Italia
Manuale del piccolo jihadista? Lo cercavano su ChatGPT
A Palermo due giovani radicalizzati usavano l’intelligenza artificiale per chiedere come paralizzare una persona: fermati dalla Digos, inneggiavano all’Isis sui social e si preparavano al martirio.

È anche grazie all’attività di monitoraggio sull’uso improprio dell’AI che la Digos di Palermo ha potuto scoprire e fermare due giovanissimi cittadini del Bangladesh. Himel Ahmed (21 anni) e Munna Tapader (18 anni) sono accusati di fare apologia del terrorismo jihadista. I due sono stati fermati dopo un’indagine che ha preso forma proprio da alcune richieste sospette effettuate a ChatGPT, il noto assistente AI di OpenAI, che avevano attirato l’attenzione degli investigatori.
Le domande all’intelligenza artificiale
Uno dei due ragazzi, Ahmed, utilizzava ChatGPT per porre domande inquietanti come: “Dove colpire una persona per paralizzarla?” Una richiesta che, secondo la Procura di Palermo, non aveva fini didattici o medici, ma dimostrava una preoccupante ricerca finalizzata all’organizzazione di azioni violente. Queste interazioni, insieme all’attività social dei due, hanno fatto scattare l’allerta.
Dopo la segnalazione di ChatGPT partita l’indagine
Gli strumenti di sicurezza e prevenzione adottati da OpenAI e da altre piattaforme tecnologiche prevedono l’identificazione e la segnalazione automatica di contenuti potenzialmente pericolosi, soprattutto in tema di violenza e terrorismo. È proprio attraverso questi meccanismi di sicurezza che sarebbero emerse le prime anomalie, successivamente approfondite dalla polizia postale e dalla Digos. Il successivo monitoraggio delle attività online ha poi rivelato un contesto ben più ampio. I due giovani inneggiavano apertamente al martirio e alla guerra santa, condividendo video, immagini e canti jihadisti. Tapader, ad esempio, aveva come immagine di copertina sui social una bandiera con la scritta in arabo: “Siamo entrati nella terra dal grembo di nostra madre per il martirio – Al Mahmud.
Non solo curiosità, ma adesione ideologica
La Procura, guidata da Maurizio de Lucia, ha sottolineato come le attività dei due indagati non si limitassero alla curiosità, ma rivelassero una “adesione ideologica profonda e radicata” all’estremismo islamico. I due ragazzi erano impegnati attivamente nella ricerca, diffusione e condivisione di contenuti di propaganda legati all’ISIS. Il gip ha disposto per entrambi gli arresti domiciliari, mentre le indagini proseguono per ricostruire eventuali legami con altri simpatizzanti o gruppi estremisti online.
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Italia
Cara Lucarelli, fare giornalismo non è come giudicare coppie che sgambettano sulla pista da ballo
Che Selvaggia Lucarelli non fosse famosa per la moderazione lo sapevamo già. Ma stavolta la penna (o meglio, la tastiera) le è costata cara. Il Tribunale di Torino ha condannato la giornalista a risarcire 65mila euro a Claudio Foti, lo psicoterapeuta finito — e poi uscito — nel tritacarne mediatico del caso Bibbiano. A questi si aggiungono altri 15mila euro di multa. Totale? Un bel gruzzolo per cinque articoli scritti tra il 2019 e il 2020 sul Fatto Quotidiano, giudicati non solo poco eleganti, ma apertamente diffamatori.

Quando l’opinione diventa offesa: è arrivato il verdetto sul caso Bibbiano. Secondo i giudici torinesi, la Lucarelli avrebbe superato i limiti del diritto di critica giornalistica, trasformando l’approfondimento in uno show personale. E chi conosce il suo stile sa che i confini tra ironia pungente e stile da tribunale popolare spesso si fanno sfocati. In particolare, il tribunale ha sottolineato che le sue parole sarebbero state «volutamente costruite per screditare» Foti, associandolo persino a vicende tragiche come il suicidio di una bidella. Altro che inchiesta giornalistica: per il giudice c’era “pervicace volontà diffamatoria”.
Un boomerang mediatico per Selvaggia
C’è qualcosa di ironico — se non profetico — nel fatto che Lucarelli, spesso paladina del tribunale social, si ritrovi condannata in quello reale. Per anni ha inchiodato persone a colpi di post, articoli e tweet, sempre col ditino alzato e il tono da arcigna insegnante del liceo stufa della classe. Ma stavolta la giustizia le ha spiegato che anche i giornalisti devono fermarsi un passo prima della gogna.
Foti assolto: una lezione di giornalismo etico
Claudio Foti, ricordiamolo, è stato definitivamente assolto dalla Corte di Cassazione nell’aprile 2023. Nessuna responsabilità, nessun reato. Eppure, durante l’inchiesta, ha dovuto fronteggiare un assalto mediatico feroce. Lucarelli, secondo il tribunale, avrebbe alimentato quella narrazione, trasformando un’indagine in uno spettacolo. Ed ecco che la realtà le presenta ora il conto, con interessi e spese legali.
Libertà di stampa o libertà di… spettacolarizzare?
Il caso Lucarelli-Foti riapre un tema cruciale: dove finisce la critica e dove inizia la diffamazione? Quando il giornalismo si fa show, chi ci rimette è sempre la verità. Scrivere non è un atto di onnipotenza, il diritto di cronaca va esercitato con precisione chirurgica, non con la mazza da demolizione. Il tribunale ha tracciato una linea netta: la dignità delle persone non può diventare carne da social.
Fare il giornalismo non è come giudicare coppie che sgambettano sulla pista da ballo
Forse ora Selvaggia capirà che non tutto può essere trattato come un post su Facebook o un giudizio a Ballando con le Stelle. Il giornalismo richiede rispetto, rigore e, ogni tanto, anche un pizzico di umiltà. E soprattutto: se vuoi fare la giudice, assicurati che non ci sia un giudice vero pronto a giudicarti a tua volta. Che la Lucarelli non fosse famosa per la moderazione lo sapevamo. Ma stavolta la penna (o meglio, la tastiera) le è costata cara. Il Tribunale di Torino l’ha condannata a risarcire 65mila euro a Claudio Foti, lo psicoterapeuta finito — e poi uscito — nel tritacarne mediatico del caso Bibbiano. A questi si aggiungono altri 15mila euro di multa. Totale? Un bel gruzzolo per cinque articoli scritti tra il 2019 e il 2020 sul Fatto Quotidiano, giudicati non solo poco eleganti, ma apertamente diffamatori. Chi di titolo clickbait colpisce…
Italia
Baby Gang a processo: istiga l’odio contro una giornalista e scatena minacce di morte
Il trapper Zaccaria Mouhib finisce ancora nei guai: accusato di diffamazione, istigazione a delinquere e violazione della privacy dopo aver incitato i fan contro l’autrice di un servizio TV. La vittima costretta a lasciare Milano per paura.

Nuovi guai giudiziari per Zaccaria Mouhib, in arte Baby Gang, già noto alla cronaca per vari episodi legati alla giustizia. Questa volta il giovane trapper, 24 anni, è a processo a Milano con accuse pesanti: diffamazione aggravata, istigazione a delinquere e trattamento illecito di dati personali. Al centro del caso c’è un episodio avvenuto tre anni fa, quando il cantante, infastidito da un servizio televisivo a lui dedicato, avrebbe pubblicamente incitato i suoi follower a colpire la giornalista autrice del servizio.
I fatti contestati
Il servizio incriminato andò in onda su “Fuori dal coro” (trasmissione di Rete 4), dal titolo “I soldi facili, il rapper sotto accusa per rapina libero di fare i concerti”. Ricostruiva alcune vicende giudiziarie di Baby Gang, evidenziando contenuti violenti nei suoi testi e intervistando anche il padre dell’artista. Dopo la messa in onda, Baby Gang avrebbe reagito furiosamente sui social. In alcune Instagram stories, ha pubblicato insulti diretti alla giornalista, accompagnati dal suo numero di cellulare personale. Ma non solo. Ha aggiunto frasi come: “Chi chiama più volte vince” e inviti a “insultarla”. In poche ore, la giornalista è stata sommersa da telefonate, messaggi, insulti e perfino minacce di morte da parte dei fan.
Quali sono le accuse a Baby Gang
Secondo l’accusa, si è trattato di una “campagna d’odio” scatenata dal trapper. La vittima, profondamente scossa, ha raccontato in aula di aver dovuto lasciare Milano per un periodo, temendo per la propria incolumità. Il materiale diffamatorio sarebbe rimasto online 24 ore, ma è bastato a innescare una reazione virale. Il pubblico ministero Rosario Ferracane contesta a Baby Gang tre reati. Si va dalla diffamazione aggravata tramite social network all’stigazione a delinquere, per aver incitato i suoi follower a perseguitare la giornalista. E in più il trattamento illecito di dati personali, per aver diffuso pubblicamente il numero privato della donna. La fase istruttoria del processo si è conclusa di recente con la testimonianza di alcuni testimoni chiave, tra cui la giornalista stessa.
Un passato (e presente) complicato
Questo processo si aggiunge a una lunga serie di problemi legali per Baby Gang. Giorni fa è stato coinvolto in un’altra inchiesta, coordinata dalla procura di Catania, per presunto favoreggiamento mafioso. In quell’occasione, durante un concerto all’One Day Music Festival di Catania, avrebbe mostrato un video con una videochiamata al nipote di un noto boss mafioso, Turi Cappello, violando la sorveglianza speciale. Attualmente, Baby Gang è detenuto in un carcere calabrese per una condanna legata allo spaccio di droga, risalente a ottobre 2024. Il processo milanese proseguirà nelle prossime settimane con le arringhe delle parti. Si attendono le richieste di pena del pubblico ministero e la decisione dei giudici su un caso che riapre il dibattito sui limiti della libertà d’espressione online, la responsabilità dei personaggi pubblici sui social, e la tutela della privacy e dell’incolumità dei giornalisti.
Italia
Truffa del finto bancario: vittima derubata di 10mila euro con un bonifico istantaneo
Un sms fasullo e una telefonata convincente: così il raggiro è andato a segno.

Un operaio di 48 anni, residente a Taranto e attualmente in cassa integrazione, è stato arrestato e posto ai domiciliari con l’accusa di truffa aggravata e riciclaggio. L’uomo, fingendosi un impiegato di banca, ha convinto un cittadino lombardo ad effettuare un bonifico istantaneo di 10mila euro su un conto corrente postale.
Ma come ha fatto?
La truffa è stata scoperta grazie all’intuizione di un carabiniere libero dal servizio, che ha notato il sospettato mentre prelevava 3mila euro in contanti presso un ufficio postale di Castellaneta. Insospettito dall’atteggiamento dell’uomo – già noto alle forze dell’ordine – il militare ha allertato i colleghi e ha proceduto al controllo all’uscita dell’ufficio. Le verifiche hanno rivelato che il conto su cui era stato ricevuto il bonifico risultava fino a poco prima vuoto e che il 48enne non è stato in grado di giustificare la provenienza della somma.
La dinamica della truffa
a vittima aveva ricevuto un sms fraudolento che segnalava un tentativo di addebito sospetto sul proprio conto bancario. Per annullare l’operazione, l’ignaro correntista è stato contattato telefonicamente da un complice del truffatore, che si è spacciato per un operatore della banca, inducendolo ad eseguire il bonifico su un presunto conto sicuro.
Un fenomeno in crescita
Negli ultimi mesi, le truffe tramite finti sms bancari stanno diventando sempre più frequenti. Le forze dell’ordine invitano i cittadini a diffidare di qualsiasi richiesta di trasferimento di denaro ricevuta via telefono o messaggio. E soprattutto ricordano che le banche non chiedono mai di effettuare bonifici per proteggere i conti.
Come difendersi da questa truffa: qualche utile consiglio
Per evitare di cadere vittima di simili raggiri, gli esperti consigliano alcune regole fondamentali.
Non cliccare su link contenuti in sms sospetti.
Contattare direttamente la propria banca per verificare eventuali problemi.
Non condividere mai dati sensibili o codici di accesso con sconosciuti.
Segnalare subito tentativi di truffa alle autorità competenti.
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