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Sic transit gloria mundi

Alessandro Impagnatiello e la lettera dal carcere: parole che offendono la memoria di Giulia

Una lettera scritta a mano, inviata al programma “La Zanzara”, con scuse che sembrano false e accuse a giudici e giornalisti. Alessandro Impagnatiello, l’uomo che ha tolto la vita a Giulia Tramontano, cerca visibilità con parole che suscitano solo rabbia e indignazione.

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    Alessandro Impagnatiello, condannato all’ergastolo per il brutale omicidio di Giulia Tramontano e del bambino che la giovane portava in grembo, torna a far parlare di sé con una lunga lettera inviata dal carcere al programma radiofonico La Zanzara. La missiva, letta in diretta da Giuseppe Cruciani, non ha tardato a sollevare polemiche per il contenuto ambiguo e le contraddizioni che ne emergono.

    Le sue parole si aprono con un apparente tributo alla vittima: «Giuliet, mi manchi. Ogni istante della mia esistenza è dedicato a lei… Per quanto inutili e imbarazzanti siano, ti porgo nuovamente le mie scuse». Un tentativo di apparire pentito, che tuttavia perde credibilità nel momento in cui l’uomo sposta l’attenzione su di sé, trasformando il messaggio in un inaccettabile atto di autocommiserazione.

    Non mancano poi gli attacchi ai media e ai giudici. Impagnatiello critica la “spettacolarizzazione” del processo, accusando i magistrati di aver scelto date strategiche per alimentare l’attenzione mediatica. «Vorrei essere l’ultimo caso mediatico… Questa è la banalità dei media», scrive, insinuando che il circo mediatico abbia reso lui e la sua famiglia delle vittime. Parole che suonano come una beffa, se si considera la gravità delle sue azioni.

    A chi sono rivolte davvero queste scuse? Alle vittime, che non possono leggerle? Alla famiglia di Giulia, che di certo non troverà conforto in queste parole? O forse a se stesso, nel disperato tentativo di ricostruire un’immagine pubblica irrimediabilmente distrutta? Chi è realmente pentito non cerca un palco da cui parlare. La lettera di Impagnatiello non solo offende la memoria di Giulia, ma amplifica il dolore della sua famiglia, costretta a rivivere l’orrore attraverso le sue parole.

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      Sic transit gloria mundi

      Elon Musk e il “saluto nazista”: quando le scuse sono peggiori del gesto

      Dai giornali americani e israeliani ai social, la condanna è unanime: il proprietario di X e Tesla ha fatto un gesto che non lascia spazio a dubbi. Ma la difesa è goffa e patetica: il suo referente in Italia prima esulta, poi cancella il tweet e cerca di riscrivere la realtà. Musk, dal canto suo, liquida tutto come un “trucchetto sporco”. Ma stavolta il trucco è fin troppo evidente.

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        Elon Musk ha fatto il saluto nazista in diretta TV. Lo ha fatto una volta. Poi, siccome gli era piaciuto, lo ha rifatto. Davanti a una folla in delirio. Il gesto è stato trasmesso ovunque, in tutto il mondo, e ha generato indignazione. Ma, come sempre, Musk non si scusa: nega, attacca, si rifugia nella sua solita narrativa vittimista, in cui lui è il genio perseguitato e gli altri, poveri stolti, sono solo burattini manipolati dai media in cerca di “sporchi trucchetti”.

        Il solito copione: negare, minimizzare, insultare

        Le immagini parlano chiaro. Durante il suo intervento alla Capital One Arena di Washington, Musk si è battuto il petto e ha alzato il braccio teso verso il pubblico. Poi si è voltato e ha ripetuto il gesto. Gli stessi giornali americani e israeliani, da Haaretz al Times of Israel, hanno sottolineato la gravità dell’accaduto, facendo notare che non si tratta di un incidente isolato: Musk ha già una lunga lista di strizzate d’occhio all’estrema destra, dagli attacchi a George Soros al sostegno più o meno esplicito ai movimenti suprematisti bianchi e ai partiti ultraconservatori in Europa.

        Come ha reagito? Con la solita arroganza. «Hanno bisogno di meglio di questi sporchi trucchetti», ha scritto su X, come se tutto fosse un gigantesco complotto ai suoi danni. E poi l’inevitabile vittimismo: «L’attacco tutti sono Hitler ha così stancato…».

        Le scuse che fanno ridere (e piangere)

        La ciliegina sulla torta arriva dai suoi fedeli scudieri, pronti a riscrivere la realtà con la stessa disinvoltura con cui Musk lancia razzi nello spazio. Andrea Stroppa, suo referente in Italia, inizialmente esaltato («L’Impero Romano è tornato, a cominciare dal saluto romano!»), ha cancellato il tweet e cambiato versione. Ora il gesto sarebbe semplicemente un’espressione affettuosa: «Musk è autistico e stava solo cercando di dire “Voglio darvi il mio cuore”». Ah, e ovviamente, «A Elon non piacciono gli estremisti!».

        Se davvero non c’era nulla di male nel gesto, perché cancellare il tweet? Se era un’espressione d’affetto, perché servono giustificazioni così elaborate? Se l’intento era innocente, perché il danno d’immagine è immediatamente apparso evidente perfino ai suoi collaboratori?

        La verità è che Musk sa perfettamente cosa ha fatto, e chi lo difende sta solo cercando di mettere pezze su una voragine che ormai è impossibile da nascondere.

        Dal “cuore” al danno d’immagine

        Il problema non è solo il gesto. Il problema è tutto il contesto che Musk ha costruito attorno a sé negli ultimi anni. Un contesto fatto di strizzate d’occhio al suprematismo bianco, retorica cospirazionista, ammiccamenti ai movimenti di estrema destra e gestione di Twitter (ora X) come una piattaforma sempre più accogliente per il peggior ciarpame dell’odio online.

        Musk provoca, osserva le reazioni, nega l’evidenza e trasforma tutto in uno scontro tra il “sistema” e il suo genio incompreso. Questo teatrino gli ha fruttato popolarità e seguito, ma sta arrivando il momento in cui il gioco diventa pericoloso.

        Musk e la libertà di espressione a senso unico

        Musk è lo stesso che ha costruito la sua narrativa attorno alla libertà di espressione. Ha difeso il diritto di chiunque di dire qualsiasi cosa, anche le peggiori nefandezze. Ha riammesso personaggi banditi da Twitter per incitamento all’odio, ha ridicolizzato chi si opponeva a certe derive.

        Ma quando tocca a lui? Quando viene criticato, Musk non risponde con la libertà di pensiero, risponde con la negazione e il vittimismo.

        L’ipocrisia è palese. E mentre lui finge di non capire, il messaggio è arrivato forte e chiaro: questo non è un caso isolato, è una scelta precisa.

        Ma stavolta, il trucco è troppo evidente. E fa schifo.

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          Sic transit gloria mundi

          Vannacci riscrive la storia e rilancia le ipotesi farlocche dei neonazi tedeschi: “Hitler era comunista”

          Il generale si schiera con la leader dell’ultradestra tedesca Weidel e sostiene la sua teoria bislacca. Perché la Storia, quella vera, lo smentisce senza pietà.

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            Quando pensi che l’assurdo abbia raggiunto il suo apice, arriva Roberto Vannacci a dimostrarti che c’è sempre un gradino più in basso. Dopo le dichiarazioni di Alice Weidel, leader dell’AfD tedesca, secondo cui Hitler sarebbe stato un “comunista, socialista e antisemita”, il generale non ha perso l’occasione per ribadire il concetto, con la sua solita spavalderia e una totale noncuranza per la Storia.

            Durante l’ultima puntata di Fuori dal Coro, Vannacci ha sostenuto che il nazismo sia stato un movimento socialista perché “Hitler ha fondato un partito che si chiamava nazionalsocialismo”. Un’argomentazione che farebbe inorridire qualsiasi studente di storia del primo anno, ma che evidentemente trova spazio nel suo personalissimo mondo parallelo.

            Ma il punto è semplice: no, Hitler non era comunista. No, il nazismo non aveva nulla a che vedere con il socialismo, se non nel nome (e pure quello scelto per mera strategia di consenso). Il Terzo Reich ha perseguitato e sterminato i comunisti, ha demonizzato il marxismo e ha costruito un sistema di dominio autoritario basato su razzismo, espansionismo e distruzione delle libertà democratiche.

            La stessa ideologia hitleriana è sempre stata dichiaratamente anti-marxista e antisocialista. Nel 1932, Hitler affermava: “Il socialismo è la scienza di occuparsi del bene comune. Il comunismo non è socialismo. Il marxismo non è socialismo.” Chiara la distinzione, no? Peccato che per Vannacci la Storia sia un optional.

            Forse il generale dovrebbe fermarsi un attimo, sfogliare un libro di storia (vero) e riflettere prima di lanciarsi in crociate revisioniste. Ma forse, proprio come Weidel, è troppo occupato a riscrivere la

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              Trump e i repubblicani contro il porno: dopo Stormy Daniels ipocrisia suprema?

              Dopo gli scandali con Stormy Daniels, il GOP ora vuole “castrare” i siti per adulti con leggi restrittive. La Corte Suprema discute l’obbligo di verifica dell’età, ma i rischi per la privacy preoccupano.

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                Donald Trump ai tempi si divertiva con una pornostar, oggi i repubblicani vogliono bloccare l’accesso ai siti per adulti. Sembra una sceneggiatura surreale, ma è la realtà. La Corte Suprema americana sta valutando l’adozione di restrizioni che potrebbero obbligare i siti porno a verificare l’identità degli utenti, imponendo un controllo rigoroso sui documenti di chi vuole accedere.

                Un paradosso che non passa inosservato: mentre il tycoon cerca di tornare alla Casa Bianca nonostante il processo per il presunto pagamento a Stormy Daniels, il suo partito si lancia in una crociata morale per “salvare” i giovani americani dalla pornografia.

                Il piano repubblicano: documenti obbligatori per accedere ai siti porno

                La legge al centro del dibattito è la HB 1181, già approvata in Texas nel 2023, che obbliga i siti per adulti a verificare l’età degli utenti attraverso un documento governativo. In pratica, chi vuole accedere a Pornhub & Co. dovrebbe caricare il proprio ID per dimostrare di essere maggiorenne. Il Texas non è solo: altre 16 legislature statali (tutte a guida repubblicana) stanno spingendo per norme simili, tra cui Florida, Alabama e Utah.

                Pornhub ha già reagito nel suo stile: blocco totale del servizio in Texas, lasciando gli utenti frustrati e spingendoli verso le VPN per aggirare il divieto.

                Libertà d’espressione vs. privacy: la Corte Suprema si spacca

                Il cuore della questione è un altro: il Primo Emendamento. La Corte Suprema americana, pur incline a dare ragione ai repubblicani sull’accesso dei minori, deve fare i conti con la libertà d’espressione. Chi si oppone alle restrizioni teme che l’obbligo di fornire dati personali metta a rischio la privacy degli utenti, aprendo la porta a ricatti, abusi e fughe di informazioni sensibili.

                E poi, c’è il punto chiave: i minorenni accedono comunque ai siti porno con metodi alternativi. E se il vero problema fosse l’educazione sessuale, anziché la censura digitale?

                L’ipocrisia a stelle e strisce

                In tutto questo, la contraddizione è evidente. Trump, lo stesso uomo che finì al centro di uno scandalo per il pagamento a Stormy Daniels, è ora il leader di un partito che vuole moralizzare l’America. Un partito che predica libertà assoluta per le armi, ma vuole imporre controlli rigidissimi sul sesso online.

                E mentre i giudici decidono, la pornografia resta il grande tabù americano: demonizzata in pubblico, ma consumata senza sosta nel privato.

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