87 anni Sir Anthony Hopkins si racconta senza filtri, con l’ironia e la profondità che hanno segnato ogni suo ruolo. Il due volte premio Oscar pubblica il memoir We did ok, kid (È andata bene, ragazzino), in uscita il 4 novembre per Longanesi. Un viaggio tra ricordi, fragilità e rinascita, dove il genio si intreccia al dolore e la gratitudine alla sopravvivenza.

                “Quando bevevo avevo esperienze semi-religiose. Pensavo di essere Giovanni Battista, parlavo all’oceano a Malibu e il mare mi rispondeva”, confessa l’attore, ricordando gli anni più bui della sua dipendenza. Hopkins smette di bere nel 1975, dopo aver toccato il fondo: “Ovunque io vada, l’abisso mi segue. È carburante per razzi. Ma può farti a pezzi e ucciderti”.

                L’alcol distrugge i suoi primi due matrimoni e mina il rapporto con l’unica figlia, Abigail. “Non abbiamo più rapporti, è la sua scelta. Dico ai giovani: se i vostri genitori vi fanno soffrire, andatevene. Vivete la vostra vita”. Oggi Hopkins parla di sé come di un uomo “semplicemente grato di essere vivo e di lavorare ancora”.

                Nel libro, tradotto da Alberto Pezzotta, l’attore ricorda la sua infanzia a Port Talbot, piccola città siderurgica del Galles: “Tengo sul telefono una foto di me e mio padre in spiaggia. Ogni tanto la guardo e mi dico: è andata bene, ragazzino”. Figlio di un fornaio, con una dislessia mai diagnosticata e un talento vorace, Hopkins costruisce la sua leggenda a forza di disciplina: legge ogni copione 250 volte ad alta voce e memorizza una poesia nuova ogni settimana per tenere viva la mente.

                Nel volume non mancano gli aneddoti sul set de Il silenzio degli innocenti, il film che gli regalò il primo Oscar. “Non so perché Jonathan Demme mi scelse, ma si fidò di me. Trovava divertente quanto fossi oltraggioso. L’idea che Hannibal Lecter fosse già in piedi nella cella fu mia: Clarice può sentire il suo odore, dissi a Jonathan. Mi guardò e rispose: sei davvero strano, Hopkins”.

                La voce di Lecter, spiega, è ispirata al “cinguettio tagliente” di Katharine Hepburn, unita alla freddezza ipnotica di Charles Manson. Un mix che lo rese immortale. E oggi, tra un dipinto e una nuova poesia imparata a memoria, il vecchio Anthony guarda il mare senza più parlare da solo — ma con la serenità di chi, dopo l’abisso, ha imparato ad ascoltare solo il silenzio.

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