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Musica

Amore senza guerra, famiglia senza polemiche: il Festival di Sanremo si rifugia nel “micromondo” voluto da Carlo Conti

Carlo Conti promette un mosaico musicale intimo e rassicurante, con più di 24 cantanti in gara. Un’edizione che evita di turbare e preferisce abbracciare il pubblico con semplicità, lasciando fuori le complessità del mondo contemporaneo.

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    Niente Fedez che bacia Rosa Chemical, basta Dargen D’Amico che racconta l’onda alta che sommerge una barca di migranti, stop a Tananai e alla sua disperata Tango che racconta la separazione di una coppia al tempo della guerra. L’amore fa rima con cuore, la famiglia è al centro di tutto e nessun grande tema potrà turbare le coscienze. È questa la ricetta del Festival di Sanremo secondo Carlo Conti, che si appresta a svelare i nomi dei cantanti in gara nel Tg1 delle 13:30 di domenica 1° dicembre. Le dichiarazioni rilasciate al podcast Pezzi: dentro la musica, condotto da Luca Dondoni, Andrea Laffranchi e Paolo Giordano, hanno già acceso il dibattito: sarà un Sanremo “intimista”, come lo definisce il suo direttore artistico, o semplicemente “allineato”, senza alcuna voglia di affrontare i grandi temi dell’attualità?

    Durante l’intervista, Conti ha spiegato che l’orientamento tematico delle canzoni in gara si concentrerà sul cosiddetto “micromondo”: “Non si parla più di immigrazione o guerra. Le canzoni raccontano il nostro intimo, i rapporti familiari, le cose umane che ci circondano.” Un ritorno alla dimensione personale e rassicurante, lontano dalle urgenze sociali e politiche che hanno caratterizzato alcune recenti edizioni del Festival.

    Parole che sembrano confezionate su misura per rassicurare i nostalgici della “domenica in famiglia” e gli spettatori che vogliono un Sanremo leggero, in grado di mettere tutti d’accordo. Ma non mancano le perplessità: se l’arte deve rispecchiare la realtà, come si può ignorare ciò che accade fuori dalla porta di casa? Forse l’assenza di temi come immigrazione e guerra è più una scelta strategica che artistica, per evitare discussioni scomode.

    Conti ha rivelato di aver già selezionato venti canzoni: “Le vedo come un grande mosaico o un bouquet di fiori.” Immagine poetica, certo, ma che lascia il dubbio su quanto spazio ci sia davvero per la varietà. Fiori, sì, ma di quale tipo? Tutti garofani bianchi, per non urtare nessuno, o anche qualche rosa con le spine?

    E poi, i numeri: i cantanti saranno più di 24, scelti tra una selezione finale che potrebbe arrivare fino a 40. Tra loro, secondo Conti, ci saranno molte donne, ma anche “qualcuno che non ha fatto un talent e che è meno conosciuto di certi ragazzi nei giovani.” Insomma, si promette un cast variegato, anche se già si vocifera della presenza di nomi che sanno di déjà-vu, come Albano o Anna Tatangelo, accanto ai sempre controversi Fedez e Tony Effe.

    Il direttore artistico, però, giura di non temere le polemiche: “Anche i rapper hanno portato cose orientate al pop, niente di aggressivo e per nulla banale.” Quasi una dichiarazione preventiva, come a dire: tranquilli, niente che possa turbare il vostro quieto ascolto serale.

    Ma davvero Sanremo può permettersi di essere così “rassicurante”? Dove sono finite le provocazioni di Achille Lauro, le canzoni che dividono e fanno discutere? È possibile che il Festival, nato per celebrare la musica italiana in tutte le sue forme, si riduca a una playlist da centro commerciale, pensata per non scontentare nessuno?

    Le scelte di Conti sembrano allinearsi a un clima politico e culturale che predilige il consenso alla rottura. L’assenza di tematiche come guerra e immigrazione è davvero una casualità, o è un riflesso dei tempi? Un Festival che parla solo di amore, famiglia e rapporti personali sembra perfettamente in linea con un’Italia che fatica a guardare oltre i confini del proprio salotto. Il rischio è che Sanremo perda l’opportunità di essere specchio della società, riducendosi a semplice intrattenimento. E andando a sbattere contro la noia.

    E se anche i rapper si adeguano al pop e i cantautori evitano di affrontare i grandi temi, viene da chiedersi: è Sanremo che cambia con i tempi o sono i tempi che lo rendono irrilevante? Il rischio è che, a forza di essere “intimista”, il Festival diventi un evento sterile, incapace di intercettare le complessità della realtà.

    La vera sfida sarà vedere se il “bouquet di fiori” di Conti riuscirà davvero a sorprendere. Saranno rose rosse o solo margherite spampanate? Le canzoni parleranno davvero al cuore delle persone o si limiteranno a lisciare il pelo al pubblico? C’è spazio per l’innovazione, per quei brani che, pur partendo dal “micromondo”, riescono a toccare corde universali?

    Forse sarà proprio uno degli artisti meno conosciuti a portare quella ventata di freschezza e autenticità di cui il Festival ha bisogno. Magari qualcuno che, senza clamore, saprà parlare al pubblico con parole sincere. Il sipario sta per alzarsi, e noi saremo lì, pronti a emozionarci, a criticare, a discutere. Perché Sanremo, nel bene e nel male, è Sanremo. E fa parte di noi. Forse è proprio questo il suo segreto più grande.

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      Musica

      Springsteen da Fazio: «Non possiamo diventare un’autocrazia. L’America deve restare libera»

      In collegamento con Fabio Fazio, Bruce Springsteen parla del film sulla sua vita e dell’America di oggi: «Abbiamo commesso errori, ma non abbiamo mai perso la democrazia. Io continuerò a difenderla».

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        Bruce Springsteen e Jeremy Allen White, il Boss e il suo alter ego cinematografico, appaiono fianco a fianco nello studio di Che tempo che fa. In collegamento con Fabio Fazio, i due presentano Springsteen: Liberami dal Nulla, il primo film autorizzato dal leggendario cantautore sulla propria vita, in uscita il 23 ottobre.

        Un incontro raro, in cui musica, cinema e introspezione si fondono. Il film — diretto da Scott Cooper — racconta gli anni cruciali tra il 1981 e il 1983, quelli che portarono alla nascita di Nebraska, l’album più intimo e spoglio del Boss. «Non so se sia stato coraggioso raccontarli — dice Springsteen — ma di certo è stato interessante. In quel periodo attraversavo una grande transizione, anche sul piano della salute mentale. Mi sono chiuso in una stanza e ho dovuto affrontare i miei demoni».

        Fazio lo incalza scherzando sulla “orribile moquette arancione” in cui nacquero i brani del disco. Springsteen sorride: «L’arancione era anche il colore preferito di Sinatra! Io ho solo cercato di seguire la mia musa: la musica. Non mi preoccupo mai se un disco avrà successo, mi interessa la verità».

        Jeremy Allen White, reduce dal successo di The Bear, confessa la difficoltà di vestire i panni di un’icona vivente: «Non è stato semplice interpretare un idolo così venerato. Ho studiato ogni suo gesto, ho imparato a suonare e a cantare. Ma soprattutto ho capito che il suo modo di fare musica nasceva proprio in quegli anni: dal bisogno di essere autentico».

        La risposta di Springsteen è una carezza: «Ha fatto un ottimo lavoro. Penso che licenzierò Steven Van Zandt e lo sostituirò con Jeremy nella E Street Band», scherza.

        Ma il tono si fa più serio quando si parla del rapporto con il padre: «Ho visto il film la prima volta con mia sorella — racconta — e insieme abbiamo rivisto la nostra famiglia. È stato toccante. Credo che in quella storia ci sia tutto: il dolore, la rabbia e anche la speranza».

        Poi, inevitabile, arriva la domanda sull’America di oggi. Il Boss si fa grave: «È un momento in cui non si possono non avere dubbi su dove stiamo andando. In 250 anni abbiamo combattuto per la libertà e siamo stati un esempio di democrazia positiva. Abbiamo fatto errori, certo, ma non abbiamo mai conosciuto l’autocrazia. Io farò del mio meglio, con la mia piccola influenza, perché resti così».

        Parole semplici, ma di un peso enorme. L’ennesima prova che, a 75 anni, Bruce Springsteen resta la voce più limpida — e più necessaria — del sogno americano.

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          Victoria Beckham riaccende i sogni dei fan: “Una reunion delle Spice Girls? Mai dire mai, allo Sphere di Las Vegas sarebbe fantastico!”

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            C’è un barlume di speranza per i fan delle Spice Girls, e arriva proprio da chi meno se lo aspettavano: Victoria Beckham. Intervistata sulla possibilità di una reunion, l’ex Posh Spice ha lasciato intendere che un ritorno sul palco non è del tutto escluso.

            «Non solo non rinnego nulla – ha detto – ma ti dico che amo le ragazze. Non sarei quella che sono oggi se non fossi stata con loro. Prima di entrare nel gruppo ero insicura, poi loro mi hanno dato forza, identità, coraggio». Parole che suonano come un atto d’amore verso le sue ex compagne Mel B, Mel C, Emma Bunton e Geri Halliwell, con cui negli anni ha condiviso la leggenda di una delle band più iconiche degli anni Novanta.

            Ma Victoria resta, come sempre, la più razionale del gruppo. Quando le chiedono se sarebbe pronta a tornare a cantare, risponde con il suo consueto aplomb britannico: «Non so nemmeno se saprei ancora farlo, insomma… non sono mai stata così brava!». E poi aggiunge, ridendo: «Allo Sphere di Las Vegas? Devo ammettere che sarebbe allettante. Quanto sarebbero brave le Spice Girls in quello show! Mi piace l’idea, tanto. Ma un tour mondiale? No, non posso. Ho un lavoro…».

            Un mix perfetto di nostalgia e autoironia, che ha scatenato i fan sui social: c’è chi sogna già il grande ritorno e chi si accontenterebbe anche di un’unica serata celebrativa, magari proprio nel futuristico Sphere di Las Vegas, il nuovo tempio delle performance immersive.

            Dopo oltre venticinque anni dal debutto di Wannabe, le Spice Girls restano un simbolo culturale che va oltre la musica: cinque donne che hanno rivoluzionato il pop e incarnato lo “girl power” in un’epoca che di femminismo parlava ancora sottovoce.

            E se Victoria Beckham non promette nulla, il suo “mai dire mai” basta a riaccendere la speranza di milioni di fan. Perché, in fondo, una volta Spice, sempre Spice.

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              Irama, tra vita e morte: il ritorno più intimo del cantautore con Antologia

              A tre anni dall’ultimo album, Irama torna con Antologia della vita e della morte, un viaggio tra ricordi, addii e rinascite. Un disco maturo e profondamente personale che segna una nuova fase della sua carriera, in attesa della grande sfida live a San Siro nel 2026.

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              Irama

                Dopo tre anni di silenzio discografico, Irama torna con un progetto che promette di lasciare il segno. Antologia della vita e della morte, in uscita il 17 ottobre 2025 per Warner Music Italy, è molto più di un semplice album: è un racconto esistenziale, un mosaico di emozioni e memorie che si intrecciano come capitoli di una storia personale e universale insieme.

                «Volevo fare un disco che fosse come una casa», spiega il cantautore. «Un luogo dove ogni stanza rappresenta un ricordo, un dolore o un amore che mi ha formato». Così nasce Antologia della vita e della morte, un lavoro che alterna malinconia e speranza, oscurità e luce, in perfetto equilibrio tra introspezione e teatralità musicale.

                Tra addii e rinascite

                Il disco esplora il tema del ricordo e della perdita, ma anche quello della rinascita emotiva. Brani come Senz’anima e Mi mancherai moltissimo affrontano con delicatezza la fragilità degli addii, mentre Arizona (con Achille Lauro) e Ex (in duetto con Elodie) raccontano la fisicità dei sentimenti e la complessità delle relazioni.

                Non manca la collaborazione con Giorgia, che presta la sua voce a Buio, una delle tracce più intense del progetto. «Sono felice di aver condiviso queste canzoni con artisti che stimo e con cui ho un legame vero. Ogni collaborazione è nata in modo naturale, senza calcoli», racconta Irama.

                Un titolo che è un manifesto

                Il titolo Antologia della vita e della morte è arrivato solo alla fine del processo creativo, ma oggi appare come il simbolo perfetto del disco. «È un omaggio a Fabrizio De André e all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters», spiega l’artista. «Come in quei racconti, anche qui c’è la voce di tante anime che si confrontano con la propria esistenza».

                Il dualismo tra vita e morte, tra bene e male, tra luce e ombra attraversa tutto l’album. «È un equilibrio eterno — racconta — che appartiene a tutte le culture e che mi affascina da sempre. La mia musica cerca di raccontarlo senza paura».

                Una lunga gestazione tra tour e riflessione

                Scritto in gran parte durante il tour successivo a Il giorno in cui ho smesso di pensare (2022), il disco è frutto di un lungo periodo di viaggi, concerti e introspezione. «Sono quasi dieci anni che non mi fermo — confessa Irama — e a volte questo ritmo ti aliena. Ma ho cercato di restare in contatto con la realtà, di vivere esperienze che potessero arricchirmi davvero, non solo artisticamente».

                È un album pensato per il live, con arrangiamenti organici e una forte componente strumentale. «Voglio che le canzoni respirino, che si senta il suono della band, il calore del palco. Ogni brano è nato per essere suonato davanti alle persone».

                Tra mito e realtà: la poesia di “Circo”

                Tra le canzoni più narrative c’è Circo, una favola moderna che racconta la storia di una ballerina cacciata dagli dèi per invidia. «È una metafora dell’utopia della perfezione — spiega —. Spesso guardiamo le vite perfette degli altri senza vedere le loro crepe. È un brano sull’illusione e sulla fragilità umana».

                “Il giorno”: la chiusura come nuovo inizio

                Il disco si conclude con Il giorno, una traccia che affronta temi difficili come l’ansia e gli attacchi di panico, ma con una sonorità luminosa. «Volevo chiudere con una canzone che fosse un respiro, una porta aperta. Dopo il buio, arriva sempre un nuovo giorno».

                Verso San Siro: la consacrazione live

                Il percorso artistico di Irama troverà il suo culmine l’11 giugno 2026, quando il cantautore si esibirà per la prima volta allo Stadio San Siro di Milano. «Sto già lavorando a uno spettacolo che voglio sia indimenticabile. Sul palco saremo in trenta: voglio portare la mia musica alla sua forma più viva e autentica».

                Con Antologia della vita e della morte, Irama compie un passo decisivo nella sua evoluzione artistica. È un disco che abbraccia la vulnerabilità come forza, la memoria come bussola, la musica come spazio sacro di verità.

                «Ho imparato che la perfezione non esiste — conclude —. Ma la sincerità, quella sì, è l’unica forma di perfezione che vale la pena inseguire».

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