Cronaca Nera
“Le donne intelligenti non me le filo neanche di striscio”: il lato oscuro e narciso di Messina Denaro, tra amanti colte e complicità criminale
Laura Bonafede e Floriana Calcagno, due professoresse cresciute in ambienti mafiosi, non erano semplici amanti: proteggevano, coprivano e veneravano Matteo Messina Denaro. Lui, narciso patologico, si sentiva adorato come una divinità. E intanto scriveva di “sensazioni liquide”, Rolex e bocche disegnate da Dio.

È una delle pagine più sconcertanti e paradossali della lunga storia criminale di Matteo Messina Denaro. Il boss stragista, l’ultimo grande latitante di Cosa Nostra, non si nascondeva solo tra complicità maschili e silenzi omertosi. Al suo fianco, nella rete protettiva che gli ha permesso per anni di sfuggire alla cattura, ci sono state soprattutto donne.
Donne istruite, laureate, insegnanti
Non solo figure devote e silenziose, ma donne istruite, laureate, insegnanti. Donne che di giorno spiegavano regole, educavano bambini, indossavano il linguaggio della legalità. E poi, fuori dalle aule, recitavano il copione spietato del potere mafioso, della fedeltà cieca, della lealtà a un uomo che chiedeva non amore, ma venerazione assoluta.
Due vite apparentemente “normali”
Floriana Calcagno, 50 anni, insegnante di matematica. Laura Bonafede, maestra, figlia di un boss, moglie di un ergastolano. Due cattedre. Due vite apparentemente “normali”. E un’unica, oscura costante: Matteo Messina Denaro. Entrambe lo hanno amato. Entrambe lo hanno protetto, coperto, aiutato nei suoi spostamenti, nei suoi nascondigli, nella latitanza durata trent’anni. Non solo relazioni sentimentali, ma alleanze strategiche. O, come hanno definito i magistrati, accudimento criminale.
Pizzini e covi segreti
Eppure, la trama di questa storia non è fatta solo di pizzini e covi segreti. È fatta di parole, scritte dal boss stesso nei suoi diari. Parole che rivelano un narcisismo sconfinato, patologico, sessista. “Quando parlo con una donna, suscito in lei una sensazione liquida che la fa tremare”, scriveva con compiacimento.
Frasi da romanzo
“Una mi disse: hai la bocca perfetta, disegnata dal Dio delle labbra”. Frasi da romanzo grottesco, eppure rivelatrici di un delirio di onnipotenza che si rifletteva anche nei rapporti più intimi.
Onore era sinonimo di silenzio
Non amava le donne intelligenti, lo diceva lui stesso. “Le donne intelligenti non me le filo neanche di striscio”. Preferiva chi lo assecondava, chi lo guardava come un dio, chi si piegava alla sua mitologia personale. Eppure, Floriana e Laura erano due donne colte, non certo sprovvedute. Ma cresciute in ambienti dove il crimine era cultura, dove l’onore era sinonimo di silenzio, dove l’appartenenza contava più della legge.
Devozione amorosa
Il punto non è solo la complicità emotiva o la devozione amorosa. È il fatto che queste donne, in ruoli pubblici, educativi, abbiano partecipato attivamente a un meccanismo di protezione mafiosa. Floriana Calcagno portava soldi al boss, lo ospitava, gli faceva da staffetta. Nella sua casa, i carabinieri del Ros hanno trovato tre Rolex, probabilmente doni del boss.
Gelosia e veleno
Laura Bonafede, invece, scriveva pizzini intrisi di gelosia e veleno, soprannominava la rivale “handicap” e “sbreghis”. Eppure lo chiamava “amico”, lo accoglieva, lo adorava. Fino a sfiorare il ridicolo: “Abbiamo incontrato l’handicappata, ci ha salutate, aveva un Moncler datato e un paio di anfibi (secondo me c’è il tuo zampino). Nero Giardini. Terribile”.
La tragicommedia di un amore tossico
In un altro pizzino scriveva: “Una volta, al limoneto, mi dicesti che al ritorno di Uomo e, successivamente, di Bamby, la nostra amicizia si interrompeva”. “Uomo” è il padre, storico boss di Campobello di Mazara. “Bamby” forse il marito. E in mezzo, la tragicommedia di un amore tossico, di una relazione nascosta ma totalizzante.
Un dio terreno
Dietro questi racconti c’è il volto più inquietante del boss: quello che credeva di essere irresistibile. E in effetti lo era, ma non per fascino. Perché incarnava il potere, la paura, il controllo. Perché era il centro di un culto. Aveva costruito la sua immagine come quella di un dio terreno: implacabile, sfuggente, idolatrato. Non cercava donne. Cercava fedeli.
Presuntuoso
Il narcisismo, scriveva nei suoi diari, era parte di sé. Non lo negava. Anzi, lo rivendicava: “Sì, sono presuntuoso, ma è la realtà delle cose”. Segnava su post-it ogni incontro. Ogni conquista era un trofeo, ogni amante un nome da appuntare, un dettaglio da archiviare. Nessun calore, nessuna emozione. Solo controllo.
E la cosa più grave, oggi, è il cortocircuito culturale che questa storia porta alla luce. Perché se la scuola è il luogo che forma cittadini, è anche il primo baluardo contro la cultura mafiosa. Ma cosa succede quando l’insegnante insegna regole al mattino e di notte infrange la legge? Cosa accade se, dietro la lavagna, c’è una fedeltà più profonda verso il silenzio mafioso che verso la Costituzione?
La vera tragedia è qui. Non nell’amore malato. Ma nella disillusione che semina. Perché quando un ragazzo scopre che la sua professoressa protegge un boss, non importa più cosa dice la lezione. La fiducia è spezzata. E la mafia, anche senza parlare, ha già vinto un altro piccolo pezzo di futuro.
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Cronaca Nera
Dal frate alla food blogger: che fine hanno fatto i ragazzi di Garlasco, 18 anni dopo il delitto di Chiara Poggi

Diciotto anni fa erano ventenni con l’estate addosso. Adolescenti di provincia, cresciuti tra le scuole e le partite a calcetto nella bassa lomellina. Oggi sono uomini e donne adulti, ciascuno con una vita diversa, più o meno lontana da Garlasco e da quella villetta in via Pascoli. Ma il tempo, nella cronaca, non basta a cancellare. Con le nuove indagini riaperte dalla procura di Pavia sul delitto di Chiara Poggi, è tornata a emergere la rete degli amici di allora: volti noti e meno noti, rimasti nel cono d’ombra di una tragedia mai dimenticata.
Marco Poggi, l’ingegnere silenzioso
Il fratello della vittima, Marco Poggi, oggi vive a Mestre, lontano da Garlasco e da quel dolore che ha segnato per sempre la sua giovinezza. Dopo la laurea in ingegneria, ha scelto l’anonimato. Non ha mai rilasciato dichiarazioni, nemmeno dopo la condanna di Alberto Stasi nel 2015. Le nuove ombre sull’inchiesta, però, lo hanno riportato sotto i riflettori. Per lui il passato non è mai passato.
Andrea Sempio, da “amico di famiglia” a indagato
Andrea Sempio, grande amico di Marco e vicino di casa della famiglia Poggi, è oggi al centro della cosiddetta “pista alternativa”. Vive a Voghera, in una casa di corte, e lavora in un negozio di telefonia a Montebello della Battaglia. Il suo nome riemerse nel 2016, quando un consulente nominato dalla difesa di Stasi trovò nel computer di Chiara una ricerca con il suo nome. Oggi è difeso dall’avvocata Angela Taccia, che da ragazza faceva parte della stessa comitiva.
Angela Taccia, l’amica diventata avvocata
Classe 1988, ex fidanzata di Alessandro Biasibetti, Angela Taccia è oggi protagonista dell’inchiesta: è la legale di Sempio. Un cortocircuito narrativo quasi cinematografico. La ragazza del gruppo, diventata avvocata a Milano, si ritrova a difendere un amico d’infanzia proprio nel caso che ha stravolto la vita di tutta la comitiva.
Alessandro Biasibetti, da oratorio a ordine domenicano
Tra i più religiosi del gruppo, Alessandro Biasibetti era noto per il suo impegno in parrocchia. Oggi è Fra Alessandro, diacono domenicano ordinato a dicembre dello scorso anno. Ha studiato a Pavia e poi a Roma. È rientrato nel caso per via dell’incidente probatorio disposto dalla Procura: anche il suo DNA sarà analizzato, come quello di molti amici dell’epoca.
Roberto Freddi e Mattia Capra, il consulente e il carrozziere
Roberto Freddi lavora oggi come consulente aziendale, mentre Mattia Capra fa il carrozziere, proprio come nel 2007. Entrambi sono stati coinvolti nelle nuove analisi biologiche ordinate dagli inquirenti. Persone normali, vite normali. Ma ancora inchiodate a una pagina di cronaca che non smette di far rumore.
Marco Panzarasa, il miglior amico di Stasi
All’epoca dei fatti era il miglior amico di Alberto Stasi, oggi è un avvocato affermato a Pavia. Anche il suo DNA sarà prelevato nell’ambito dell’incidente probatorio. Mai stato coinvolto direttamente nell’inchiesta, oggi si trova a fare i conti con un passato che torna a bussare con insistenza.
Le gemelle Cappa, tra fotografia e jet set
Paola e Stefania Cappa erano note nei giorni del delitto per quel famoso fotomontaggio davanti alla villetta, diventato simbolo delle “piste alternative” cavalcate dagli innocentisti. Oggi Paola è fotografa e food blogger, si divide tra l’Italia e Ibiza. Stefania, invece, è avvocata dal 2012, lavora nello studio legale del padre a Brera e ha sposato Emanuele Arioldi, campione di equitazione e rampollo della famiglia Rizzoli.
Cronaca Nera
“Mio figlio è innocente”: parla la madre di Alberto Stasi dopo le nuove rivelazioni sul caso Garlasco
“Non ho mai avuto dubbi su Alberto”. A parlare è la madre di Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi. Con le nuove indagini su Andrea Sempio, Elisabetta Ligabò rivendica l’innocenza del figlio: “È stato vittima di un errore giudiziario. E ora la verità sta venendo a galla”. Ma tra verità processuali e giustizia morale, il caso è tutt’altro che chiuso.

Un’impronta palmare macchiata di sangue. Bigliettini scritti a mano con frasi inquietanti. Una madre che grida al mondo l’innocenza del figlio. E un paese intero che, diciassette anni dopo, torna a domandarsi: chi ha davvero ucciso Chiara Poggi la mattina del 13 agosto 2007, nella villetta di via Pascoli, a Garlasco?
Mentre la nuova pista investigativa punta su Andrea Sempio, l’amico di Marco Poggi, con nuovi accertamenti dattiloscopici e profili psicologici al vaglio degli inquirenti, Elisabetta Ligabò, madre di Alberto Stasi, rompe il silenzio con parole taglienti: “Quello che sta venendo fuori è sconvolgente. È uno schifo, mi dispiace usare questa parola. Ma è un vero e puro schifo”.
Alberto Stasi, ex fidanzato della vittima, è detenuto da otto anni, dopo una lunga altalena giudiziaria: due assoluzioni, poi la condanna definitiva a 16 anni per omicidio. E oggi sua madre si dice pronta a battersi fino in fondo per dimostrare quello che ha sempre creduto: “Non ho mai dubitato della sua innocenza. Neppure per un minuto”.
Le novità investigative gettano ombre lunghe sulla verità processuale. L’impronta palmare rinvenuta sul muro delle scale — la cosiddetta “traccia 33” — viene ora attribuita proprio a Sempio da una perizia dei carabinieri del Ris. A questo si aggiunge il ritrovamento, nei rifiuti, di bigliettini scritti da Sempio con frasi inquietanti, come: “Ho fatto cose talmente brutte che nessuno può immaginare”. Per gli inquirenti, potrebbe trattarsi di un femminicidio nato da un rifiuto. Una verità alternativa che — se confermata — riscriverebbe tutto.
“Capisco il dolore della famiglia Poggi, lo immagino. Ma questa chiusura nei nostri confronti è incomprensibile”, dice Ligabò. “Non ho mai provato a incontrarli, ma sarei pronta a farlo. Il loro dolore è immenso, ma spero che un giorno si ricredano. Come dovranno fare tutti”.
A chi le chiede un’opinione su Andrea Sempio, la sua risposta è netta: “Io quella persona non voglio nemmeno nominarla. Di lui non parlo, assolutamente”. E sulle nuove perizie? “Sono sconcertata. Ma era tutto scritto fin dall’inizio. È stata un’indagine a senso unico. E ora chi ha sempre difeso quell’impianto accusatorio — anche chi lo firmò, come l’allora comandante del Ris Luciano Garofano — è oggi parte della difesa proprio di Sempio. Una coincidenza? No. È la solita compagnia, unita da sempre contro mio figlio”.
Eppure, c’è una verità giudiziaria che pesa come un macigno: la condanna definitiva all’ergastolo per Alberto Stasi, emessa dalla Corte di Cassazione. “Ma non dimentichiamoci che Alberto è stato assolto due volte. E quella condanna definitiva è arrivata senza prove e senza movente. Nessuno potrà mai restituirgli tutti questi anni rubati alla sua vita”.
Nel frattempo, la famiglia Stasi guarda alle nuove indagini come a un possibile riscatto. La decadenza dell’alibi di Sempio, l’impronta palmare compatibile con la sua mano destra, le telefonate insistenti a casa Poggi, tutto sembra combaciare con un quadro che — se confermato — porterebbe a rimettere tutto in discussione. Ma anche se emergesse una nuova verità, rimarrebbe una domanda: come ha fatto Alberto a resistere?
“Me lo chiedo anche io, da madre. Ha avuto una forza incredibile. Non si è mai lasciato andare. Ha sempre guardato al futuro, con dignità. Ma quello che ha vissuto è vergognoso. E ora basta: la verità va detta fino in fondo”.
Intanto, la procura continua a indagare. E il paese trattiene il fiato. Perché il caso Garlasco non è più solo una tragedia familiare. È diventato lo specchio della giustizia italiana, con le sue crepe, i suoi silenzi e le sue occasioni mancate. E ora, forse, è giunto il momento di voltare davvero pagina.
Cronaca Nera
“Ho fatto cose talmente brutte che nessuno può immaginare”: il segreto dei bigliettini di Andrea Sempio
Parole accartocciate e gettate via nella spazzatura. Frasi scritte a penna, recuperate dai carabinieri durante appostamenti notturni. È da lì, dai pensieri buttati, che riemerge un’inquietudine senza nome. E ora l’ombra dell’omicidio di Chiara Poggi si fa più densa.

Il caso Garlasco ha un nuovo epicentro. Non più i gradini della scala dove Chiara Poggi venne trovata priva di vita. Non l’ormai “acquisita” impronta palmare, sporca di sangue, attribuita senza più ombra di dubbio ad Andrea Sempio. Il centro di gravità si è spostato altrove. Nella pattumiera. Lì dove la mente di un sospettato ha trovato sfogo. Nascosto, privato. Ma afferrato al volo da chi da mesi prova a dare un senso alle contraddizioni di un’inchiesta che potrebbe aver accusato — e condannato — l’uomo sbagliato.
I bigliettini. Recuperati in notti silenziose dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, oggi diventano prove documentali. Frasi scritte a mano, poi appallottolate, gettate via. Un gesto che voleva essere liberatorio, ma è diventato rivelatore. Tra tutte, una frase spicca per la sua potenza brutale: “Ho fatto cose talmente brutte che nessuno può immaginare”. È una confessione? È uno sfogo generico? O un messaggio in codice scritto per se stesso, da un uomo che da 17 anni convive con un peso che nessuno riesce a decifrare?
Gli inquirenti non lo considerano un dettaglio trascurabile. Tutt’altro. Nella nuova inchiesta condotta dalla Procura di Pavia, questo tipo di manifestazioni autografe viene analizzato con il rigore dei profiler del Reparto analisi criminologiche del Racis. Il messaggio viene esaminato nel suo contesto: un uomo che ha scritto quelle parole, buttandole via, nel momento in cui il suo Dna era tornato al centro delle indagini, la sua impronta era ormai stata identificata, e la sua versione dei fatti iniziava a scricchiolare.
Non è solo il contenuto a colpire. È il rituale stesso dell’atto: scrivere, riflettere, poi cancellare — o credere di poterlo fare — eliminando il foglio nel bidone di casa. Come se quel gesto bastasse a zittire la coscienza. Ma i carabinieri hanno seguito i suoi passi, letteralmente. Appostamenti notturni, recupero dei sacchetti della spazzatura, analisi calligrafica. Ogni frase, ogni brandello di inchiostro, viene passato al setaccio.
C’è chi parla già di “mappa emotiva”. Un tracciato disordinato, affiorato in parole scomposte e non destinate a nessun destinatario. Ma che, lette ora, risuonano come un urlo trattenuto troppo a lungo. Non c’è, è vero, un riferimento diretto a Chiara Poggi. Ma non serve. Perché quella frase — così cruda, così assoluta — è una fenditura. Una crepa dentro la quale si infilano dubbi nuovi, e domande che fanno male.
Chiara è morta il 13 agosto del 2007. Una ragazza giovane, uccisa con una violenza cieca e gettata nel vuoto di una casa divenuta mausoleo del sospetto. Alberto Stasi è stato condannato in via definitiva per quel delitto, dopo anni di processi, polemiche, revisioni, carte. Ma ora il nome che ritorna con forza è quello di Andrea Sempio, l’amico di Chiara, l’unico che secondo gli investigatori avrebbe potuto entrare nella villetta senza forzature.
Non ci sono più solo le prove tecniche. Ora ci sono anche i fantasmi. Scritti a penna, gettati tra i rifiuti, in un tentativo maldestro di seppellirli. Ma sono riemersi. E ora parlano.
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