Connect with us

Televisione

Maria Rosaria Boccia riceve un Tapiro d’Oro personalizzato: occhiali con telecamera e cicatrice come Sangiuliano

Striscia la Notizia riparte col botto: il primissimo Tapiro d’Oro va a Maria Rosaria Boccia, protagonista dello scandalo che ha travolto l’ex ministro Sangiuliano. Un Tapiro ricco di dettagli simbolici, dagli occhiali con telecamera alla cicatrice in fronte, fino alla chiave di Pompei che aziona un carillon con “Passion Flower”.

Avatar photo

Pubblicato

il

    Torna stasera su Canale 5 Striscia la Notizia, e non poteva mancare il celebre Tapiro d’Oro, consegnato per la prima puntata a un personaggio divenuto celebre suo malgrado. È Maria Rosaria Boccia a ricevere l’iconico premio, personalizzato appositamente per lei, con un tocco che non passa certo inosservato.

    Il tapiro, infatti, è stato creato ad hoc: indossa gli ormai famosi occhiali con telecamera, gli stessi che la Boccia aveva sfoggiato in Parlamento. Come se non bastasse, sulla fronte porta una cicatrice, chiaro riferimento a quella sfoggiata dall’ex ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, durante una recente intervista al TG1. Ma la vera chicca è la chiave di Pompei che spunta dal retro del tapiro: un simbolo legato alla vicenda che ha portato alle dimissioni del ministro e che, per l’occasione, aziona un carillon che suona “Passion Flower”. Un’ulteriore frecciata alle polemiche che hanno coinvolto i due a Sanremo, durante un soggiorno molto chiacchierato.

    Le dichiarazioni di Maria Rosaria Boccia

    Raggiunta nella capitale da Valerio Staffelli, storico inviato di Striscia, la Boccia ha negato ogni accusa riguardo alla presunta sparizione della fede nuziale di Sangiuliano: “Non l’ho presa io, però anche questo verrà chiarito nelle sedi opportune”, ha dichiarato con fermezza. Poi, quando Staffelli le ha chiesto cosa sia realmente successo al volto dell’ex ministro, ironizzando sulla lunghezza delle sue unghie, la risposta non si è fatta attendere: “Vogliamo fare una prova? Simuliamo con lei…”.

    Non contenta, la “prima attapirata” della nuova stagione ha smentito categoricamente ogni legame con il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Questo chiarimento arriva a seguito delle voci, ritenute del tutto infondate, secondo cui il trapianto di capelli del ministro sarebbe stato necessario per coprire ferite riportate durante un alterco.

    Una serata imperdibile su Striscia la Notizia

    Con questo Tapiro d’Oro, Striscia la Notizia inaugura una nuova stagione all’insegna della satira e del racconto ironico dell’attualità. L’appuntamento con la prima puntata è fissato per questa sera alle 20:35, subito dopo il TG5. Il titolo di questa edizione, che cambia ogni anno, sarà Striscia la Notizia – La voce della complottenza, già un chiaro segnale del tono che caratterizzerà la nuova stagione del programma di Antonio Ricci.

      SEGUICI SU INSTAGRAM
      INSTAGRAM.COM/LACITYMAG

      Televisione

      Sandokan vola negli ascolti ma naufraga nel resto: il remake che tradisce Salgari e offende il mito della Tigre della Malesia

      Can Yaman inespressivo, Yanez trasformato in una macchietta, personaggi snaturati e sceneggiatura piena di forzature. Il ritorno della Tigre della Malesia, atteso per cinquant’anni, si trasforma in un’operazione senza anima, dove l’estetica batte la sostanza e la magia salgariana evapora.

      Avatar photo

      Pubblicato

      il

      Autore

        Il dato nudo e crudo è impressionante: quasi sei milioni di spettatori e uno share che sbriciola la concorrenza. Un trionfo, sulla carta. Ma se si va oltre la curva degli ascolti, il nuovo Sandokan appare per quello che è: un’operazione patinata che somiglia più a una telenovela turca girata sul Tirreno che al capolavoro salgariano amato da generazioni. Le spiagge di Lamezia, bellissime, fanno il loro dovere. Il resto arranca.

        Can Yaman, scelto come protagonista, entra in scena con lo stesso entusiasmo di chi deve sostenere un esame senza aver aperto il libro. Bello, sì, instagrammabile anche, ma impacciato, rigido, incapace di restituire un grammo dell’intensità selvaggia del personaggio nato dalla penna di Emilio Salgari. Ci prova con lo sguardo feroce, ma il risultato è una Tigre della Malesia che sembra imitare sé stessa, come un bambino a una recita scolastica.

        Non va meglio con Alessandro Preziosi, un Yanez da Gomera trasformato in comico involontario. Faccine, smorfie, battute fuori tempo: il compagno di mille avventure di Sandokan diventa una caricatura, un guizzo sopra le righe che smonta qualsiasi tensione narrativa. Marianna, ribattezzata Lady Maryam, è riscritta in chiave proto-femminista per ragioni che nulla hanno a che fare con il personaggio originale. Tutto è ritoccato, ribaltato, ricalibrato come se Salgari fosse un autore qualunque da aggiornare per compiacere l’algoritmo.

        Il risultato è un racconto che non scorre, non vibra, non emoziona. È un lungo tentativo di modernizzare ciò che non andava toccato, con la presunzione tipica di chi crede che basti aggiungere qualche dramma sentimentale e una dose abbondante di CGI per ricreare la magia. Ma Sandokan non è mai stato un esercizio di stile: era un mondo incantato, un’epica dell’avventura, un romanzo da maneggiare in punta di piedi. Qui, invece, i personaggi vengono svuotati, la trama appesantita da trovate discutibili e persino la tigre appare come un pupazzo spaesato.

        Il paradosso è che l’impegno produttivo è evidente: mezzi importanti, scenari spettacolari, ambizioni internazionali. Ma quando manca il cuore, tutto il resto diventa accessorio. Il vero problema non è la scelta di un attore turco per interpretare un principe malese; non è neppure la Calabria al posto del Borneo. È il tradimento dell’anima. È l’aver confuso l’omaggio con la riscrittura, l’avventura con il feuilleton, l’incanto con la posa.

        A questo punto non resta che arrendersi all’evidenza: Sandokan meritava amore, non un lifting narrativo. Per chi è cresciuto leggendo Salgari, questa non è nostalgia. È delusione pura. E non c’è share che possa salvarla.

          Continua a leggere

          Televisione

          Charlie Hunnam, l’uomo che guarda nell’abisso: “Interpretare Ed Gein mi ha terrorizzato”

          Tra trasformazioni fisiche estreme, introspezione psicologica e la sfida di umanizzare il male: il ritorno di Hunnam segna una delle prove più intense della sua carriera.

          Avatar photo

          Pubblicato

          il

          Autore

          Charlie Hunnam

            Non è facile spaventare Charlie Hunnam. Eppure, lo stesso attore che per anni ha incarnato il carisma ribelle di Sons of Anarchy ammette che il suo ultimo ruolo lo ha «terrorizzato». Il motivo è semplice: per la terza stagione della serie antologica di Netflix Monster, ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, Hunnam è chiamato a vestire i panni di Ed Gein, il serial killer del Wisconsin la cui storia ha ispirato capolavori come Psycho, Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti.

            L’interpretazione ha richiesto all’attore britannico un’immersione profonda e disturbante nei meandri della mente umana. «Questo ruolo mi ha costretto a guardare il lato più oscuro dell’uomo — ha raccontato in un’intervista —. Non volevo che diventasse una caricatura del male. Dovevo capire come un essere umano possa arrivare a tanto».

            Un viaggio nella follia americana

            Ambientata negli anni Cinquanta, Monster: La storia di Ed Gein ricostruisce la vicenda del “macellaio di Plainfield”, noto per i suoi crimini che scioccarono l’America rurale. Dopo il successo mondiale delle precedenti stagioni dedicate a Jeffrey Dahmer e John Wayne Gacy, la nuova serie ha debuttato in vetta al catalogo Netflix, generando al contempo entusiasmo e polemiche per il modo crudo e realistico con cui rappresenta la violenza.

            Hunnam, 45 anni, ha dovuto affrontare un intenso lavoro di preparazione: ha perso circa 14 chili per riprodurre la corporatura esile del vero Gein, ha studiato ore di registrazioni dell’interrogatorio e ha visitato la sua cittadina natale. «La parte più difficile non è stata la trasformazione fisica, ma la comprensione psicologica», ha spiegato. «Dietro le sue azioni c’erano traumi, isolamento e una malattia mentale mai curata. L’obiettivo era mostrare l’uomo prima del mostro».

            Da Newcastle a Hollywood: la parabola di un ribelle

            Nato nel 1980 a Newcastle upon Tyne, Hunnam è cresciuto nel nord industriale dell’Inghilterra, tra pub, campi da calcio e una famiglia segnata da difficoltà economiche. Dopo un’infanzia turbolenta e un trasferimento forzato nella tranquilla Cumbria, trova nella recitazione la sua via di fuga. Scoperto quasi per caso da un talent scout della BBC, debutta a 17 anni nella serie Byker Grove e poco dopo conquista l’attenzione del pubblico in Queer as Folk, dove interpreta un adolescente alla scoperta della propria identità.

            Il salto internazionale arriva con Sons of Anarchy (2008–2014), in cui dà vita a Jax Teller, il tormentato leader di una gang di motociclisti. Quel ruolo lo consacra come icona maschile e simbolo del ribelle moderno. Da allora, alterna cinema e tv in produzioni di prestigio come Pacific Rim di Guillermo del Toro, Civiltà perduta di James Gray, King Arthur e The Gentlemen di Guy Ritchie.

            Il metodo Hunnam: tra dedizione e tormento

            Per affrontare il ruolo di Gein, l’attore ha adottato un metodo quasi ascetico. «Ho vissuto da solo per settimane, limitando i contatti con il mondo esterno», ha rivelato. Durante le riprese, ha evitato ogni distrazione, immergendosi completamente nella parte. «Più studiavo la sua vita, più capivo che interpretarlo significava affrontare le paure più profonde, le mie e quelle di chiunque».

            Al termine delle riprese, Hunnam ha compiuto un gesto simbolico: ha visitato la tomba di Ed Gein, lasciandosi alle spalle il personaggio. «Ho voluto salutarlo — ha detto —. Gli ho promesso che avrei raccontato la sua storia con rispetto, ma che non l’avrei portato con me».

            Critiche e riflessioni: chi è il vero mostro?

            Come spesso accade con le opere di Ryan Murphy, anche questa stagione ha sollevato dibattiti sull’etica della rappresentazione del male. Hunnam, però, difende la scelta artistica: «Non stiamo glorificando la violenza. La nostra intenzione è capire. Mostrare il male per ciò che è: un fallimento umano e sociale».

            E lancia una provocazione: «Gein era il mostro della storia, ma chi è il mostro oggi? Hitchcock, che ha trasformato la sua vicenda in intrattenimento? O noi spettatori, che guardiamo queste storie per sentirci al sicuro di fronte all’orrore degli altri?».

            Un attore, due vite

            Lontano dai set, Hunnam conduce un’esistenza sorprendentemente riservata. Da quasi vent’anni è legato alla designer di gioielli Morgana McNelis, con cui vive in California, tra natura e discrezione. «Sono con lei da metà della mia vita», ha raccontato. «Non ho bisogno di un certificato per sapere che è la persona giusta».

            Nel 2025, con Monster: La storia di Ed Gein, Hunnam dimostra di essere più di un sex symbol o di un eroe da action movie: è un attore che non teme di sporcarsi le mani con l’oscurità. E forse è proprio questa vulnerabilità, questa capacità di guardare dentro l’abisso senza arretrare, che lo rende — ancora oggi — una delle figure più complesse e affascinanti di Hollywood.

              Continua a leggere

              Televisione

              Enzo Paolo Turchi: “Mi chiamavano gay perché ballavo. Succede ancora, ma molto meno. Il palco mi ha salvato dalla fame e dal dolore”

              Ha danzato con Raffaella Carrà, fatto innamorare il pubblico di tutto il mondo e resistito a una vita che non gli ha risparmiato nulla. Enzo Paolo Turchi, oggi 74 anni, riceve il Premio Arte in Danza a Cava de’ Tirreni e si racconta senza filtri: “Questo riconoscimento vale doppio, perché viene dalla mia terra. È qui che ho iniziato a ballare, da scugnizzo dei Quartieri Spagnoli”.

              “Mi chiamavano ricchione perché ballavo”

              L’infanzia è stata un campo di battaglia: “Mi chiamavano ‘ricchione’ quando scendevo in strada. Succede ancora oggi, ma molto meno. A volte è colpa di messaggi sbagliati: la danza non è femminile, è forza, disciplina e sacrificio.” A otto anni lavorava in una bisca per venti lire al giorno, “per potermi comprare un panino”. Poi la tragedia: “Le mie due sorelline, Flora e Fausta, morirono schiacciate da un carrarmato. Dopo, mia madre impazzì. Io rimasi solo e piangevo ogni notte. Ancora oggi non riesco a stare senza la mia famiglia accanto.”

              Carrà, Falana e la gelosia

              La consacrazione arriva con Raffaella Carrà e il mitico Tuca Tuca: “Nacque per scherzo a casa di Raffaella. Durante le prove i dirigenti Rai dissero che era osceno. Alla fine ci concessero una puntata e fu un trionfo. Quando Sordi chiese di ballarlo con lei, lo portammo in tutto il mondo.” Sulla loro intesa, Turchi resta vago: “Sono affari nostri. Ma sì, quando mi fidanzai con Lola Falana, Raffaella non mi parlò più. Poi mi richiamò e ripartimmo insieme per una tournée.”

              Il mestiere e la polemica

              Ancora oggi non risparmia critiche al piccolo schermo: “A Ballando con le Stelle non potrei fare il giudice, lì sono opinionisti. La danza è una cosa seria, servono dieci anni di studio, non tre mesi di prove.”

              Una vita da romanzo

              Nel suo lungo percorso, Turchi ha lavorato con Sinatra, Liza Minnelli, Julio Iglesias e Barry White: “Dovevo ballare su una sua base, invece lo trovai lì al pianoforte. Mi tremavano le gambe.” Oggi vive con Carmen Russo, la loro figlia Maria e una pensione da 900 euro: “Quando lo dissi non parlavo per me, ma per tutti i ballerini. È un mestiere che ti toglie tutto, ma ti regala l’eternità di un applauso.”

              Avatar photo

              Pubblicato

              il

              Autore

                Ha danzato con Raffaella Carrà, fatto innamorare il pubblico di tutto il mondo e resistito a una vita che non gli ha risparmiato nulla. Enzo Paolo Turchi, oggi 74 anni, riceve il Premio Arte in Danza a Cava de’ Tirreni e si racconta senza filtri: “Questo riconoscimento vale doppio, perché viene dalla mia terra. È qui che ho iniziato a ballare, da scugnizzo dei Quartieri Spagnoli”.

                “Mi chiamavano ricchione perché ballavo”

                L’infanzia è stata un campo di battaglia: “Mi chiamavano ‘ricchione’ quando scendevo in strada. Succede ancora oggi, ma molto meno. A volte è colpa di messaggi sbagliati: la danza non è femminile, è forza, disciplina e sacrificio.” A otto anni lavorava in una bisca per venti lire al giorno, “per potermi comprare un panino”. Poi la tragedia: “Le mie due sorelline, Flora e Fausta, morirono schiacciate da un carrarmato. Dopo, mia madre impazzì. Io rimasi solo e piangevo ogni notte. Ancora oggi non riesco a stare senza la mia famiglia accanto.”

                Carrà, Falana e la gelosia

                La consacrazione arriva con Raffaella Carrà e il mitico Tuca Tuca: “Nacque per scherzo a casa di Raffaella. Durante le prove i dirigenti Rai dissero che era osceno. Alla fine ci concessero una puntata e fu un trionfo. Quando Sordi chiese di ballarlo con lei, lo portammo in tutto il mondo.” Sulla loro intesa, Turchi resta vago: “Sono affari nostri. Ma sì, quando mi fidanzai con Lola Falana, Raffaella non mi parlò più. Poi mi richiamò e ripartimmo insieme per una tournée.”

                Il mestiere e la polemica

                Ancora oggi non risparmia critiche al piccolo schermo: “A Ballando con le Stelle non potrei fare il giudice, lì sono opinionisti. La danza è una cosa seria, servono dieci anni di studio, non tre mesi di prove.”

                Una vita da romanzo

                Nel suo lungo percorso, Turchi ha lavorato con Sinatra, Liza Minnelli, Julio Iglesias e Barry White: “Dovevo ballare su una sua base, invece lo trovai lì al pianoforte. Mi tremavano le gambe.” Oggi vive con Carmen Russo, la loro figlia Maria e una pensione da 900 euro: “Quando lo dissi non parlavo per me, ma per tutti i ballerini. È un mestiere che ti toglie tutto, ma ti regala l’eternità di un applauso.”

                  Continua a leggere
                  Advertisement

                  Ultime notizie

                  Lacitymag.it - Tutti i colori della cronaca | DIEMMECOM® Società Editoriale Srl P. IVA 01737800795 R.O.C. 4049 – Reg. Trib MI n.61 del 17.04.2024 | Direttore responsabile: Luca Arnaù