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Melania Trump, la first lady fantasma: più brand che moglie, più mistero che presenza

Greta Garbo in versione slovena, Melania Trump continua a scomparire. Non segue il marito nei tour internazionali, non vive stabilmente alla Casa Bianca e comunica solo attraverso silenzi, outfit firmati e operazioni di marketing. Dopo il funerale di papa Francesco, i due si sono separati con un bacio gelido. Lui al golf, lei altrove.

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    La Casa Bianca ha un’ala buia. Le persiane sono chiuse, il silenzio è assoluto. È la residenza riservata alla first lady, ma di Melania Trump non c’è traccia. O meglio: c’è solo quando serve. Quando bisogna distribuire ovetti accanto a un coniglio gigante, lanciare francobolli commemorativi, posare in un cappotto leopardato per premiare “donne coraggiose”. Per il resto, volatilizzata.

    Il dato lo certifica anche il New York Times: solo quattordici giorni trascorsi alla Casa Bianca da quando Donald Trump ha giurato, per la seconda volta, come presidente. Quattordici su 108. Il resto lo ha passato tra la torre d’oro di Manhattan e il bunker tropicale di Mar-a-Lago. A Washington, Melania arriva col contagocce. Non accompagna il marito nei tour mediorientali, non partecipa agli incontri istituzionali, non commenta, non rilascia interviste. Resta sospesa, elegante e sfuggente. Una presenza eterea, “più brand che persona”, scrive sempre il Times. Una testimonial del silenzio, del marketing, del mistero.

    I collaboratori giurano che “è più presente di quanto sembri”. Ma non sanno dire quando, né come. Melania è una sorta di Greta Garbo postmoderna: “Voglio stare sola”, purché il guardaroba sia impeccabile, il trucco perfetto e le trattative con Amazon procedano. Sì, perché nel frattempo pare abbia firmato un contratto da 40 milioni di dollari per una docu-serie esclusiva, di cui nessuno conosce titolo, regista o contenuti. L’effetto voluto è chiaro: sparire per diventare icona. Un’icona da proiettare più che da incontrare.

    Nella sua assenza, Melania riesce comunque a lasciare il segno. Ha approvato l’idea – pare sua – di una nuova sala da ballo alla Casa Bianca. E ha dato il via libera alla cementificazione del Roseto, con una sola condizione: le rose devono restare. È la sua cifra: lasciare impronta senza impronte. Apparire senza mai esporsi. Dire tutto senza dire nulla.

    E intanto, anche il racconto privato scricchiola. Dopo il funerale di papa Francesco, Donald e Melania sono atterrati insieme a Newark, ma lì si sono detti addio con un bacio gelido sulla guancia. Nessun abbraccio, nessun gesto di complicità. Lui è salito su un elicottero diretto al suo campo da golf di Bedminster. Lei, nel giorno del suo compleanno, è salita su un’auto nera e ha preso un’altra strada. Letteralmente.

    Non è chiaro dove porterà. Di certo, non verso i riflettori. A meno che non sia lei a volerli accendere. Perché Melania, come sempre, non parla. Ma quando si affaccia, tutto il mondo guarda. Anche solo per sapere da dove arriverà il prossimo silenzio.

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      L’amore sotto il sole d’Africa: il Masai che ha spezzato una famiglia

      Una vacanza in Kenya, un incontro travolgente con un guerriero Masai e la scelta di seguire il cuore: la storia di Cheryl, che ha lasciato tutto per amore, e di suo figlio Stevie, che ha pagato il prezzo più alto.

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        Nel marzo del 1994, Cheryl Thomasgood partì per una vacanza in Kenya che avrebbe cambiato per sempre il destino della sua famiglia. In un villaggio vicino a Mombasa, tra danze tribali e paesaggi mozzafiato, conobbe un guerriero Masai. Fu un colpo di fulmine. Nel giro di poche settimane, lasciò il marito, i figli e la sua casa sull’Isola di Wight per trasferirsi in una capanna di fango nel cuore dell’Africa con il guerriero Masai.

        Il figlio dodicenne aspettò la madre a casa studiando l’Africa

        Ma se per Cheryl quella scelta rappresentava una fuga verso la libertà e la passione, per suo figlio Stevie fu l’inizio di un incubo. Aveva solo 12 anni quando ricevette quella telefonata: la madre non sarebbe più tornata. La sua infanzia, già segnata dall’abbandono del padre e da un’infanzia difficile a Londra, si sgretolò del tutto. “Mi ha rovinato la vita. Mi vergogno di chiamarla madre”, ha raccontato Stevie, oggi 43enne.

        Un pentimento tardivo

        Nonostante Cheryl, oggi 65enne, abbia dichiarato di essersi pentita e di essere stata perdonata dai figli, Stevie smentisce con forza: “Non ha mai incontrato i suoi nipoti. Non le parlo da anni. Mio fratello è andato in Canada, io in Corea, per starle il più lontano possibile”. La storia di Cheryl e Stevie è un intreccio di amore, fuga, dolore e incomprensioni. Un racconto che ci ricorda quanto le scelte del cuore possano lasciare cicatrici profonde, soprattutto quando a pagarne il prezzo sono i figli, ovvero i legami più fragili.

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          Mondo

          Trump e la guerra dei 12 giorni: dalla minaccia di un cambio di regime in Iran al cessate il fuoco celebrato su Truth Social

          Un giorno da falco, quello dopo da colomba: Trump prima bombarda i siti nucleari iraniani, poi celebra l’intesa per un cessate il fuoco via social. Nel mezzo: slogan, accuse, Medvedev, la base Al Udeid e un’idea fissa — far sembrare tutto sotto controllo.

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            Il primo messaggio è arrivato quando in Medio Oriente era già notte fonda: “Cessate il fuoco completo e totale. Congratulazioni a tutti!”. Parola di Donald Trump, via Truth Social. Poche ore prima, però, il presidente Usa aveva evocato tutt’altro scenario. Aveva parlato di “cambio di regime” in Iran, lanciando un nuovo slogan in stile MAGA: “MIGA”, Make Iran Great Again.

            La giornata è iniziata con l’Iran che si leccava le ferite dopo il bombardamento di tre siti nucleari — Fordow, Natanz e Isfahan — colpiti da missili americani nelle prime ore di sabato. La risposta non si è fatta attendere: Teheran ha lanciato una dozzina di missili contro la base americana Al Udeid in Qatar, quartier generale del Central Command. Missili tutti intercettati, con nessuna vittima.

            Eppure, invece di soffiare sul fuoco, Trump ha cominciato a mettere acqua sulla crisi. Prima ha convocato d’urgenza il Consiglio per la sicurezza nazionale. Poi, terminata la riunione, è tornato sui social. Ma non per minacciare l’Iran: per attaccare i media. “Tutti sanno che i siti colpiti in Iran sono stati distrutti. Solo le fake news dicono il contrario!”, ha scritto.

            Nel frattempo, Karoline Leavitt, la portavoce della Casa Bianca, cercava di tradurre l’ultima provocazione del presidente: “Il riferimento al cambio di regime? Solo una domanda retorica. Un ragionamento ipotetico, come se ne fanno tanti”.

            Nel giro di un’ora, Trump ha poi cambiato completamente tono. Ha scritto di essere “lieto” che nessun americano sia stato ferito e ha ringraziato l’Iran “per averci avvisato in anticipo del lancio dei missili”. Una frase che ha fatto storcere il naso anche ad alcuni esponenti repubblicani, stupiti da tanto entusiasmo per un’aggressione appena subita.

            La svolta è arrivata nel pomeriggio. Trump ha annunciato che, nel giro di 24 ore, la guerra tra Iran e Israele sarebbe ufficialmente finita. Il meccanismo? “Il cessate il fuoco inizierà con l’Iran, poi Israele si unirà dopo dodici ore. Alla ventiquattresima ora, la guerra dei 12 giorni sarà terminata”.

            Una messinscena diplomatica orchestrata — come sempre — sui social, con un linguaggio da comizio: “Dio benedica Israele, Dio benedica l’Iran, Dio benedica l’America e il mondo intero!”. In mezzo, qualche stoccata a Medvedev (“smettetela di parlare di armi nucleari con leggerezza!”) e un monito al mondo del petrolio: “Non usate questa crisi per alzare i prezzi”.

            La cronaca delle ultime 24 ore non può però nascondere l’inquietante leggerezza con cui Trump alterna minacce e pacificazione, bombe e benedizioni, slogan bellici e chiamate alla pace. La guerra dei 12 giorni, per sua stessa ammissione, “avrebbe potuto distruggere il Medio Oriente”. E invece è diventata l’ennesimo teatro della sua campagna permanente.

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              Bezos sbarca a Venezia con star e miliardi, ma trova proteste e attivisti nei canali: “Questa non è Las Vegas”

              Cinque giorni di festeggiamenti blindati tra yacht e star, ma a Venezia monta la rivolta. Gli attivisti capitanati da Bettin e Casarini annunciano azioni clamorose: “Vuole la Luna, intanto si prende la Serenissima. Basta svendere la città ai miliardari”.

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                Alla Casa Bianca lo accolgono come un imperatore, tra yacht spaziali e droni sorridenti. Ma a Venezia no. Qui, al secondo uomo più ricco del pianeta, Jeff Bezos, non basta affittare mezza città per cinque giorni e stappare Dom Pérignon con duecentocinquanta tra star, miliardari e compari del tecno-capitalismo. A riceverlo, tra una gondola e l’altra, ci sono striscioni, cortei, e l’eco (non troppo lontana) di qualche megafono arrabbiato.

                Luna di miele? Macché. In laguna è luna di fiele. E c’è chi già prepara l’abbordaggio, in costume da bagno ma con lo spirito dei vecchi no-global: quelli che vent’anni fa lanciavano i sassi a Genova, oggi si tuffano nei canali gridando “No Space for Bezos”. Anche il matrimonio, nel 2025, è diventato geopolitica.

                La polemica rimbalza tra palazzi nobiliari e calli popolari. Il punto non è che Jeff Bezos voglia sposarsi a Venezia – in fondo, ogni anno migliaia di stranieri lo fanno – ma come lo fa. “Con arroganza e ostentazione”, accusano gli attivisti. “È il simbolo dello sfruttamento digitale, il braccio economico del trumpismo mondiale. Se Trump si vuole comprare la Groenlandia, lui cerca di prendersi la Luna, e comincia affittando Venezia”.

                A guidare la protesta sono Gianfranco Bettin, scrittore e vecchia anima della sinistra veneziana, e Luca Casarini, ex leader delle Tute Bianche oggi impegnato con Mediterranea. Hanno radunato artisti, universitari, ambientalisti e nostalgici del G8. Lo slogan? Sempre lo stesso: “Questa città non è in vendita”. E poi via, tutti in acqua. Letteralmente.

                Sabato 28 giugno, annunciano, si butteranno nei cinque canali intorno alla Misericordia – sede designata del ricevimento – per bloccare l’accesso ai motoscafi blindati degli ospiti. Niente marce o cortei ufficiali. Niente preavvisi in questura. Solo corpi galleggianti, come diga contro il privilegio. “Bezos non è un vip qualsiasi – dice Casarini – è il megafono del nuovo oscurantismo globale. E chi lo accoglie a braccia aperte, accetta che Venezia diventi una Las Vegas acquatica”.

                Nel mirino, oltre al magnate, anche il sindaco Luigi Brugnaro – già sotto inchiesta per l’affaire dei palazzi venduti al tycoon asiatico Ching Chiat Kwong – e il governatore Luca Zaia, che da mesi punta al quarto mandato tra benedizioni industriali e selfie con futuri sposi milionari. A loro si imputa di aver svenduto la città al miglior offerente, riducendola a una scenografia per festini d’élite.

                La questura per ora tace. “Nessuna notifica di manifestazione”, dicono gli agenti, anche se le 72 ore di preavviso non sono ancora scadute. Ma il rischio è che la festa nuziale si trasformi in un remake – acquatico – dei cortei anti-G8. Bezos sperava in un matrimonio da favola. Troverà invece la laguna sollevata.

                Dalla parte sua restano gli operatori turistici, albergatori, ristoratori e promotori immobiliari, per i quali il matrimonio del fondatore di Amazon è manna dal cielo. Dall’altra parte, una comunità che ancora si ostina a credere che Venezia sia un luogo da abitare, non solo da noleggiare. Gli sposi sfrecceranno tra le acque in motoscafi schermati. I veneziani superstiti resteranno a riva. A lutto.

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