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Televisione

2024: che anno è stato, televisivamente parlando

Vi raccontiamo un anno vissuto intensamente, seguito dal salotto di casa con il telecomando in mano. Tutto quello che avete apprezzato… ed anche quello che vi siete persi.

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    Per parlare del 2024 sul piccolo schermo una data va citata immediatamente: il 23 dicembre 2023 si viene a sapere della rottura dello storico rapporto tra Amadeus e il suo agente Lucio Presta. Fino a quel momento “Ama” era il personaggio più importante della nostra televisione italiana, in grado di portare il Festival di Sanremo a inimmaginabili risultati di audience, con una raccolta pubblicitaria record: 60,2 milioni di euro. Tutte le sere rappresenta un traino eccezionale nel cosiddetto access prime time con Affari tuoi. E pensare che si tratta di un format che la Rai aveva messo nel cassetto, mostrando di non puntarci più: merito di Amadeus l’averlo riportato ai fasti di un tempo.

    Voglia di nuovo

    Ma il conduttore, come tutti sanno, animato dal sacro fuoco di percorrere strade nuove, col mancato rinnovo del contratto Rai, passa al gruppo Warner Bros. Discovery a partire dal 1° settembre. La televisione per lui – ma anche per gli spettatori – non sarà più la stessa.

    Buon compleanno tv: sono 70!

    La parabola di Amedeo Sebastiani in arte Amadeus rappresenta alla perfezione la fragilità dello show biz televisivo: da genio dei grandi numeri a personaggio preso in giro da media e social, a volte in maniera impietosa e senza pudore. La tv, nel frattempo, compie 70 anni, almeno in Italia. Dimostrandosi sempre in buona salute e con l’audience in crescita rispetto al 2023. Nonostante le piattaforme e i canali tematici, la tv giornalista regge bene: i canali Rai e Mediaset intercettano circa il 75% degli ascolti televisivi nelle 24 ore e in prima serata. Le sole sei reti generaliste (le tre di Rai e le tre di Mediaset) raggiungono il 55% nelle 24 ore e il 60% in prime time. Sono loro, ancora oggi, a dominare il mercato del piccolo schermo.

    Quanto tempo spendiamo davanti al teleschermo

    Gli italiani dedicano mediamente oltre 3 ore e 16 minuti al giorno al consumo di televisione tradizionale e quasi 44 minuti a tutti gli altri consumi sul televisore domestico (in primis le piattaforme Netflix, Amazon Prime Video, Disney+e simili… ma anche in materia di gaming e navigazione). Basti pensare che in America la tv tradizionale occupa appena 2 ore e 19 minuti di consumo al giorno; 2 ore e 18 minuti in Gran Bretagna; 2 ore e 50 in Germania e Spagna; 2 ore e 57 minuti in Francia.

    La politica di governo contro il taglio del canone Rai: ma guarda…

    Il 2024 si è chiuso con il gruppo Rai davanti a Mediaset in prime time, e con Rai 1 nettamente davanti a Canale 5 in prima serata. Anche se i paragoni in questo ambito non hanno molto senso: Rai gode di risorse come il canone e per questo motivo deve necessariamente rivolgersi parlare a tutti i target, nessuno escluso. Mediaset, di contro, vive di sola pubblicità e sviluppa quindi un’offerta di contenuto per target commerciali fino ai 64 anni, attraverso strategie molto particolari, lontane dalle logiche da servizio pubblico di Rai. Forza Italia, espressione della famiglia Berlusconi/Mediaset, si è battuta non a caso contro il taglio del canone Rai, che anche nel 2025 resterà a 90 euro, per dare risorse al servizio pubblico evitando che la tv di Stato si butti con troppo entusiasmo sul mercato della pubblicità.

    Gente che va, gente che viene

    Rai ha perso Amadeus e Fiorello, soffrendo per l’eliminazione prima del previsto dell’Italia agli Europei di calcio. Meglio, invece, è andata con le Olimpiadi di Parigi, anche se gran parte dei nuovi programmi proposti per il palinsesto autunnale si sono rivelati un flop. Anche se la sorpresa Stefano De Martino al posto di Amadeus alla conduzione di Affari tuoi ha addirittura migliorato le audience, risultando un ottimo apripista un traino perfetto per tutti i programmi di prima serata di Rai 1. Pure il collaudato Ballando con le stelle è stato un grande successo.

    Per Mediaset record di utili con programmi qualitativamente modesti

    Pier Silvio gonfola: Mediaset chiuderà l’anno con utili record, anche se la qualità dei contenuti resta piuttosto bassa. Imperversano i reality, le soap di serie B e l’intrattenimento firmato Maria De Filippi, con un programma storico come Striscia la notizia che mostra la corda.

    Gli altri

    Bene Warner Bros. Discovery che gode dei benefici del primo anno pieno con Fabio Fazio, insiema a Maurizio Crozza e pure la Corrida di Amadeus. Per Sky il 2024 è stato un anno di svolta, con gli utili sempre più vicini, grazie anche all’ultima edizione di X-Factor e il ritorno in grande stile della Gialappa’s band. E’ sua la serie dell’anno più bella: quella dedicata al duo pop degli 883. La7 registra ascolti solidi e conti in equilibrio, mentre prosegue la crisi di Dazn, che non ha più esclusive. Crescono Netflix, Prime Video e Disney+.

    La non centralità della figura del conduttore: Carmelita docet…

    In definitiva, la dimostrazione che quasi sempre il canale e soprattutto i format contano più dei conduttori. E’ un anno che Mediaset ha tagliato un cavallo di razza come Barbara d’Urso, senza accusare nessun contraccolpo. A parte le litanie da parte dei suoi fedelissimi adepti, che ancora la piangono… ma che non incidono sul bilancio.

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      Televisione

      Sandokan vola negli ascolti ma naufraga nel resto: il remake che tradisce Salgari e offende il mito della Tigre della Malesia

      Can Yaman inespressivo, Yanez trasformato in una macchietta, personaggi snaturati e sceneggiatura piena di forzature. Il ritorno della Tigre della Malesia, atteso per cinquant’anni, si trasforma in un’operazione senza anima, dove l’estetica batte la sostanza e la magia salgariana evapora.

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        Il dato nudo e crudo è impressionante: quasi sei milioni di spettatori e uno share che sbriciola la concorrenza. Un trionfo, sulla carta. Ma se si va oltre la curva degli ascolti, il nuovo Sandokan appare per quello che è: un’operazione patinata che somiglia più a una telenovela turca girata sul Tirreno che al capolavoro salgariano amato da generazioni. Le spiagge di Lamezia, bellissime, fanno il loro dovere. Il resto arranca.

        Can Yaman, scelto come protagonista, entra in scena con lo stesso entusiasmo di chi deve sostenere un esame senza aver aperto il libro. Bello, sì, instagrammabile anche, ma impacciato, rigido, incapace di restituire un grammo dell’intensità selvaggia del personaggio nato dalla penna di Emilio Salgari. Ci prova con lo sguardo feroce, ma il risultato è una Tigre della Malesia che sembra imitare sé stessa, come un bambino a una recita scolastica.

        Non va meglio con Alessandro Preziosi, un Yanez da Gomera trasformato in comico involontario. Faccine, smorfie, battute fuori tempo: il compagno di mille avventure di Sandokan diventa una caricatura, un guizzo sopra le righe che smonta qualsiasi tensione narrativa. Marianna, ribattezzata Lady Maryam, è riscritta in chiave proto-femminista per ragioni che nulla hanno a che fare con il personaggio originale. Tutto è ritoccato, ribaltato, ricalibrato come se Salgari fosse un autore qualunque da aggiornare per compiacere l’algoritmo.

        Il risultato è un racconto che non scorre, non vibra, non emoziona. È un lungo tentativo di modernizzare ciò che non andava toccato, con la presunzione tipica di chi crede che basti aggiungere qualche dramma sentimentale e una dose abbondante di CGI per ricreare la magia. Ma Sandokan non è mai stato un esercizio di stile: era un mondo incantato, un’epica dell’avventura, un romanzo da maneggiare in punta di piedi. Qui, invece, i personaggi vengono svuotati, la trama appesantita da trovate discutibili e persino la tigre appare come un pupazzo spaesato.

        Il paradosso è che l’impegno produttivo è evidente: mezzi importanti, scenari spettacolari, ambizioni internazionali. Ma quando manca il cuore, tutto il resto diventa accessorio. Il vero problema non è la scelta di un attore turco per interpretare un principe malese; non è neppure la Calabria al posto del Borneo. È il tradimento dell’anima. È l’aver confuso l’omaggio con la riscrittura, l’avventura con il feuilleton, l’incanto con la posa.

        A questo punto non resta che arrendersi all’evidenza: Sandokan meritava amore, non un lifting narrativo. Per chi è cresciuto leggendo Salgari, questa non è nostalgia. È delusione pura. E non c’è share che possa salvarla.

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          Televisione

          Charlie Hunnam, l’uomo che guarda nell’abisso: “Interpretare Ed Gein mi ha terrorizzato”

          Tra trasformazioni fisiche estreme, introspezione psicologica e la sfida di umanizzare il male: il ritorno di Hunnam segna una delle prove più intense della sua carriera.

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          Charlie Hunnam

            Non è facile spaventare Charlie Hunnam. Eppure, lo stesso attore che per anni ha incarnato il carisma ribelle di Sons of Anarchy ammette che il suo ultimo ruolo lo ha «terrorizzato». Il motivo è semplice: per la terza stagione della serie antologica di Netflix Monster, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, Hunnam è chiamato a vestire i panni di Ed Gein, il serial killer del Wisconsin la cui storia ha ispirato capolavori come Psycho, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti.

            L’interpretazione ha richiesto all’attore britannico un’immersione profonda e disturbante nei meandri della mente umana. «Questo ruolo mi ha costretto a guardare il lato più oscuro dell’uomo — ha raccontato in un’intervista —. Non volevo che diventasse una caricatura del male. Dovevo capire come un essere umano possa arrivare a tanto».

            Un viaggio nella follia americana

            Ambientata negli anni Cinquanta, Monster: La storia di Ed Gein ricostruisce la vicenda del “macellaio di Plainfield”, noto per i suoi crimini che scioccarono l’America rurale. Dopo il successo mondiale delle precedenti stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e John Wayne Gacy, la nuova serie ha debuttato in vetta al catalogo Netflix, generando al contempo entusiasmo e polemiche per il modo crudo e realistico con cui rappresenta la violenza.

            Hunnam, 45 anni, ha dovuto affrontare un intenso lavoro di preparazione: ha perso circa 14 chili per riprodurre la corporatura esile del vero Gein, ha studiato ore di registrazioni dell’interrogatorio e ha visitato la sua cittadina natale. «La parte più difficile non è stata la trasformazione fisica, ma la comprensione psicologica», ha spiegato. «Dietro le sue azioni c’erano traumi, isolamento e una malattia mentale mai curata. L’obiettivo era mostrare l’uomo prima del mostro».

            Da Newcastle a Hollywood: la parabola di un ribelle

            Nato nel 1980 a Newcastle upon Tyne, Hunnam è cresciuto nel nord industriale dell’Inghilterra, tra pub, campi da calcio e una famiglia segnata da difficoltà economiche. Dopo un’infanzia turbolenta e un trasferimento forzato nella tranquilla Cumbria, trova nella recitazione la sua via di fuga. Scoperto quasi per caso da un talent scout della BBC, debutta a 17 anni nella serie Byker Grove e poco dopo conquista l’attenzione del pubblico in Queer as Folk, dove interpreta un adolescente alla scoperta della propria identità.

            Il salto internazionale arriva con Sons of Anarchy (2008–2014), in cui dà vita a Jax Teller, il tormentato leader di una gang di motociclisti. Quel ruolo lo consacra come icona maschile e simbolo del ribelle moderno. Da allora, alterna cinema e tv in produzioni di prestigio come Pacific Rim di Guillermo del Toro, Civiltà perduta di James Gray, King Arthur e The Gentlemen di Guy Ritchie.

            Il metodo Hunnam: tra dedizione e tormento

            Per affrontare il ruolo di Gein, l’attore ha adottato un metodo quasi ascetico. «Ho vissuto da solo per settimane, limitando i contatti con il mondo esterno», ha rivelato. Durante le riprese, ha evitato ogni distrazione, immergendosi completamente nella parte. «Più studiavo la sua vita, più capivo che interpretarlo significava affrontare le paure più profonde, le mie e quelle di chiunque».

            Al termine delle riprese, Hunnam ha compiuto un gesto simbolico: ha visitato la tomba di Ed Gein, lasciandosi alle spalle il personaggio. «Ho voluto salutarlo — ha detto —. Gli ho promesso che avrei raccontato la sua storia con rispetto, ma che non l’avrei portato con me».

            Critiche e riflessioni: chi è il vero mostro?

            Come spesso accade con le opere di Ryan Murphy, anche questa stagione ha sollevato dibattiti sull’etica della rappresentazione del male. Hunnam, però, difende la scelta artistica: «Non stiamo glorificando la violenza. La nostra intenzione è capire. Mostrare il male per ciò che è: un fallimento umano e sociale».

            E lancia una provocazione: «Gein era il mostro della storia, ma chi è il mostro oggi? Hitchcock, che ha trasformato la sua vicenda in intrattenimento? O noi spettatori, che guardiamo queste storie per sentirci al sicuro di fronte all’orrore degli altri?».

            Un attore, due vite

            Lontano dai set, Hunnam conduce un’esistenza sorprendentemente riservata. Da quasi vent’anni è legato alla designer di gioielli Morgana McNelis, con cui vive in California, tra natura e discrezione. «Sono con lei da metà della mia vita», ha raccontato. «Non ho bisogno di un certificato per sapere che è la persona giusta».

            Nel 2025, con Monster: La storia di Ed Gein, Hunnam dimostra di essere più di un sex symbol o di un eroe da action movie: è un attore che non teme di sporcarsi le mani con l’oscurità. E forse è proprio questa vulnerabilità, questa capacità di guardare dentro l’abisso senza arretrare, che lo rende — ancora oggi — una delle figure più complesse e affascinanti di Hollywood.

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              Televisione

              Enzo Paolo Turchi: “Mi chiamavano gay perché ballavo. Succede ancora, ma molto meno. Il palco mi ha salvato dalla fame e dal dolore”

              Ha danzato con Raffaella Carrà, fatto innamorare il pubblico di tutto il mondo e resistito a una vita che non gli ha risparmiato nulla. Enzo Paolo Turchi, oggi 74 anni, riceve il Premio Arte in Danza a Cava de’ Tirreni e si racconta senza filtri: “Questo riconoscimento vale doppio, perché viene dalla mia terra. È qui che ho iniziato a ballare, da scugnizzo dei Quartieri Spagnoli”.

              “Mi chiamavano ricchione perché ballavo”

              L’infanzia è stata un campo di battaglia: “Mi chiamavano ‘ricchione’ quando scendevo in strada. Succede ancora oggi, ma molto meno. A volte è colpa di messaggi sbagliati: la danza non è femminile, è forza, disciplina e sacrificio.” A otto anni lavorava in una bisca per venti lire al giorno, “per potermi comprare un panino”. Poi la tragedia: “Le mie due sorelline, Flora e Fausta, morirono schiacciate da un carrarmato. Dopo, mia madre impazzì. Io rimasi solo e piangevo ogni notte. Ancora oggi non riesco a stare senza la mia famiglia accanto.”

              Carrà, Falana e la gelosia

              La consacrazione arriva con Raffaella Carrà e il mitico Tuca Tuca: “Nacque per scherzo a casa di Raffaella. Durante le prove i dirigenti Rai dissero che era osceno. Alla fine ci concessero una puntata e fu un trionfo. Quando Sordi chiese di ballarlo con lei, lo portammo in tutto il mondo.” Sulla loro intesa, Turchi resta vago: “Sono affari nostri. Ma sì, quando mi fidanzai con Lola Falana, Raffaella non mi parlò più. Poi mi richiamò e ripartimmo insieme per una tournée.”

              Il mestiere e la polemica

              Ancora oggi non risparmia critiche al piccolo schermo: “A Ballando con le Stelle non potrei fare il giudice, lì sono opinionisti. La danza è una cosa seria, servono dieci anni di studio, non tre mesi di prove.”

              Una vita da romanzo

              Nel suo lungo percorso, Turchi ha lavorato con Sinatra, Liza Minnelli, Julio Iglesias e Barry White: “Dovevo ballare su una sua base, invece lo trovai lì al pianoforte. Mi tremavano le gambe.” Oggi vive con Carmen Russo, la loro figlia Maria e una pensione da 900 euro: “Quando lo dissi non parlavo per me, ma per tutti i ballerini. È un mestiere che ti toglie tutto, ma ti regala l’eternità di un applauso.”

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                Ha danzato con Raffaella Carrà, fatto innamorare il pubblico di tutto il mondo e resistito a una vita che non gli ha risparmiato nulla. Enzo Paolo Turchi, oggi 74 anni, riceve il Premio Arte in Danza a Cava de’ Tirreni e si racconta senza filtri: “Questo riconoscimento vale doppio, perché viene dalla mia terra. È qui che ho iniziato a ballare, da scugnizzo dei Quartieri Spagnoli”.

                “Mi chiamavano ricchione perché ballavo”

                L’infanzia è stata un campo di battaglia: “Mi chiamavano ‘ricchione’ quando scendevo in strada. Succede ancora oggi, ma molto meno. A volte è colpa di messaggi sbagliati: la danza non è femminile, è forza, disciplina e sacrificio.” A otto anni lavorava in una bisca per venti lire al giorno, “per potermi comprare un panino”. Poi la tragedia: “Le mie due sorelline, Flora e Fausta, morirono schiacciate da un carrarmato. Dopo, mia madre impazzì. Io rimasi solo e piangevo ogni notte. Ancora oggi non riesco a stare senza la mia famiglia accanto.”

                Carrà, Falana e la gelosia

                La consacrazione arriva con Raffaella Carrà e il mitico Tuca Tuca: “Nacque per scherzo a casa di Raffaella. Durante le prove i dirigenti Rai dissero che era osceno. Alla fine ci concessero una puntata e fu un trionfo. Quando Sordi chiese di ballarlo con lei, lo portammo in tutto il mondo.” Sulla loro intesa, Turchi resta vago: “Sono affari nostri. Ma sì, quando mi fidanzai con Lola Falana, Raffaella non mi parlò più. Poi mi richiamò e ripartimmo insieme per una tournée.”

                Il mestiere e la polemica

                Ancora oggi non risparmia critiche al piccolo schermo: “A Ballando con le Stelle non potrei fare il giudice, lì sono opinionisti. La danza è una cosa seria, servono dieci anni di studio, non tre mesi di prove.”

                Una vita da romanzo

                Nel suo lungo percorso, Turchi ha lavorato con Sinatra, Liza Minnelli, Julio Iglesias e Barry White: “Dovevo ballare su una sua base, invece lo trovai lì al pianoforte. Mi tremavano le gambe.” Oggi vive con Carmen Russo, la loro figlia Maria e una pensione da 900 euro: “Quando lo dissi non parlavo per me, ma per tutti i ballerini. È un mestiere che ti toglie tutto, ma ti regala l’eternità di un applauso.”

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