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Salute

Maledette notifiche, vibrazione e suonerie, una gran fonte di stress!

Un recente studio del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità ha individuato come causa di ansia e stress le continue notifiche che riceviamo. E che ci distolgono da quello che stiamo facendo.

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    Uno studio del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità ha individuato come causa di ansia e stress le continue notifiche che riceviamo sui nostri cellulari. E che ci distolgono da quello che stiamo facendo.

    Vibrazione fatale

    Infatti basta una vibrazione nella tasca, un suono che proviene da un’altra stanza, che ci precipitiamo subito a prendere lo smartphone. Per distogliere il nostro cervello da ciò che stiamo facendo. La notifica: una delle invenzioni più pervasive degli ultimi decenni. Una rivoluzione tecnologica importante ma con un lato oscuro devastante. L’iper-connessione sta cambiando le nostre vite, e… crea tanta dipendenza.

    Una piccola gratifica che crea attesa

    Secondo Adele Minutillo, psicologa, del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità, in una recente intervista ha specificato come da un punto di vista neurobiologico il circuito che viene attivato è quello del piacere. “Ogni volta che controlliamo il telefono riceviamo una piccola gratificazione in modo simile a quanto avviene con il gioco d’azzardo o con altre sostanze che creano assuefazione“.

    Pericolo dipendenza da troppa dopamina

    Minutello è convinta che il picco di dopamina che si genera ci spinge a ricercare questa attività con sempre maggiore frequenza “(…) e con “dosi” sempre più importanti”. Una dpendenza che può innescare anche una sindrome da astinenza come accade anche per sigarette e alcool.

    Come nasce la nomofobia

    Secondo la ricercatrice molte persone arrivano addirittura a sviluppare veri e propri stati d’ansia o attacchi di panico se per caso si esce di casa senza cellulare. Tanto da sentirsi “nudi”? È la cosiddetta “nomofobia”, da no-mobile-phone-phobia.

    Generazione Z la più vulnerabile

    Questa sindrome colpirebbe maggiormente i giovani della Generazione Z. Ma per quale motivo? “La ragione principale“, dice la ricercatrice, “è che si tratta di ragazze e ragazzi nati in questo mondo che vivono con estrema naturalità. Mentre quelli di una certa età hanno avuto modo di imparare. Nel nostro rapporto è emerso chiaramente che i ragazzi e le ragazze che avevano problemi di dipendenza da videogiochi e social media erano quelli che più frequentemente soffrivano di stati di ansia e depressione preesistenti“.

    Ma la famiglia non dà sempre il buon esempio

    Purtroppo in famiglia i genitori dei ragazzi che appartengono alla Gen-Z non danno il buon esempio. Ci sono infatti genitori iper connessi che spesso non riescono a stabilire regole nell’utilizzo della tecnologia nemmeno su sé stessi. Figuriamoci se possono dare un buon esempio.

    Niente tablet e notifiche fino ai tre anni

    Come possiamo evitare che già in tenera età i nostri bambini siano sottoposti a questo pericolo? Secondo la ricercatrice le linee guida pediatriche ci indicono “(…) che i bambini fino ai 3 anni non dovrebbero avere accesso a tablet e strumenti simili. In età adolescenziale, poi, la prevenzione deve basarsi su percorsi di consapevolezza ed educazione all’uso“. Se un genitore riscontra già i primi sintomi di “dipendenza da notifica” a chi si può rivolgere? “Quei casi vanno presi in carico da strutture specialistiche come i Servizi per le dipendenze o le neuropsichiatrie del Sistema Sanitario“. Prosegue Minutillo. Purtroppo non è ancora operativo un numero verde nazionale. Ma è disponibile sul sito dipendenzainternet.iss.it che propone una mappatura delle oltre 100 risorse territoriali che si occupano del problema.

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      Salute

      Endometriosi: come si manifesta e perché è fondamentale non ignorare i segnali del corpo

      Dolore pelvico, mestruazioni molto abbondanti, affaticamento e problemi digestivi sono soltanto alcuni dei campanelli di allarme. Diagnosi precoce e monitoraggio clinico possono fare la differenza in una patologia che richiede attenzione, ascolto e percorsi personalizzati.

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      Endometriosi

        L’endometriosi è una patologia ginecologica cronica caratterizzata dalla presenza di tessuto simile all’endometrio — la mucosa che riveste l’interno dell’utero — in zone dove non dovrebbe trovarsi, come ovaie, tube, peritoneo o, più raramente, intestino e vescica. Secondo stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, riguarda circa il 10% delle donne in età fertile. Nonostante questa alta diffusione, rimane una delle malattie più difficili da identificare tempestivamente: i sintomi sono vari, non sempre specifici e facilmente confondibili con dolori mestruali “normali”.

        Il problema principale, spiegano gli specialisti, è proprio la normalizzazione del dolore femminile. Molte donne crescono pensando che soffrire durante il ciclo sia inevitabile, e questo ritarda la ricerca di aiuto. In realtà, un dolore pelvico intenso e ricorrente non è mai da ignorare, soprattutto se interferisce con attività quotidiane, lavoro o studio.

        Come si manifesta: sintomi da non sottovalutare

        Dolori mestruali molto forti (dismenorrea)

        Il sintomo più caratteristico è un dolore che va oltre il “fastidio mestruale” tipico: si tratta di crampi intensi che possono estendersi alla schiena e agli arti inferiori, spesso resistenti ai comuni analgesici.

        Dolore pelvico cronico

        Non riguarda solo i giorni del ciclo. Può presentarsi anche ovulando, durante l’attività fisica o senza un motivo apparente, diventando continuo o periodico.

        Dolore durante i rapporti (dispareunia)

        La presenza di tessuto endometriosico in profondità può rendere il sesso doloroso, un aspetto che molte donne evitano di raccontare per imbarazzo o pudore.

        Problemi intestinali o urinari

        Gonfiore, stitichezza, diarrea, dolore alla minzione o alla defecazione possono comparire soprattutto in prossimità del ciclo, quando l’infiammazione aumenta.

        Affaticamento e senso di spossatezza

        Non è solo fisico: l’endometriosi può incidere sulla qualità del sonno e sulla concentrazione.

        Difficoltà a concepire

        In alcuni casi la malattia si accompagna a problemi di fertilità, sebbene molte donne con endometriosi riescano comunque a rimanere incinte con o senza trattamenti specifici.

        Perché è fondamentale non trascurare i sintomi

        Il ritardo diagnostico è ancora molto diffuso: la media europea è tra i sette e i nove anni dall’esordio dei primi segnali. Ignorare il dolore o considerarlo “normale” significa permettere alla malattia di progredire, aumentando l’infiammazione e il rischio di complicazioni come aderenze, cisti ovariche (endometriomi) o compromissione della fertilità.

        Un’identificazione precoce consente invece di intraprendere percorsi terapeutici adeguati, che possono includere:

        • gestione del dolore con farmaci mirati;
        • terapie ormonali per ridurre l’infiammazione;
        • fisioterapia del pavimento pelvico;
        • supporto psicologico, quando necessario;
        • interventi chirurgici nei casi più complessi.

        Non esiste una cura definitiva, ma è possibile controllare la sintomatologia e migliorare significativamente il benessere quotidiano.

        Ascoltare il corpo è il primo passo

        Capire quando un sintomo non è più “normale” è un atto di consapevolezza. Parlare con il proprio medico, descrivere con precisione il tipo di dolore e tenere traccia del ciclo mestruale può facilitare il processo diagnostico. L’endometriosi non è una malattia invisibile, ma una patologia che ha bisogno di essere riconosciuta e gestita con competenza e tempestività.

        Investire nella propria salute, informarsi e chiedere aiuto non è debolezza: è un gesto di forza e un modo per riprendersi il controllo della propria vita.

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          Salute

          Borsite: perché si infiammano le “cuscinetto” delle articolazioni e come intervenire

          Dalla postura ai microtraumi quotidiani, fino alle patologie reumatologiche: comprendere le cause della borsite è essenziale per scegliere cure mirate e prevenire recidive.

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          Borsite

            La borsite è un’infiammazione delle borse sierose, piccole sacche piene di liquido situate vicino alle articolazioni che hanno la funzione di ridurre l’attrito tra ossa, tendini e muscoli. Quando una di queste strutture si irrita, compaiono dolore, gonfiore e una sensazione di calore localizzato che può compromettere anche i movimenti più semplici. Le sedi più colpite sono spalla, gomito, anca e ginocchio, ossia le articolazioni maggiormente sollecitate.

            La causa più comune è il sovraccarico funzionale: movimenti ripetitivi, allenamenti intensi, lavori manuali che richiedono gesti sempre uguali o posture scorrette mantenute a lungo possono irritare la borsa. Non sorprende che la borsite sia frequente in chi pratica sport come tennis, pallavolo o corsa, ma anche in chi trascorre ore al computer senza pause. A volte sono i microtraumi quotidiani — appoggiarsi spesso sui gomiti o inginocchiarsi per lavoro — a scatenare l’infiammazione.

            Esistono però altre cause meno evidenti. Alcune malattie, come artrite reumatoide, gotta o infezioni batteriche, possono provocare una borsite secondaria, spesso più dolorosa e persistente. Anche un trauma diretto, come una caduta sull’articolazione, può far accumulare liquido nella borsa e innescare il processo infiammatorio. Infine, con l’avanzare dell’età i tessuti diventano meno elastici e più vulnerabili alle sollecitazioni, aumentando il rischio di infiammazione.

            I sintomi variano in base alla zona coinvolta: alla spalla si avverte dolore quando si solleva il braccio, al gomito compare un rigonfiamento morbido, al ginocchio la mobilità diventa limitata. La diagnosi, sebbene spesso clinica, può essere approfondita con ecografia o esami del sangue quando si sospetta un’infezione o una patologia sistemica.

            Il primo rimedio consigliato è il riposo dell’articolazione colpita, seguito dall’applicazione di ghiaccio, utile per ridurre gonfiore e dolore nelle fasi iniziali. Gli antinfiammatori non steroidei, prescritti dal medico, possono offrire sollievo nei casi più fastidiosi. La fisioterapia rappresenta una tappa importante per recuperare forza e correggere eventuali errori posturali o meccanici che hanno favorito l’infiammazione. In alcune situazioni, soprattutto nelle borsiti croniche, può essere utile una infiltrazione di corticosteroidi, che agisce direttamente nel punto dolente.

            Se la causa è infettiva — un caso più raro ma possibile — è necessario intervenire con antibiotici e, talvolta, aspirare il liquido infiammato dalla borsa. L’intervento chirurgico viene valutato solo quando i trattamenti conservativi falliscono.

            La prevenzione resta l’arma più efficace: fare pause regolari durante attività ripetitive, utilizzare protezioni per le ginocchia o i gomiti nei lavori a rischio, riscaldarsi prima dell’attività sportiva e migliorare la postura quotidiana. Piccoli accorgimenti che aiutano a preservare la funzionalità delle articolazioni ed evitare il ritorno dell’infiammazione.

            Comprendere la borsite significa dunque imparare ad ascoltare i segnali del proprio corpo. Intervenire per tempo permette di risolvere il problema rapidamente e tornare alle attività quotidiane senza limitazioni e senza dolore.

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              Microrobot magnetici svizzeri: una svolta nella cura di ictus, tumori e infezioni

              Un progetto d’avanguardia dell’ETH Zurigo fa compiere un salto di qualità alla medicina: minuscoli robot magnetici capaci di navigare nei vasi sanguigni più stretti e distribuire farmaci con una precisione mai vista prima.

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              Microrobot magnetici

                Negli ultimi mesi, un gruppo di ricercatori dell’ETH Zurigo (Politecnico Federale di Zurigo) ha suscitato notevole attenzione con lo sviluppo di microrobot magnetici in grado di muoversi all’interno del corpo umano. Secondo l’istituto, queste minuscole capsule potrebbero aprire nuove strade nel trattamento dell’ictus, dei tumori e delle infezioni localizzate, grazie alla capacità di veicolare farmaci direttamente nel sito colpito.
                La ricerca, pubblicata sulla rivista Science, segna un passo in avanti importante nella medicina di precisione.

                Come funzionano i microrobot di Zurigo

                I dispositivi sono costituiti da una piccola capsula a base di gel solubile che incorpora nanoparticelle di ossido di ferro, utili per la manovrabilità tramite campi magnetici, e nanoparticelle di tantalio, che ne permettono la visibilità tramite raggi X.
                Per guidarli con precisione, gli scienziati hanno messo a punto un sistema di navigazione elettromagnetica modulare che combina tre diverse strategie magnetiche, consentendo di manovrare il microrobot anche in vasi complessi, controcorrente o su pareti vascolari.
                Quando il microrobot giunge nel punto voluto, un campo magnetico ad alta frequenza riscalda le nanoparticelle di ferro, facendo sciogliere la capsula di gel e liberando il farmaco solo dove serve.

                Esperimenti e risultati preclinici

                Il team ha già testato il sistema su modelli realistici di vasi sanguigni e su grandi animali. In modelli su maiali, i microrobot sono stati in grado di navigare correttamente e restare visibili tramite fluoroscopia.
                Nei test, il rilascio del farmaco è avvenuto nel sito bersaglio in oltre il 95% dei casi, dimostrando un controllo estremamente efficiente.
                Secondo gli autori, non sono state osservate reazioni immunitarie pericolose né complicazioni immediate dopo l’intervento.

                Applicazioni terapeutiche: ictus, tumori e infezioni

                • Ictus ischemico: nei pazienti con trombosi cerebrale, i microrobot potrebbero consegnare direttamente un agente trombolitico nel punto di occlusione, accelerando la dissoluzione del coagulo e riducendo il rischio di danni cerebrali dovuti al ritardo terapeutico.
                • Tumori: grazie al rilascio mirato, si potrebbero somministrare chemioterapici direttamente nella massa neoplastica, minimizzando l’esposizione dei tessuti sani e gli effetti collaterali sistemici.
                • Infezioni localizzate: soprattutto per infezioni resistenti o in aree difficili da raggiungere, i microrobot potrebbero trasportare antibiotici ad alta concentrazione proprio nella zona interessata.

                Quando arriveranno sull’uomo?

                Nonostante i promettenti risultati su modelli animali, l’impiego clinico umano non è ancora imminente. Il gruppo di ETH Zurich sta già pianificando studi clinici, ma sono necessari standard di sicurezza elevatissimi.
                Le autorità regolatorie dovranno valutare vari aspetti, tra cui possibili risposte immunitarie, il modo in cui recuperare o eliminare i microrobot alla fine della terapia, e l’efficacia del controllo magnetico in corpi umani con caratteristiche differenti.

                Verso un cambio di paradigma terapeutico

                Se confermata e sicura, questa tecnologia rappresenta una vera rivoluzione per la medicina: portare farmaci esattamente dove servono, riducendo esporre il resto dell’organismo. Questo è l’obiettivo della medicina di precisione, ed è qui che i microrobot svizzeri si collocano come una delle soluzioni più avanzate.
                Gli esperti vedono ulteriori sviluppi: in futuro, queste capsule potrebbero non solo somministrare terapie, ma anche includere sensori per diagnosticare in tempo reale, prelevare campioni da zone difficili da raggiungere o persino eseguire micro-interventi riparativi. Demografica

                Impatto potenziale e prospettive

                La ricerca dell’ETH Zurigo ha già suscitato l’interesse della comunità scientifica e medica internazionale. Secondo il comunicato ufficiale, il team spera di ottenere progressi rapidi per passare alla sperimentazione clinica.
                Se applicati su larga scala, questi microrobot potrebbero ridurre significativamente gli effetti collaterali delle terapie tradizionali e migliorare i risultati clinici per patologie ad alto impatto, in particolare l’ictus, che in Europa resta una delle principali cause di morte e disabilità.
                Il loro sviluppo conferma anche quanto la nanotecnologia e la micro-robotica siano diventate fondamentali per il futuro della medicina.

                In sintesi, la nuova generazione di microrobot magnetici dell’ETH Zurigo rappresenta una frontiera concreta per la medicina personalizzata e minimamente invasiva. Nonostante le sfide normative e tecnologiche, il percorso verso la loro applicazione clinica appare ormai avviato — e il loro potenziale sta già cambiando il modo in cui immaginiamo il trasporto di farmaci nel corpo umano.

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