Benessere
Ma vai a farti un bagno: ecco tutti i benefici
Facebdo un bagno in mare non solo ci rinfreschiamo ma, anche inconsapevolmente, favoriamo una serie di benefici per il nostro corpo. Scopriamo insieme quali
L’acqua salata rappresenta il 97% delle risorse idriche del nostro pianeta, con caratteristiche uniche ed ottimi benefici per l’organismo ma non solo. Nell’acqua cosiddetta “salata” si trovano una serie di sostanze disciolte come calcio, fosforo, magnesio, potassio, ferro e una percentuale elevata di cloruro di sodio, ovvero il comunissimo sale. L’acqua di mare contiene una percentuale di sale che va dal 2,5% al 3,5% del composto liquido, che determina una serie di proprietà. Quello sopraddetto è un valore elevato, se si confronta con quello dell’acqua dolce che invece contiene al massimo l’1% di cloruro di sodio.
Perchè l’acqua del mare è così
Grazie alle ricerche scientifiche, oggi sappiamo che all’inizio della formazione della terra, i mari erano composti di acqua dolce. La presenza del sale negli oceani risale a una fase più recente della vita del nostro pianeta, quando la crosta terrestre ha cominciato a raffreddarsi e si sono create le prime placche tettoniche. Il sale e i vari minerali sono stati letteralmente trasportati nel mare, arricchendolo, attraverso le piogge e l’azione costante dei fiumi. L’acqua marina continua a mantenere la sua salinità grazie al cosiddetto ciclo idrologico: il sole riscalda gli oceani, producendo l’evaporazione dell’acqua ma non del cloruro di sodio che rimane nel mare.
Acque più o meno ricche di sale: perchè
L’acqua, priva di sale, ritorna allo stato liquido attraverso la pioggia e la neve, che alimentano laghi e fiumi. Così il livello del sale continua lentamente ad aumentare, differenziandosi in base alla loro collocazione e all’estensione delle acque salate. Infatti nei mari aperti la salinità è più bassa, mentre nel caso di quelli chiusi il livello di sali aumenta, fino a toccare percentuali elevate. Nelle acque più calde l’evaporazione è maggiore, quindi anche la concentrazione di sale è più alta. Nelle zone artiche, invece, si ha una minore salinità del mare, grazie anche a un’elevata percentuale di acqua dolce proveniente dai ghiacci.
Benefici
Grazie alla presenza di un’alta percentuale di sali e di sostanze disciolte come iodio, zolfo e fluoro, l’acqua di mare può essere impiegata come disinfettante per piccole ferite ed escoriazioni, favorendo la cicatrizzazione dei tessuti. Svolgendo inoltre un’azione antibatterica, intervenendo su microbi e agenti patogeni del cavo orale e della bocca.
Un toccasana per l’epidermide
L’acqua salata produce effetti benefici sulla pelle, grazie alla sua azione antibatterica. I trattamenti con l’acqua di mare purificata permettono di far acquisire lucentezza all’epidermide, curando acne e punti neri e, in generale, migliorando lo stato di salute della pelle grassa. Inoltre può essere impiegata anche per curare, in maniera naturale, infiammazioni e dermatiti.
Vaffan bagno!
Immergersi nell’acqua di mare può rappresentare un utile trattamento per eliminare eventuali tensioni muscolari, grazie alla maggiore densità dei i sali disciolti in essa che favoriscono il galleggiamento. Inoltre, l’acqua di mare produce effetti benefici anche sulla respirazione, combattendo patologie come allergie, tosse e asma.
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Benessere
Craving, il desiderio che accende il cervello: capire e gestire la spinta alla dipendenza
Dalle sostanze ai comportamenti compulsivi, il craving è un bisogno improvviso e intenso che può riaccendere la dipendenza anche dopo anni di astinenza. Le neuroscienze spiegano perché nasce e come affrontarlo con strategie terapeutiche mirate.
Un impulso che parte dal cervello
In psicologia clinica, il termine craving indica un desiderio intenso, quasi irresistibile, di assumere una sostanza o di ripetere un comportamento che in passato ha generato piacere o sollievo. È un’esperienza comune nei disturbi da uso di sostanze — come alcol, nicotina, cocaina o oppiacei — ma anche nelle dipendenze comportamentali, come il gioco d’azzardo, il cibo o l’uso compulsivo di internet.
A livello biologico, il craving è una risposta del cervello ai sistemi di ricompensa, governati da neurotrasmettitori come dopamina e serotonina. Queste sostanze chimiche regolano la motivazione, il piacere e la memoria emotiva: quando vengono alterate da un’esperienza di forte gratificazione, il cervello “impara” ad associare quella sensazione a un segnale di benessere immediato, creando una traccia difficile da cancellare.
Perché si manifesta anche dopo molto tempo
Uno degli aspetti più insidiosi del craving è la sua capacità di riemergere anche dopo anni di astinenza. Gli stimoli che lo innescano — un odore, una canzone, un luogo o un’emozione — riattivano la memoria della gratificazione passata. Gli esperti parlano di “memoria del piacere”, una sorta di scorciatoia che il cervello utilizza nei momenti di stress o vulnerabilità emotiva.
Secondo il National Institute on Drug Abuse (NIDA), questa riattivazione può avvenire per via di cambiamenti duraturi nei circuiti neuronali, in particolare nell’amigdala e nella corteccia prefrontale, aree coinvolte nel controllo delle emozioni e nelle decisioni razionali.
Il craving, dunque, non è un segno di debolezza o mancanza di volontà, ma una reazione fisiologica di adattamento. Comprenderlo in questa chiave è essenziale per ridurre il senso di colpa e favorire un approccio terapeutico più realistico e compassionevole.
Come si affronta: strategie e terapie
Gestire il craving richiede un lavoro su più livelli. Le tecniche cognitivo-comportamentali aiutano a riconoscere i pensieri automatici e a sostituirli con risposte più consapevoli. Il mindfulness training — ossia la consapevolezza del momento presente — si è dimostrato efficace nel ridurre l’intensità dell’impulso, così come l’esercizio fisico regolare, che stimola la produzione naturale di dopamina e endorfine.
Ma da solo, il controllo mentale non basta. Nelle fasi iniziali dell’astinenza, è fondamentale il supporto di professionisti e di una rete terapeutica integrata, che includa psicologi, psichiatri e gruppi di sostegno. Gli interventi farmacologici — come quelli che modulano i recettori dopaminergici o serotoninergici — possono ridurre l’urgenza del desiderio e migliorare l’aderenza ai percorsi di disintossicazione.
Dal controllo alla consapevolezza
Superare il craving non significa eliminarlo del tutto, ma imparare a riconoscerlo e gestirlo. Gli specialisti dell’Istituto Europeo delle Dipendenze (IEuD) sottolineano che monitorare gli episodi, annotare i fattori scatenanti e parlarne apertamente aiuta a “ridurre il potere” dell’impulso. Con il tempo, la persona costruisce una nuova relazione con sé stessa e con le proprie emozioni, trasformando il bisogno in conoscenza di sé.
La chiave, quindi, non è reprimere il desiderio, ma comprenderlo: solo così si può spezzare il legame tra impulso e azione. In questa prospettiva, la libertà non coincide con l’assenza di craving, ma con la capacità di scegliere consapevolmente come rispondere a esso.
Benessere
Melatonina sotto esame: un nuovo studio mette in dubbio la sua sicurezza a lungo termine
Secondo i dati presentati all’American Heart Association, l’uso prolungato di integratori di melatonina sarebbe associato a un aumento del rischio di insufficienza cardiaca e mortalità. Gli esperti invitano però alla cautela: i risultati sono preliminari e non dimostrano un rapporto di causa-effetto.
La melatonina è spesso vista come un alleato naturale del sonno: un ormone che il cervello produce spontaneamente e che regola il nostro ritmo circadiano, aiutando l’organismo a distinguere il giorno dalla notte. Non stupisce, quindi, che milioni di persone nel mondo la assumano sotto forma di integratore per combattere insonnia, jet lag o disturbi del ritmo sonno-veglia. Ma una nuova ricerca americana invita a rivedere questa percezione di totale innocuità.
Durante il congresso annuale dell’American Heart Association (AHA), un team della SUNY Downstate Health Sciences University ha presentato uno studio osservazionale che collega l’uso prolungato di melatonina a un aumento dei rischi cardiovascolari. L’analisi ha preso in esame oltre 130.000 pazienti con diagnosi di insonnia, confrontando chi aveva assunto l’ormone per almeno un anno con chi non ne aveva mai fatto uso.
I risultati hanno destato sorpresa: chi assumeva melatonina da più di dodici mesi mostrava un rischio superiore del 90% di sviluppare insufficienza cardiaca, una probabilità di ricovero triplicata per lo stesso motivo e una mortalità complessiva doppia rispetto agli altri pazienti.
“Gli integratori di melatonina sono percepiti come sicuri e naturali,” ha spiegato Ekenedilichukwu Nnadi, autore principale della ricerca. “Per questo motivo siamo rimasti colpiti nel riscontrare un aumento così coerente e marcato di eventi cardiaci gravi, anche dopo aver corretto i dati per altri fattori di rischio.”
Un ormone utile, ma da non banalizzare
La melatonina è prodotta naturalmente dalla ghiandola pineale, e la sua secrezione aumenta con l’oscurità, segnalando all’organismo che è ora di dormire. Gli integratori che la contengono sono di libera vendita in molti Paesi, inclusa l’Italia, e vengono consigliati per brevi periodi. Le linee guida mediche raccomandano infatti di non prolungarne l’assunzione oltre due o tre mesi consecutivi, poiché non sono ancora noti gli effetti a lungo termine.
In molti casi, l’uso eccessivo o improprio della melatonina nasce dalla convinzione che, trattandosi di una sostanza “naturale”, non possa fare male. Ma come ricordano i medici, anche un ormone endogeno può alterare delicati equilibri fisiologici se assunto in dosi o tempi non adeguati.
Cautela nell’interpretare i risultati
Nonostante i dati dello studio siano stati accolti con interesse, gli esperti invitano alla prudenza. La ricerca, infatti, non è ancora stata pubblicata su una rivista scientifica con revisione tra pari (peer review) e presenta limiti metodologici significativi. In particolare, non è possibile escludere che i pazienti che assumono melatonina abbiano disturbi del sonno più gravi o altre condizioni preesistenti che aumentano di per sé il rischio di problemi cardiaci.
“È possibile che l’insonnia cronica, la depressione o l’ansia abbiano un ruolo confondente,” ha precisato Nnadi. “Serviranno ulteriori indagini per capire se la melatonina abbia un effetto diretto sul cuore o se la correlazione osservata sia solo apparente.”
Cosa significa per chi la assume
Per chi utilizza la melatonina saltuariamente, non ci sono motivi di allarme immediato. Gli esperti consigliano tuttavia di consultare sempre il medico prima di assumere integratori per periodi lunghi o in presenza di patologie cardiovascolari. Inoltre, ricordano che la qualità del sonno dipende anche da abitudini quotidiane come l’esposizione alla luce naturale, l’alimentazione e la gestione dello stress.
In attesa di conferme scientifiche più solide, il messaggio degli specialisti è chiaro: anche quando si tratta di sostanze “naturali”, la prudenza è la miglior alleata della salute.
Benessere
Addormentarsi in due minuti: il metodo militare che promette sonni rapidi e profondi
Rilassamento muscolare, respirazione lenta e visualizzazione: i tre passaggi del metodo “militare” spiegati dalla scienza. Gli esperti, però, invitano alla cautela: dormire bene non è solo questione di tecnica.
Capita a molti: ci si infila a letto stanchi, gli occhi bruciano per la giornata lunga, ma il sonno non arriva. Si gira, ci si rigira, si guarda l’orologio, e più ci si sforza di dormire, più il cervello resta sveglio. In Italia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, un adulto su tre dorme meno di quanto dovrebbe e circa uno su sette lamenta una qualità del sonno insoddisfacente. Non stupisce, quindi, che sui social spopoli ogni metodo che promette un addormentamento rapido. Tra questi, quello che molti chiamano “metodo militare” è diventato virale: una tecnica che – almeno in teoria – permetterebbe di addormentarsi in due minuti, ovunque ci si trovi.
Un metodo da caserma (ma utile anche a casa)
La tecnica è stata resa popolare da diversi manuali di addestramento dell’esercito americano e ripresa, più di recente, dal professor Dean J. Miller, docente di Scienze della salute alla CQUniversity Australia e studioso dei disturbi del sonno. Miller ha collaborato con militari e atleti per ottimizzare il riposo in condizioni estreme, e ha descritto i tre passaggi fondamentali del metodo.
- Rilassamento muscolare progressivo. Serve a sciogliere le tensioni fisiche, tra le principali nemiche del sonno. Si parte dal viso — rilassando fronte, mandibola e occhi — e si prosegue con spalle, braccia, torace e gambe.
- Respirazione controllata. Inspirare lentamente e espirare in modo più lungo aiuta a calmare il sistema nervoso, rallentando il ritmo cardiaco.
- Visualizzazione. Immaginare un ambiente tranquillo — una spiaggia, un prato, un cielo notturno — distoglie la mente dai pensieri intrusivi che tengono svegli.
L’obiettivo è quello di indurre uno stato di rilassamento profondo, simile a quello che precede naturalmente l’addormentamento.
Cosa dice la scienza del sonno
Il metodo militare non è una magia, ma condivide alcuni principi con la terapia cognitivo-comportamentale per l’insonnia (CBT-I), la più efficace secondo la comunità scientifica. Entrambe puntano a ridurre l’ansia da prestazione legata al sonno e a ristabilire un’associazione positiva tra letto e riposo.
La CBT-I, ad esempio, incoraggia a coricarsi solo quando si è assonnati, evitare l’uso del cellulare o altre attività a letto, mantenere orari regolari e creare un ambiente rilassante. Anche pratiche come mindfulness, respirazione lenta e rilassamento muscolare sono parte integrante dei protocolli terapeutici.
“Il metodo militare funziona per alcune persone perché agisce su mente e corpo contemporaneamente,” spiega Miller. “Ma non è una soluzione miracolosa, e i risultati dipendono molto dalle abitudini quotidiane e dallo stress personale.”
Funziona davvero? Dipende da noi
Nonostante il nome, non serve una disciplina da soldato per provarlo. Tuttavia, gli esperti mettono in guardia da aspettative irrealistiche: addormentarsi in due minuti non è alla portata di tutti, soprattutto se si conduce una vita stressante o si soffre di insonnia cronica.
La Sleep Foundation ricorda che impiegare 10-20 minuti per addormentarsi è perfettamente normale, mentre riuscirci in meno di cinque minuti potrebbe indicare eccessiva stanchezza o deprivazione di sonno.
Provare il metodo militare non comporta rischi e può essere un buon esercizio di rilassamento. Ma se la difficoltà ad addormentarsi diventa persistente, la soluzione migliore resta rivolgersi a uno specialista del sonno.
Dormire bene è (ancora) una questione di equilibrio
Non esistono trucchi universali per dormire subito: il segreto è costruire nel tempo una routine serena, costante e coerente con i ritmi naturali del corpo. Ridurre caffeina e alcol, limitare l’uso dei dispositivi elettronici prima di dormire, e creare un ambiente buio e silenzioso restano le basi di una buona igiene del sonno.
Perché, anche se il metodo militare promette risultati lampo, il vero riposo si conquista con costanza, non con la velocità.
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