Mondo
Napoli capitale della vela: l’America’s Cup 2027 sbarca in Italia
Per la prima volta nella storia, la competizione velica più prestigiosa al mondo si disputerà in Italia. Napoli ospiterà la 38esima edizione, un evento globale che celebra tradizione, innovazione e sfida sportiva.

L’America’s Cup arriva per la prima volta in Italia. Dopo trattative intense, il governo italiano e il defender neozelandese Team New Zealand hanno annunciato che la 38esima edizione della regata più antica e ambita al mondo si terrà a Napoli. Quando? Nella primavera-estate del 2027. Con il Vesuvio sullo sfondo e Castel dell’Ovo a fare da testimone, le acque del golfo partenopeo diventeranno il teatro di una sfida epocale. Per la prima volta, Luna Rossa avrà la possibilità di competere in casa, cercando di strappare ai neozelandesi l’ambita brocca d’argento, il trofeo che ha fatto sognare generazioni di velisti.
Un’opportunità storica per Napoli e il Sud Italia
L’accordo tra il governo italiano e il team neozelandese è stato raggiunto dopo mesi di trattative, con Napoli che ha superato altre opzioni internazionali, tra cui Valencia, Arabia Saudita e Grecia, dimostrando di avere il potenziale per ospitare un evento sportivo di tale portata. L’annuncio ha scatenato l’entusiasmo della città, che si prepara a diventare il centro mondiale della vela per diversi mesi. Oltre alla rilevanza sportiva, la scelta di Napoli rappresenta un’opportunità unica per la valorizzazione del territorio, con benefici turistici, economici e infrastrutturali.
La sfida tra i giganti della vela
La premier Giorgia Meloni, che ha sostenuto fortemente la candidatura partenopea, ha dichiarato. “La scelta di Napoli rafforza il protagonismo del Sud e accelererà il piano di riqualificazione dell’area di Bagnoli.” Le basi dei team saranno installate a Bagnoli, avviando un importante processo di riqualificazione dell’area che punta a trasformarsi in un polo turistico e commerciale moderno. Oltre a Team New Zealand, che difenderà il trofeo, e Luna Rossa, Napoli vedrà il ritorno dei grandi sfidanti. Naturalmente gli americani di American Magic, che cercano la rivincita e gli inglesi di Ben Ainslie, determinati a dare filo da torcere ai leader. E’ incerta invece la partecipazione degli svizzeri di Alinghi e dei francesi di Oriente Express, già presenti a Barcellona. L’obiettivo ora è trovare nuovi challenger, e magari anche qualche team interamente italiano, per rendere ancora più speciale questa edizione tutta tricolore.
Napoli scalda i motori
L’entusiasmo in città e in tutta l’area partenopea per lìarrivo dell’America’s Cup è già palpabile tra gli appassionati di vela e gli abitanti della cttà metropolitana. Le acque del golfo, da sempre teatro di sfide epiche tra i venti e le correnti, si preparano ad accogliere le più avanzate imbarcazioni da competizione, con tecnologie di ultima generazione e design rivoluzionari.
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Cronaca
Siete dei latitanti? Scappate qui… non vi prenderanno mai
Ecco i Paesi nel mondo in cui non valgono gli accordi per l’estradizione nei quali è possibile rifugiarsi per sfuggire al carcere italiano.

Quali sono i Paesi che non hanno accordi di estradizione con l’Italia o che non estradano cittadini italiani latitanti verso il nostro Paese? Il loro elenco può variare e dipendere da diversi fattori. Dalla mancanza di trattati bilaterali alle leggi nazionali che proteggono i delinquenti dalla estradizione, o per considerazioni politiche e diplomatiche.
I Paesi dove si rischia meno
Nella lista dei Paesi che spesso non hanno accordi di estradizione con l’Italia o che pongono restrizioni all’estradizione troviamo la Cina che per impostazioni politiche spesso non estrada i propri cittadini. Segue la Russia che ha una politica restrittiva riguardo l’estradizione dei propri cittadini ma non nei confronti di cittadini italiani che hanno commesso crimini. Il Vietnam come la Cina, il raramente estrada i propri cittadini così come l’Arabia Saudita che non concede l’estradizione per vari motivi, inclusi quelli religiosi e politici. L’Iran non ha accordi di estradizione con molti paesi occidentali, compresa l’Italia. La Corea del Nord è estremamente improbabile che accetti qualsiasi richiesta di estradizione.
La mancanza di cooperazione aiuta la malavita
Cuba storicamente rifiutata molte richieste di estradizione da paesi occidentali. In Somalia la mancanza di un governo centrale stabile rende difficile qualsiasi cooperazione internazionale sull’estradizione. Così pure in Siria Paese nel quale le attuali condizioni politiche e di sicurezza impediscono accordi di estradizione efficaci. Tutti i Paesi senza relazioni diplomatiche con l’Italia come Bhutan o Tuvalu, Stato insulare polinesiano, potrebbero non avere accordi di estradizione semplicemente perché non hanno relazioni diplomatiche stabilite con l’Italia.
I magnifici nove
I Paesi nel mondo in cui con certezza non valgono gli accordi per l’estradizione – e quindi quelli in cui è possibile rifugiarsi per sfuggire al carcere in Italia – sono nove in tutto: dal Nepal alla Cambogia, dalle Seychelles alla Malesia, da Capo Verde al Belize. E inoltre Giamaica, Madagascar e Namibia. In Italia l’estradizione è regolata dall’articolo 13 del codice penale italiano che stabilisce come sia regolata dalla legge penale italiana, dalle convenzioni e dagli usi internazionali. Il nostro Paese, dal 1873, ha stipulato diversi accordi di estradizione bilatere con la maggior parte dei Paesi nel mondo.
Mondo
Michelle Obama: «Barak? Mi sono innamorata della sua voce»
Trentadue anni di matrimonio, due figlie e una storia d’amore nata da una telefonata: Michelle Obama ha rivelato come è iniziata la relazione con l’uomo che sarebbe diventato il 44° Presidente degli Stati Uniti.

Michelle Obama ha raccontato un episodio inedito e personale del suo passato sentimentale nell’ultima puntata del podcast “In My Opinion (IMO)”, ospitato dal fratello Craig Robinson. Quando lui le ha chiesto quale fosse stato il primo dettaglio ad attirarla in Barack Obama, la risposta è stata immediata: «La sua voce. Profonda, calda, sicura. Più sexy di quanto mi aspettassi».
La loro prima interazione non fu dal vivo, ma al telefono. Michelle, all’epoca giovane avvocata nello studio legale Sidley Austin di Chicago, era stata incaricata di fare da mentore a un promettente tirocinante di Harvard. Nonostante inizialmente lo immaginasse come un tipo “nerd e un po’ strano”, l’impressione cambiò non appena lo sentì parlare.
Una scintilla difficile da ignorare
Quando finalmente si incontrarono di persona, la sorpresa fu totale. «Era alto, affascinante, con una sicurezza disarmante. E decisamente più attraente della foto che avevo ricevuto». I due condivisero un pranzo ricco di risate e conversazioni profonde, e tra loro nacque subito un’intesa speciale. Tuttavia, Michelle tentò inizialmente di resistere: «Essendo la sua mentore, non volevo mischiare lavoro e sentimenti».
Al punto da cercare di presentargli altre donne. Ma Barack, con la calma e la determinazione che ancora oggi lo contraddistinguono, non si fece scoraggiare. «Hai fascino, sei brillante. E poi, che importa cosa pensa lo studio? È la nostra vita», le disse per convincerla a uscire con lui.
Le regole (e il rischio) di perdere l’amore
Michelle ha ammesso che la sua rigidità iniziale rischiava di farle perdere “l’amore della vita”. «Stavo per lasciar perdere tutto per rispettare regole che, col senno di poi, non avevano alcun senso. Per fortuna Barack ha avuto la pazienza e il coraggio di farmelo capire».
Oggi i due festeggiano 32 anni di matrimonio, hanno cresciuto insieme due figlie, Malia e Sasha, e affrontato con unità ogni fase della vita pubblica e privata. Nonostante le voci ricorrenti di crisi, Michelle chiarisce: «Non ho mai pensato di lasciarlo. Abbiamo affrontato momenti duri, ma sono diventata una donna migliore grazie a lui. E quella voce, credetemi, è ancora sexy come allora».
Mondo
Trump vuole il Nobel per la Pace. Ma di pacifico, in lui, c’è solo l’ego
Si paragona a Mandela, ma firma accordi che non reggono una settimana, minaccia l’Iran, accarezza Netanyahu e rilancia la pena di morte. Ora sogna il Nobel per la Pace, come se la pace fosse un reality di cui essere il protagonista.

Donald Trump non vuole solo governare il mondo. Vuole anche essere premiato per averlo messo a ferro e fuoco. Il 10 ottobre verrà annunciato il nuovo Nobel per la Pace e, tra i candidati più discussi, spunta proprio lui: l’uomo che bombarda, firma tregue che non durano un giorno e si autoproclama salvatore dell’umanità.
«Ho concluso sette guerre», si è vantato dal palco dell’Onu, mentre il pianeta conta i danni lasciati dalle sue “missioni di pace”. Dall’Iran al Congo, dal Caucaso a Gaza, Trump si attribuisce meriti che non ha e si vende come un mediatore globale. In realtà, le sue “pacificazioni” sono contratti commerciali camuffati da diplomazia.
Gli Accordi di Abramo, che nel 2020 dovevano normalizzare i rapporti tra Israele e il mondo arabo, oggi sono ridotti in macerie. Il Medio Oriente brucia, Netanyahu lo ringrazia a colpi di missili e i Paesi firmatari si sfilano uno dopo l’altro. Lo stesso vale per l’Asia, dove i “cessate il fuoco” tra India e Pakistan o tra Thailandia e Cambogia sono serviti solo a fargli scrivere qualche tweet trionfale.
Ma il colpo più grottesco resta la “pace” afghana. Trump firmò con i Talebani un accordo di resa travestito da vittoria, lasciando a Biden il compito di gestire la disfatta. La sua eredità? Un Paese tornato indietro di vent’anni e le donne di nuovo sotto il burqa.
Eppure, nonostante guerre sospese e bombe che ancora cadono, Trump insiste: “Merito il Nobel”. Del resto, ha appena ribattezzato il Pentagono “Dipartimento della Guerra” e reintrodotto la pena di morte a Washington DC. È la sua personale idea di “fratellanza tra i popoli”.
Il Comitato di Oslo, se ha ancora un briciolo di senso dell’umorismo, potrebbe anche premiarlo. Ma dovrebbe farlo per la categoria giusta: miglior attore non protagonista nel film della pace mondiale. Perché se davvero il Nobel finisse nelle sue mani, l’unica cosa a morire sarebbe la credibilità del premio stesso.
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