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Calcio

Dalla discarica al sogno: la scalata di Victor Osimhen

Cresciuto tra povertà e sacrifici nelle strade di Lagos, ha trasformato la fame in forza e il dolore in determinazione. Oggi è uno dei talenti più ammirati del calcio mondiale.

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    Victor Osimhen non ha mai dimenticato da dove viene. Nato a Lagos, in Nigeria, è cresciuto in condizioni di estrema povertà, in una zona adiacente a una delle più grandi discariche dell’Africa. In quel luogo, dove l’odore acre dei rifiuti si mescolava alla polvere delle strade, lui e i suoi amici cercavano vestiti usati e cibo scaduto, inconsapevoli dei rischi. Il latte avariato era una delle poche fonti di nutrimento disponibili.

    La sua casa era una stanza condivisa con sei fratelli

    Nell casa dell’attuale calciatore del Galatasaray l’elettricità era un lusso raro, presente solo l’1% del tempo. Per contribuire al sostentamento della famiglia, Victor vendeva pane e acqua per strada, mentre uno dei suoi fratelli si occupava della vendita di giornali. Il calcio, inizialmente solo un passatempo tra le strade polverose, divenne presto la sua via di fuga. Il talento era evidente, ma mancavano le risorse. Eppure, la determinazione di Osimhen lo portò a farsi notare, fino a essere convocato nella nazionale nigeriana Under 17. Fu durante il Mondiale di categoria che suo padre lo vide giocare per la prima volta in televisione. Non avevano una TV in casa, così sua sorella lo portò dai vicini. Quando il padre vide il figlio in campo, cadde in ginocchio e scoppiò in lacrime.

    Un momento che segnò una svolta

    Da lì, la carriera di Osimhen decollò: prima il passaggio in Europa, poi il successo con il Lille, il Napoli e il prestito al Galatasaray. Ma per lui, la vera vittoria resta un’altra: “La cosa più importante è svegliarmi la mattina sapendo che la mia famiglia ha un tetto sopra la testa”. La storia del calciatore non è solo una storia di calcio, ma di resilienza, amore familiare e speranza. E che continua a ispirare chi, come lui, parte da zero ma sogna in grande.

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      Calcio

      Un rigore sbagliato che brucia dal 1994

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        «Nel ’94 sbagliò il rigore, al contrario di Grosso nel 2006». Sono le parole dal tono di bocciatura che l’ex allenatore Arrigo Sacchi pronuncia nei confronti di quel rigore maledetto. Aldo Serena, che anche lui fece parte della Nazionale, non ci sta e rimprovera al CT di allora l’atteggiamento poco elegante: «Baggio gli ha salvato la faccia e mai un ‘grazie’».

        Polemicamente parlando

        Botta e risposta velenoso tra l’ex tecnico Arrigo Sacchi e lo storico giocatore della nazionale azzurra Aldo Serena. Il motivo? Il cosiddetto Divin codino. L’interviste dell’ex commissario tecnico alla Gazzetta dello Sport ha il sapore di una telecronaca: «Roberto Baggio va sul dischetto, calcia alle stelle, il Brasile vince il Mondiale e la mia Italia deve accontentarsi del secondo posto». Parole pronunciate in occasione del trentennale del Mondiale Usa ’94. Aldo Serena, però, si pronuncia con un tweet a favore del compagno di squadra: «Baggio gli salvò la faccia».

        Così si pronuncò Sacchi

        «Il fatto è che alla finale con il Brasile ci arrivammo in condizioni difficili. Fisicamente eravamo cotti, i giocatori non avevano più muscoli nelle gambe. Nei giorni precedenti non ci allenammo. Tutta colpa della prima parte del torneo giocata sulla costa est degli Stati Uniti. Caldo afoso, umidità al cento per cento, temperatura mai sotto i trenta gradi, si doveva dormire con l’aria condizionata».

        Quel rigore che ancora non lo fa dormire

        Il rigore sbagliato da Baggio nella finale contro il Brasile non si può dimenticare, così come la forza del numero 10 che, comunque, trascinò gli azzurri fino al match contro il Brasile. «Visti i recenti risultati della nazionale azzurra, dico con forza che il nostro secondo posto al Mondiale del 1994 dovrebbe renderci ancora più orgogliosi di quella squadra».

        La frase incriminata

        Poi arriva la stoccata di Arrigo, una delle sue classiche: «La differenza tra la mia Italia del 1994 e l’Italia di Lippi del 2006 che ha vinto il titolo è in un rigore: Roberto Baggio lo sbaglia, Fabio Grosso lo segna». Una frase criticata aspramente da Aldo Serena con un tweet: secondo il suo parere nessuna riconoscenza e alibi che non rispecchiano minimamente la realtà.

        Aldone non ci sta

        Aldo Serena, oggi commentatore tv, affida a X la sua personale cririca nei confronti di Sacchi: «Con tutto il rispetto, con tutto il rispetto dovuto, non si possono leggere queste cose. Gioco difensivo e modesto (quello da lui sempre criticato). Roberto Baggio che dopo l’umiliazione contro la Norvegia gli salva la faccia con la sua fantasia e nessun cenno di ringraziamento».

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          Calcio

          Fininvest perde colpi: il Monza retrocesso pesa sui conti degli eredi Berlusconi

          Il club biancorosso chiude il 2024 con 48 milioni di perdita e viene svalutato. L’utile della holding crolla da 101 a 3 milioni. Si tratta con fondi USA per la cessione

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            Altro che passione sportiva. Per la famiglia Berlusconi, il Monza sta diventando un problema economico serio. Il bilancio 2024 di Fininvest spa, la holding che custodisce le partecipazioni dei cinque fratelli eredi di Silvio, registra un crollo dell’utile netto a soli 3 milioni di euro, contro i 101 milioni dello scorso anno. E il colpevole ha una maglia biancorossa.

            Il club calcistico, acquisito da Berlusconi nel 2018, ha chiuso l’ultimo esercizio con 48 milioni di perdita e la retrocessione in Serie B. Un doppio colpo che ha portato la capogruppo a svalutare la partecipazione, precedentemente iscritta a bilancio per 100 milioni. La manovra contabile – una scelta prudenziale ma inevitabile – avrebbe inciso da sola per circa 120 milioni sui conti Fininvest.

            E dire che il gruppo nel suo complesso ha continuato a produrre dividendi: 59 milioni da Mfe-Mediaset, 17 da Mondadori, 177 da Banca Mediolanum. Il bilancio consolidato segna infatti oltre 260 milioni di utile. Ma il dato rilevante per gli azionisti – ovvero il risultato della sola Fininvest spa, da cui transitano i dividendi – è drasticamente in calo.

            La domanda ora è: che fare del Monza? Secondo indiscrezioni, sono in corso trattative con due fondi americani per la vendita della società calcistica. Un passo che segnerebbe la fine dell’era sportiva berlusconiana e che appare sempre più probabile, visto che senza la Serie A, il club perde attrattiva anche agli occhi degli eredi.

            Nel frattempo, i conti della cassaforte restano solidi: Fininvest ha a disposizione quasi 1,3 miliardi di riserve accantonate negli anni. Un capitale da cui pescare eventuali dividendi per le cinque holding personali dei fratelli Berlusconi. L’assemblea decisiva è attesa per fine giugno.

            Morale: il Monza è retrocesso non solo in classifica, ma anche nel cuore (e nel portafoglio) degli azionisti. E l’era delle passioni a fondo perduto sembra avviarsi verso la fine.

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              Antonio Conte e la solitudine del leader

              Il tecnico che ha portato il Napoli al tricolore si confessa: «Sono rassegnato a essere solo, ogni decisione tocca a me». Dall’ossessione per il lavoro ai sacrifici privati, fino al legame con la figlia Vittoria: un ritratto inedito del “sergente di ferro”.

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                Per una volta, Antonio Conte si lascia guardare senza corazza. Niente lavagne tattiche, niente sfuriate da spogliatoio. Solo lui, la sua storia, le sue crepe. Il libro Dare tutto, chiedere tutto, scritto con Mauro Berruto e edito da Mondadori, è molto più di una raccolta di ricordi sportivi: è un ritratto sincero, umano, persino vulnerabile di un uomo che ha fatto del rigore una religione.

                Il momento più toccante arriva quando parla della figlia: «La rinuncia più grande è stata non vedere tutte le fasi della sua crescita», confessa. Una frase che pesa più di una finale persa. Perché, come racconta nell’intervista a 7, il settimanale del Corriere della Sera, Conte ha barattato la vita privata con quella professionale. E non sempre ha vinto.

                La sua è la storia di un uomo abituato a prendere tutto sulle spalle. «Un allenatore deve essere solo», dice. «Ha uno staff, certo. Si confronta, ascolta. Ma alla fine le decisioni toccano solo a lui, nel bene e nel male». Una solitudine scelta, necessaria, forse anche amata. Ma pur sempre solitudine.

                Conte ripercorre gli anni alla Juventus, al Chelsea, all’Inter, alla guida della Nazionale. Ricorda l’inizio difficile, quell’articolo sulla Gazzetta che lo stroncò alla prima da titolare. E Trapattoni che, invece di mollare, lo incoraggiò. È lì che nasce il metodo Conte: fatica, disciplina, limiti da superare. Sempre.

                «Mi chiamano sergente di ferro», ammette. Ma la verità è che lui per primo si sottopone a regole durissime. Racconta anche l’episodio al Chelsea, l’unica volta in cui provò ad allentare la morsa per rispetto verso una cultura diversa. «Andò male», dice secco. Da lì, una decisione irrevocabile: «Mai più compromessi».

                E oggi, mentre il suo Napoli festeggia il tricolore, Conte guarda avanti. I rapporti con De Laurentiis, a tratti ruvidi ma schietti, hanno trovato un nuovo equilibrio. E il futuro, per ora, resta azzurro.

                Nel backstage delle foto con la figlia Vittoria per l’intervista a 7, c’è un Conte nuovo. Un padre, più che un allenatore. Un uomo che, per la prima volta, sembra davvero aver tolto la divisa da sergente.

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