Connect with us

Storie vere

Zafar il taxista pakistano che fa i milioni con i market etnici

Arrivato in Italia nel 1996 con il sogno di una vita migliore, Zafar Iqbal ha trasformato un’intuizione in un impero commerciale. Oggi i suoi supermercati fatturano 8 milioni di euro all’anno, offrendo sapori da tutto il mondo.

Avatar photo

Pubblicato

il

    Quando Zafar Iqbal è arrivato in Italia nel 1996 aveva solo una cosa in mente: costruire una vita migliore per sé e la sua famiglia. Nato a Rawalpindi in Pakistan, faceva il tassista e lavorava dalle cinque del mattino fino a tarda sera, sempre in macchina, sempre in movimento, ma con il sogno di qualcosa di più. Così Zafar ha preso un biglietto di sola andata e ha deciso di partire, senza certezze ma con tanta determinazione.

    Ricomincio da zero

    Appena arrivato a Bari ha trovato lavoro in un centro sportivo come tuttofare. Un impiego che gli permetteva a malapena di sopravvivere e che non poteva garantire un futuro alla sua famiglia. Dopo qualche tempo ha lasciato la città e si è trasferito a Brescia, dove ha lavorato in un’azienda che produceva barche in resina. Per anni ha accumulato esperienza e ha risparmiato quello che poteva, finché nel 2011 ha perso il lavoro. A quel punto, invece di disperarsi, ha deciso di ricominciare da zero.

    Qui ci vuole un’idea

    Tornato a Bari, dove vive sua sorella, Zafar ha cercato un’idea per mettersi in proprio e costruire qualcosa di suo. La risposta gli è arrivata guardandosi intorno. In Italia c’erano tantissimi immigrati, persone che sentivano la mancanza dei sapori del loro Paese e che non trovavano facilmente i prodotti alimentari tipici delle loro terre. Perché non creare un supermercato dedicato a loro, dove poter acquistare tutto ciò che mangiavano a casa loro? Così ha aperto il suo primo market etnico in via Abbrescia, nel quartiere Madonnella di Bari, un piccolo negozio con prodotti pakistani, indiani, cinesi e marocchini. All’inizio le entrate erano poche. Incassava circa sessanta euro al giorno, ma con il tempo, grazie al passaparola, la clientela è aumentata e con essa anche i guadagni.

    Dalla polvere di Rawalpindi all’impero alimentare

    Dopo un anno i suoi incassi erano cresciuti e il suo piccolo market si era trasformato in un punto di riferimento per chi cercava alimenti esotici. Forte di questo successo, nel 2014 ha aperto un secondo negozio e poi un terzo, sempre a Bari, e successivamente un quarto a Brindisi. Nel 2015 ha acquistato un grande magazzino di oltre mille metri quadrati nella zona industriale della città per poter gestire meglio la distribuzione dei prodotti che arrivano da tutto il mondo.

    Market etnici con dipendenti extra comunitari

    Oggi i suoi supermercati offrono più di duemila prodotti etnici e ogni giorno vengono visitati da oltre mille clienti. Il suo fatturato ha raggiunto otto milioni di euro e il suo nome è diventato una garanzia nel settore. La sua storia è fatta di sacrificio e duro lavoro. Si sveglia ogni giorno alle cinque del mattino e lavora fino alle undici di sera. Non ha dipendenti italiani perché, dice, non si fidano di un imprenditore immigrato, ma assicura che in Italia il lavoro c’è e che basta avere coraggio e organizzazione per riuscire. Ora sta per aprire un nuovo supermercato pensato esclusivamente per la clientela italiana e sogna di trasformare il suo marchio in un franchising internazionale.

      SEGUICI SU INSTAGRAM
      INSTAGRAM.COM/LACITYMAG

      Storie vere

      Tavola calda, anzi bollente! Da cena tra amici a orgia su WhatsApp: sesso, foto hot e un notaio nei guai a Bogliasco

      A Bogliasco, provincia di Genova, una cena tra un medico, un notaio e una donna si trasforma in un after-dinner a luci rosse con titolare del ristorante e cameriera. Qualche giorno dopo, le foto della serata finiscono su WhatsApp: la donna denuncia e la procura apre un fascicolo bollente.

      Avatar photo

      Pubblicato

      il

      Autore

        A Bogliasco l’estate si è scaldata prima del previsto. Altro che spaghetti allo scoglio e bianco fresco: la cena tra amici si è trasformata in un post-serata da film vietato ai minori e, come se non bastasse, pure in un caso di revenge porn finito in Procura.

        Tutto comincia ai primi di giugno, quando una donna accetta l’invito di un amico medico per una cena tranquilla. Tranquilla, si fa per dire. Alla tavolata si aggiunge un notaio che lei non conosce. Location: un ristorantino della riviera, vista mare, di proprietà di un imprenditore amico del gruppetto. Si mangia, si beve, si chiacchiera. Bottiglie di vino scorrono allegre, il clima è quello del “qui e ora” tipico delle serate che promettono di finire male.

        Il titolare, tra un piatto di trofie al pesto e un sorso di Vermentino, ogni tanto si siede al tavolo. La complicità cresce, l’alcol aiuta, e quando scende la sera la cena diventa un after-dinner decisamente privato. Saracinesca abbassata, porta chiusa, e alla comitiva si unisce anche la cameriera, che è pure la compagna del ristoratore. Da quel momento, la cronaca si tinge di rosa, ma più fucsia acceso: effusioni, carezze, baci rubati, e in men che non si dica la tavola calda diventa un set a luci rosse improvvisato.

        La donna, tra stupore e incoscienza da calici di troppo, si ritrova tra le braccia della cameriera. Poi entrano in gioco i tre uomini: medico, notaio e titolare. La scena, degna di una commedia all’italiana versione hard, si consuma fino a notte fonda. Alle due del mattino, la compagnia si scioglie: il dottore e la donna danno un passaggio al notaio, poi la serata si chiude a casa di lei.

        Due giorni dopo, la doccia fredda. La donna si presenta nello studio del medico per un’ecografia programmata e lì riceve la notizia che cambia tutto: sul cellulare dell’amico ci sono foto della serata hot. Lui non sa spiegarsi come siano arrivate. Peccato che, nel frattempo, le stesse immagini abbiano già iniziato a girare su WhatsApp, in particolare dalle mani del notaio. E qui si passa dal peccato alla pena: la donna scopre che scatti molto espliciti della nottata sono finiti in chat tra colleghi e amici del professionista.

        Lei lo chiama, furiosa, chiedendogli di cancellare tutto. Il notaio, con la leggerezza di chi non ha capito la gravità della situazione, ammette di averle già inoltrate e propone un incontro “per sistemare la cosa”. La donna, a quel punto, decide di non andare e sceglie la via legale. Contatta l’avvocato Salvatore Calandra, prepara una querela dettagliata e si rivolge alla Procura di Genova.

        Sulla scrivania della sostituta procuratrice Daniela Pischetola arriva così un fascicolo da manuale del gossip giudiziario: sesso di gruppo, foto piccanti non autorizzate e un potenziale caso di revenge porn. Gli investigatori della polizia di Stato vengono incaricati di sentire tutti i protagonisti e, tra le prime informazioni raccolte, spunta anche l’ombra della droga per uso personale.

        Ora tocca alla Procura ricomporre i pezzi di questa tavola calda, anzi caldissima, che dalla Riviera ligure è finita dritta nel registro delle indagini. Intanto, in paese, la storia corre più veloce delle chat: c’è chi giura di aver visto le foto, chi di aver sentito gli audio. E al ristorante, tra una focaccia e una bottiglia di bianco, le prenotazioni calano. Perché un conto è mangiare in un locale “accogliente”, un altro è rischiare che la cena finisca in prima serata… su WhatsApp.

          Continua a leggere

          Storie vere

          Clausura a luci rosse: suora beccata online, la badessa la richiama e finisce rimossa

          Una suora sorpresa su siti erotici, una badessa che invita alla castità, una lettera anonima al Vaticano e dodici religiose in fuga. A Vittorio Veneto le suore di clausura si sono divise tra obbedienza e ribellione, tra convento e villa segreta. Ma il convento, ora, non è più lo stesso.

          Avatar photo

          Pubblicato

          il

          Autore

            C’era una volta un convento silenzioso, raccolto tra le colline venete, dove dodici monache di clausura vivevano nella quiete, tra litanie e rosari. Fino a quando il diavolo — o forse solo la connessione internet — non ci mise la coda. E a Vittorio Veneto scoppiò il finimondo tra le suore.

            A raccontare l’ultima novena della discordia è una delle religiose fuggite: «Una delle consorelle era stata scoperta dalla badessa Aline su siti erotici. L’aveva invitata con delicatezza a rispettare il voto di castità. Ma da lì — guarda un po’ — è partita la lettera anonima al Papa», spiega oggi, con voce non proprio da confessionale.

            La famosa missiva, indirizzata a Papa Francesco e firmata da quattro sorelle, accusava suor Aline di autoritarismo e gestione dispotica. Peccato che, secondo la versione delle “fuggiasche”, la questione sarebbe iniziata per tutt’altri motivi. Ovvero, per la voglia repressa di una sorella un po’ troppo curiosa.

            Suor Aline, per molti un punto di riferimento spirituale e disciplinare, è stata rimossa dal Vaticano dopo l’esplosione del caso. Al suo posto è arrivata suor Martha Driscoll. Ma a quel punto, il clima dentro il convento era già da apocalisse: tensioni, ispezioni, sguardi storti nei corridoi e, dicono, pure qualche porta sbattuta più forte del dovuto.

            Così, dodici suore hanno preso il velo (metaforicamente) e se ne sono andate. Ora vivono in una villa segreta, donata da un benefattore devoto e, immaginiamo, discretamente incuriosito. Temono “ritorsioni”, dicono. Non si sa da chi, ma si sa che preferiscono mantenere l’anonimato, anche se ormai — nel paese — il convento è diventato la nuova telenovela del dopomessa.

            «Invece di affrontare le criticità, è stata rimossa la badessa. E tutti i soldi sono rimasti nel monastero», raccontano. Le suore in fuga vivono oggi con uno stipendio, una pensione e qualche offerta della comunità. Ma la vera eredità, quella che arde tra incensi e pettegolezzi, è un convento spaccato in due.

            Una sola certezza rimane: anche tra le mura della clausura, le passioni umane battono più forte del silenzio. E dove non arrivano gli spiriti santi, arriva la fibra ottica.

              Continua a leggere

              Storie vere

              Padova, rifiuta l’orale alla maturità: “È solo una sciocchezza”

              Aveva già i crediti per il diploma e ha scelto di non presentarsi all’orale come forma di protesta: “Il sistema scolastico genera solo stress e competizione”. Dopo un confronto coi docenti, ha accettato di rispondere ad alcune domande.

              Avatar photo

              Pubblicato

              il

              Autore

                Gianmaria Favaretto, 19 anni, studente del liceo scientifico Fermi di Padova, ha deciso di voltare le spalle all’esame orale della maturità. Non per un ripensamento dell’ultimo minuto o per paura del confronto, ma per protesta. La mattina del colloquio, con un tono fermo e garbato, ha firmato il registro, ha ringraziato la commissione ed è uscito dall’aula. «Grazie di tutto, ma io questo colloquio non lo voglio sostenere», ha detto. E se n’è andato.

                La sua non è stata una fuga, ma una decisione meditata: “Avevo maturato questa scelta nel corso dell’anno. Con i 31 crediti accumulati nel triennio e i 31 ottenuti con le prove scritte, ero già a quota 62. Quindi avevo la sufficienza per il diploma”. Ma soprattutto, per lui, l’orale non aveva alcun valore. “È solo una formalità inutile – ha spiegato – un numero che pretende di misurare la persona, ma che non dice nulla sul suo valore reale”.

                Favaretto ha criticato duramente l’intero impianto della scuola italiana, e in particolare la pressione legata al voto: “C’è troppa competizione in classe. Ho visto compagni diventare cattivi per mezzo punto. Questa ossessione per il giudizio numerico soffoca la crescita e mina il benessere degli studenti”. Secondo lui, l’attuale sistema scolastico genera solo ansia e frustrazione, trasformando la maturità in una gara più che in un momento di riflessione o di passaggio.

                Di fronte alla sua scelta, la presidente di commissione ha reagito con fermezza: “Mi ha detto che stavo mancando di rispetto al lavoro dei docenti che avevano corretto i miei scritti”. Ma, dopo un confronto più sereno con gli insegnanti interni, è stato trovato un compromesso: Gianmaria ha risposto ad alcune domande di programma, guadagnando 3 punti che hanno portato il suo voto finale a 65 su 100.

                Un gesto forte, il suo, che non si limita a una protesta personale ma solleva interrogativi più ampi sul senso e sull’efficacia dell’esame di Stato. “Sono probabilmente il primo a fare una cosa del genere al Fermi”, ha detto. E forse anche uno dei pochi ad aver trasformato l’esame in un’occasione di denuncia.

                  Continua a leggere
                  Advertisement

                  Ultime notizie

                  Lacitymag.it - Tutti i colori della cronaca | DIEMMECOM® Società Editoriale Srl P. IVA 01737800795 R.O.C. 4049 – Reg. Trib MI n.61 del 17.04.2024 | Direttore responsabile: Luca Arnaù