Televisione
Da “Fatti mandare dalla Fiamma” a El Diablo: Perfidia celebra la politica tra canzoni, duelli e confessioni. E c’è anche spazio per la commozione.
Perfidia mescola ironia tagliente, duelli politici senza esclusione di colpi e confessionali che mettono a nudo i protagonisti della scena pubblica, alternando sarcasmo e leggerezza. Poi, con il ricordo di Jole Santelli e le sue parole sulla giustizia, lo show regala un momento di autentica emozione
È più perfido far cantare una canzone a un politico esponendolo senza pietà – per la maggior parte dei casi – alle forche caudine di una brutta figura o farlo inginocchiare a centro studio per fargli confessare le sue malefatte? Ah, saperlo… Il busillis di Perfidia sta proprio in questo: nella sua capacità di sbeffeggiare i luoghi comuni, i falsi slogan e le povertà intellettuali di un certo modo di fare politica, portando alla luce con spietata ironia tutto ciò che di più imbarazzante risiede nei cliché del dibattito pubblico.
E lo studio del talk show più malandrino della tv italiana, condotto con mano ferma da Antonella Grippo, riesce a mettere in scena ogni venerdì proprio quel teatrino per cui, se uno è di sinistra, dice sempre le stesse cose, se uno è di destra pure, e se uno è di area Cinque Stelle tira fuori la guerra in Ucraina anche se si parla della ricetta della pasta alla carbonara o delle tecniche di cucito punto croce.
Il bello è che la sulfurea conduttrice – che del programma è signora assoluta, essendone ideatrice, autrice e protagonista in primis – può sempre contare su una platea di nomi di primo piano della politica, del giornalismo e della cultura italiana. Di quelli – per capirci – che normalmente bazzicano i salotti di Bruno Vespa o di Giovanni Floris, frequentano Paolo Del Debbio, Corrado Formigli e Bianca Berlinguer. Una lista che garantisce non solo dibattiti di alto livello ma anche quel mix di tensione e spettacolo che tiene incollati gli spettatori al teleschermo.
Questa volta i collegamenti esterni vedono protagonista Licia Ronzulli, vicepresidente del Senato di Forza Italia; Pina Picierno del Partito Democratico, che è la vicepresidente del Parlamento Europeo; il collega Gianni Barbacetto, firma di punta de Il Fatto Quotidiano; Alessandro Cattaneo, vicecoordinatore di Forza Italia e l’avvocato Antonia Postorivo, tra i nomi più noti in campo legale a livello nazionale per quanto riguarda la libertà di stampa.
Insomma, uno schieramento di primo piano, capace di far tremare i polsi a qualsiasi conduttore di talk show. Ma non alla bionda matadora Grippo, che ha esperienza e grinta da vendere e che conduce in porto un’altra puntata scoppiettante, da sorseggiare davanti alla tv come un buon vino d’annata.
Dopo che per comporre il titolo della scorsa puntata era stato chiamato in causa Lucio Dalla – con un “Sarà tre volte pasquale” che riecheggiava il Natale dell’Anno che verrà – questa settimana è il turno di un altro mostro sacro della canzone popolare, Gianni Morandi. Fedele alla missione iconoclastica di Perfidia, la sua hit più famosa viene distorta in “Fatti mandare dalla… Fiamma” e va a immortalare il viaggio toccata e fuga della premier Giorgia Meloni alla corte di Trump.
Dimostrazione di potenza politica da parte della premier italiana o inchino per baciare la pantofola di re Donald da Mar-a-Lago? Anche qui, com’è ovvio, la risposta cambia a seconda dell’appartenenza politica dell’interpellato. Se la sinistra abbozza, ingoia amaro e minimizza i successi di sora Giorgia, la destra porta la discussione su vette quasi agiografiche, proponendone la santificazione in vita. Ma alla fine l’applauso per la liberazione della giornalista Cecilia Sala è bipartisan: uno a zero per la Meloni e palla al centro.
In studio, come di consueto, giostrano i grandi nomi della politica calabrese, pronti a duellare all’ultimo sangue, con un pugnace Nico Stumpo, capolista in Regione del PD, a scambiarsi stoccate con Giuseppe Neri, consigliere regionale ed ex capogruppo di Fratelli d’Italia. Ed è proprio la presenza di Neri, reduce da una pesante vicenda giudiziaria e umana, a dare fuoco alle polveri.
Coinvolto in un’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia reggina per un presunto scambio di voti e favori tra politica e criminalità organizzata, ha recentemente visto sia il giudice per le indagini preliminari sia il Tribunale della Libertà certificare non solo la sua totale estraneità ai fatti ma anche la non configurabilità del reato di cui era accusato.
Un bel caso per Perfidia, che sul riconoscimento delle responsabilità penali dei magistrati ha sempre costruito una delle sue narrazioni più graffianti. Come ricorda l’avvocato Postorivo, spesso una persona rimane stritolata dalle accuse dei magistrati inquirenti, rovinata nella professione, nella carriera politica e negli affetti più cari. E quando risulta essere estraneo ai fatti, nessuno paga per il disastro subito.
Un momento toccante, quello del racconto di Neri, che con una gran dose di autoironia accetta anche di sottoporsi all’inginocchiatoio di Perfidia, rispondendo alle domande spesso indiscrete di Antonella Grippo e venendo poi assolto da Sua Santità El Diablo.
Stumpo non è da meno e risponde colpo su colpo, accettando di concorrere all’X Factor della Politica, la gara canora che vede gli ospiti del programma cimentarsi accompagnati dal pianoforte del maestro Pasquale Tucci. Sceglie A mano a mano di Rino Gaetano e il risultato non è affatto male, tanto da fargli scalare la classifica provvisoria del gioco più divertente dell’anno.
Ma Perfidia sa anche commuovere. E così – con il permesso dei parenti – per parlare di giustizia esce dagli archivi la registrazione del confessionale di Jole Santelli, la presidente della Regione tragicamente scomparsa. La sua voce roca, il suo sorriso e il suo sarcasmo si accompagnano alle sue parole di donna non allineata e capace di parlare senza nascondersi dietro a slogan e banalità.
Per un attimo si smette di sorridere ai lazzi e alle battute di Antonella e dei suoi ospiti. Ma solo per un istante. Perché questo è uno show. E come cantava il grande Freddie Mercury, “show must go on”. Sipario.
Perfidia St06 P11 Fatti mandare dalla fiamma · LaC Play
INSTAGRAM.COM/LACITYMAG
Televisione
Sandokan vola negli ascolti ma naufraga nel resto: il remake che tradisce Salgari e offende il mito della Tigre della Malesia
Can Yaman inespressivo, Yanez trasformato in una macchietta, personaggi snaturati e sceneggiatura piena di forzature. Il ritorno della Tigre della Malesia, atteso per cinquant’anni, si trasforma in un’operazione senza anima, dove l’estetica batte la sostanza e la magia salgariana evapora.
Il dato nudo e crudo è impressionante: quasi sei milioni di spettatori e uno share che sbriciola la concorrenza. Un trionfo, sulla carta. Ma se si va oltre la curva degli ascolti, il nuovo Sandokan appare per quello che è: un’operazione patinata che somiglia più a una telenovela turca girata sul Tirreno che al capolavoro salgariano amato da generazioni. Le spiagge di Lamezia, bellissime, fanno il loro dovere. Il resto arranca.





Can Yaman, scelto come protagonista, entra in scena con lo stesso entusiasmo di chi deve sostenere un esame senza aver aperto il libro. Bello, sì, instagrammabile anche, ma impacciato, rigido, incapace di restituire un grammo dell’intensità selvaggia del personaggio nato dalla penna di Emilio Salgari. Ci prova con lo sguardo feroce, ma il risultato è una Tigre della Malesia che sembra imitare sé stessa, come un bambino a una recita scolastica.
Non va meglio con Alessandro Preziosi, un Yanez da Gomera trasformato in comico involontario. Faccine, smorfie, battute fuori tempo: il compagno di mille avventure di Sandokan diventa una caricatura, un guizzo sopra le righe che smonta qualsiasi tensione narrativa. Marianna, ribattezzata Lady Maryam, è riscritta in chiave proto-femminista per ragioni che nulla hanno a che fare con il personaggio originale. Tutto è ritoccato, ribaltato, ricalibrato come se Salgari fosse un autore qualunque da aggiornare per compiacere l’algoritmo.
Il risultato è un racconto che non scorre, non vibra, non emoziona. È un lungo tentativo di modernizzare ciò che non andava toccato, con la presunzione tipica di chi crede che basti aggiungere qualche dramma sentimentale e una dose abbondante di CGI per ricreare la magia. Ma Sandokan non è mai stato un esercizio di stile: era un mondo incantato, un’epica dell’avventura, un romanzo da maneggiare in punta di piedi. Qui, invece, i personaggi vengono svuotati, la trama appesantita da trovate discutibili e persino la tigre appare come un pupazzo spaesato.
Il paradosso è che l’impegno produttivo è evidente: mezzi importanti, scenari spettacolari, ambizioni internazionali. Ma quando manca il cuore, tutto il resto diventa accessorio. Il vero problema non è la scelta di un attore turco per interpretare un principe malese; non è neppure la Calabria al posto del Borneo. È il tradimento dell’anima. È l’aver confuso l’omaggio con la riscrittura, l’avventura con il feuilleton, l’incanto con la posa.
A questo punto non resta che arrendersi all’evidenza: Sandokan meritava amore, non un lifting narrativo. Per chi è cresciuto leggendo Salgari, questa non è nostalgia. È delusione pura. E non c’è share che possa salvarla.
Televisione
Charlie Hunnam, l’uomo che guarda nell’abisso: “Interpretare Ed Gein mi ha terrorizzato”
Tra trasformazioni fisiche estreme, introspezione psicologica e la sfida di umanizzare il male: il ritorno di Hunnam segna una delle prove più intense della sua carriera.
Non è facile spaventare Charlie Hunnam. Eppure, lo stesso attore che per anni ha incarnato il carisma ribelle di Sons of Anarchy ammette che il suo ultimo ruolo lo ha «terrorizzato». Il motivo è semplice: per la terza stagione della serie antologica di Netflix Monster, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, Hunnam è chiamato a vestire i panni di Ed Gein, il serial killer del Wisconsin la cui storia ha ispirato capolavori come Psycho, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti.
L’interpretazione ha richiesto all’attore britannico un’immersione profonda e disturbante nei meandri della mente umana. «Questo ruolo mi ha costretto a guardare il lato più oscuro dell’uomo — ha raccontato in un’intervista —. Non volevo che diventasse una caricatura del male. Dovevo capire come un essere umano possa arrivare a tanto».
Un viaggio nella follia americana
Ambientata negli anni Cinquanta, Monster: La storia di Ed Gein ricostruisce la vicenda del “macellaio di Plainfield”, noto per i suoi crimini che scioccarono l’America rurale. Dopo il successo mondiale delle precedenti stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e John Wayne Gacy, la nuova serie ha debuttato in vetta al catalogo Netflix, generando al contempo entusiasmo e polemiche per il modo crudo e realistico con cui rappresenta la violenza.
Hunnam, 45 anni, ha dovuto affrontare un intenso lavoro di preparazione: ha perso circa 14 chili per riprodurre la corporatura esile del vero Gein, ha studiato ore di registrazioni dell’interrogatorio e ha visitato la sua cittadina natale. «La parte più difficile non è stata la trasformazione fisica, ma la comprensione psicologica», ha spiegato. «Dietro le sue azioni c’erano traumi, isolamento e una malattia mentale mai curata. L’obiettivo era mostrare l’uomo prima del mostro».
Da Newcastle a Hollywood: la parabola di un ribelle
Nato nel 1980 a Newcastle upon Tyne, Hunnam è cresciuto nel nord industriale dell’Inghilterra, tra pub, campi da calcio e una famiglia segnata da difficoltà economiche. Dopo un’infanzia turbolenta e un trasferimento forzato nella tranquilla Cumbria, trova nella recitazione la sua via di fuga. Scoperto quasi per caso da un talent scout della BBC, debutta a 17 anni nella serie Byker Grove e poco dopo conquista l’attenzione del pubblico in Queer as Folk, dove interpreta un adolescente alla scoperta della propria identità.
Il salto internazionale arriva con Sons of Anarchy (2008–2014), in cui dà vita a Jax Teller, il tormentato leader di una gang di motociclisti. Quel ruolo lo consacra come icona maschile e simbolo del ribelle moderno. Da allora, alterna cinema e tv in produzioni di prestigio come Pacific Rim di Guillermo del Toro, Civiltà perduta di James Gray, King Arthur e The Gentlemen di Guy Ritchie.
Il metodo Hunnam: tra dedizione e tormento
Per affrontare il ruolo di Gein, l’attore ha adottato un metodo quasi ascetico. «Ho vissuto da solo per settimane, limitando i contatti con il mondo esterno», ha rivelato. Durante le riprese, ha evitato ogni distrazione, immergendosi completamente nella parte. «Più studiavo la sua vita, più capivo che interpretarlo significava affrontare le paure più profonde, le mie e quelle di chiunque».
Al termine delle riprese, Hunnam ha compiuto un gesto simbolico: ha visitato la tomba di Ed Gein, lasciandosi alle spalle il personaggio. «Ho voluto salutarlo — ha detto —. Gli ho promesso che avrei raccontato la sua storia con rispetto, ma che non l’avrei portato con me».
Critiche e riflessioni: chi è il vero mostro?
Come spesso accade con le opere di Ryan Murphy, anche questa stagione ha sollevato dibattiti sull’etica della rappresentazione del male. Hunnam, però, difende la scelta artistica: «Non stiamo glorificando la violenza. La nostra intenzione è capire. Mostrare il male per ciò che è: un fallimento umano e sociale».
E lancia una provocazione: «Gein era il mostro della storia, ma chi è il mostro oggi? Hitchcock, che ha trasformato la sua vicenda in intrattenimento? O noi spettatori, che guardiamo queste storie per sentirci al sicuro di fronte all’orrore degli altri?».
Un attore, due vite
Lontano dai set, Hunnam conduce un’esistenza sorprendentemente riservata. Da quasi vent’anni è legato alla designer di gioielli Morgana McNelis, con cui vive in California, tra natura e discrezione. «Sono con lei da metà della mia vita», ha raccontato. «Non ho bisogno di un certificato per sapere che è la persona giusta».
Nel 2025, con Monster: La storia di Ed Gein, Hunnam dimostra di essere più di un sex symbol o di un eroe da action movie: è un attore che non teme di sporcarsi le mani con l’oscurità. E forse è proprio questa vulnerabilità, questa capacità di guardare dentro l’abisso senza arretrare, che lo rende — ancora oggi — una delle figure più complesse e affascinanti di Hollywood.
Televisione
Enzo Paolo Turchi: “Mi chiamavano gay perché ballavo. Succede ancora, ma molto meno. Il palco mi ha salvato dalla fame e dal dolore”
Ha danzato con Raffaella Carrà, fatto innamorare il pubblico di tutto il mondo e resistito a una vita che non gli ha risparmiato nulla. Enzo Paolo Turchi, oggi 74 anni, riceve il Premio Arte in Danza a Cava de’ Tirreni e si racconta senza filtri: “Questo riconoscimento vale doppio, perché viene dalla mia terra. È qui che ho iniziato a ballare, da scugnizzo dei Quartieri Spagnoli”.
“Mi chiamavano ricchione perché ballavo”
L’infanzia è stata un campo di battaglia: “Mi chiamavano ‘ricchione’ quando scendevo in strada. Succede ancora oggi, ma molto meno. A volte è colpa di messaggi sbagliati: la danza non è femminile, è forza, disciplina e sacrificio.” A otto anni lavorava in una bisca per venti lire al giorno, “per potermi comprare un panino”. Poi la tragedia: “Le mie due sorelline, Flora e Fausta, morirono schiacciate da un carrarmato. Dopo, mia madre impazzì. Io rimasi solo e piangevo ogni notte. Ancora oggi non riesco a stare senza la mia famiglia accanto.”
Carrà, Falana e la gelosia
La consacrazione arriva con Raffaella Carrà e il mitico Tuca Tuca: “Nacque per scherzo a casa di Raffaella. Durante le prove i dirigenti Rai dissero che era osceno. Alla fine ci concessero una puntata e fu un trionfo. Quando Sordi chiese di ballarlo con lei, lo portammo in tutto il mondo.” Sulla loro intesa, Turchi resta vago: “Sono affari nostri. Ma sì, quando mi fidanzai con Lola Falana, Raffaella non mi parlò più. Poi mi richiamò e ripartimmo insieme per una tournée.”
Il mestiere e la polemica
Ancora oggi non risparmia critiche al piccolo schermo: “A Ballando con le Stelle non potrei fare il giudice, lì sono opinionisti. La danza è una cosa seria, servono dieci anni di studio, non tre mesi di prove.”
Una vita da romanzo
Nel suo lungo percorso, Turchi ha lavorato con Sinatra, Liza Minnelli, Julio Iglesias e Barry White: “Dovevo ballare su una sua base, invece lo trovai lì al pianoforte. Mi tremavano le gambe.” Oggi vive con Carmen Russo, la loro figlia Maria e una pensione da 900 euro: “Quando lo dissi non parlavo per me, ma per tutti i ballerini. È un mestiere che ti toglie tutto, ma ti regala l’eternità di un applauso.”
Ha danzato con Raffaella Carrà, fatto innamorare il pubblico di tutto il mondo e resistito a una vita che non gli ha risparmiato nulla. Enzo Paolo Turchi, oggi 74 anni, riceve il Premio Arte in Danza a Cava de’ Tirreni e si racconta senza filtri: “Questo riconoscimento vale doppio, perché viene dalla mia terra. È qui che ho iniziato a ballare, da scugnizzo dei Quartieri Spagnoli”.
“Mi chiamavano ricchione perché ballavo”
L’infanzia è stata un campo di battaglia: “Mi chiamavano ‘ricchione’ quando scendevo in strada. Succede ancora oggi, ma molto meno. A volte è colpa di messaggi sbagliati: la danza non è femminile, è forza, disciplina e sacrificio.” A otto anni lavorava in una bisca per venti lire al giorno, “per potermi comprare un panino”. Poi la tragedia: “Le mie due sorelline, Flora e Fausta, morirono schiacciate da un carrarmato. Dopo, mia madre impazzì. Io rimasi solo e piangevo ogni notte. Ancora oggi non riesco a stare senza la mia famiglia accanto.”
Carrà, Falana e la gelosia
La consacrazione arriva con Raffaella Carrà e il mitico Tuca Tuca: “Nacque per scherzo a casa di Raffaella. Durante le prove i dirigenti Rai dissero che era osceno. Alla fine ci concessero una puntata e fu un trionfo. Quando Sordi chiese di ballarlo con lei, lo portammo in tutto il mondo.” Sulla loro intesa, Turchi resta vago: “Sono affari nostri. Ma sì, quando mi fidanzai con Lola Falana, Raffaella non mi parlò più. Poi mi richiamò e ripartimmo insieme per una tournée.”
Il mestiere e la polemica
Ancora oggi non risparmia critiche al piccolo schermo: “A Ballando con le Stelle non potrei fare il giudice, lì sono opinionisti. La danza è una cosa seria, servono dieci anni di studio, non tre mesi di prove.”
Una vita da romanzo
Nel suo lungo percorso, Turchi ha lavorato con Sinatra, Liza Minnelli, Julio Iglesias e Barry White: “Dovevo ballare su una sua base, invece lo trovai lì al pianoforte. Mi tremavano le gambe.” Oggi vive con Carmen Russo, la loro figlia Maria e una pensione da 900 euro: “Quando lo dissi non parlavo per me, ma per tutti i ballerini. È un mestiere che ti toglie tutto, ma ti regala l’eternità di un applauso.”
-
Gossip2 anni faElisabetta Canalis, che Sex bomb! è suo il primo topless del 2024 (GALLERY SENZA CENSURA!)
-
Sex and La City2 anni faDick Rating: che voto mi dai se te lo posto?
-
Cronaca Nera1 anno faBossetti è innocente? Ecco tutti i lati deboli dell’accusa
-
Speciale Grande Fratello1 anno faHelena Prestes, chi è la concorrente vip del Grande Fratello? Età, carriera, vita privata e curiosità
-
Speciale Olimpiadi 20241 anno faFact checking su Imane Khelif, la pugile al centro delle polemiche. Davvero è trans?
-
Gossip1 anno faLa De Filippi beccata con lui: la strana coppia a cavallo si rilassa in vacanza
-
Speciale Grande Fratello1 anno faShaila del Grande Fratello: balzi da “Gatta” nei programmi Mediaset
-
Video10 mesi faVideo scandalo a Temptation Island Spagna: lei fa sesso con un tentatore, lui impazzisce in diretta
