Sic transit gloria mundi
Elly Schlein: l’alternativa “pop” per evitare il declino – Periferie, scioperi e Landini: la sfida per non finire come Kamala Harris
Schlein decide di scendere tra la gente, sfidando il “perfettinismo” del PD con un cambio di rotta che mira a conquistare voti e fiducia. Riuscirà a evitare la sorte della Harris e ritrovare il contatto con un’Italia che non la sente sua?

“Effetto Kamala” da scongiurare, ora Schlein punta sui bagni di folla. Dal corteo di tre giorni fa al piano di manifestare insieme a Landini, ecco le mosse della segretaria Pd per non mostrarsi “lontana dal popolo”. La vedremo dunque alla manifestazione della CGIL e della UIL, il 29 novembre, per lo sciopero generale? Non ha ancora deciso, la segretaria del PD, se essere al fianco di Maurizio Landini, ma ci sta pensando.
Per evitare di finire come la candidata Dem americana, Elly Schlein ha deciso di gettarsi nelle piazze e prendere in mano il malcontento sociale, a partire da un piano ben preciso: battere le periferie, parlare con la gente, togliersi quell’allure da “perfettini senz’anima”. Stop ai circoli culturali, alle iniziative fighette, alle battaglie che non interessano alla gente. Una svolta a 360 gradi, che deve essere strategica, quella della segretaria PD, soprattutto in vista delle prossime elezioni in Umbria e in Emilia, dove il PD rischia di prendere una nuova facciata come nella “fatal Liguria”.
Tanto più che Schlein vuole sfruttare anche il momento difficile di Giuseppe Conte, alle prese con una guerra intestina sempre più acuta nel M5S, che sta indebolendo la tenuta stessa del Movimento.
La lotta sul terreno della manovra economica si inserisce perfettamente in questa strategia: Schlein non si limita a un’opposizione di principio, ma richiede ai suoi dirigenti di essere veramente in prima linea. Li manda nelle periferie delle grandi città, nelle piazze dei piccoli centri dell’Italia profonda, dove il distacco della politica si avverte ogni giorno di più. Vuole che il PD torni a confrontarsi con il malcontento reale, nelle aree in cui i disservizi e il disagio sociale non sono solo temi da dibattito, ma questioni quotidiane.
Ci voleva una scossa – o forse una bella botta di paura – per spingere il Partito Democratico fuori dalle zone protette, oltre le ZTL, in quella periferia geografica e sociale che, per troppi anni, è stata soltanto un nome astratto nei suoi programmi elettorali. Un mondo che il PD ha osservato troppo da lontano, preferendo crogiolarsi in concetti elevati e specchiarsi nella propria presunta superiorità morale e culturale, come se bastasse un’aria di raffinatezza e perbenismo a fare presa sull’elettorato. Così, tra un convegno e un aperitivo bio, la sinistra ha rischiato di dimenticare le difficoltà quotidiane che si consumano oltre quei confini.
Ma ora le recenti batoste elettorali sui due lati dell’oceano sembrano aver acceso una spia di allarme. Un campanello che ricorda che le belle parole, i bei concetti e la cultura non bastano più. Forse la sinistra si sta accorgendo, finalmente, che il Paese reale ha problemi diversi e molto più pressanti. La realtà è che chi vive al di fuori del centro vive un’altra Italia, dove il problema principale non è la cultura, né la parità di genere o la sostenibilità ambientale, ma è molto più brutale: arrivare a fine mese.
Mentre il PD si parlava addosso nei salotti della sinistra, fuori dai suoi circoli protetti prendeva forma un’Italia stanca e arrabbiata, che lotta con stipendi sempre più bassi, bollette che schizzano verso l’alto, e supermercati che sembrano diventati gioiellerie, dove riempire il carrello è una spesa che pesa come un mutuo. Ed è in questa Italia che la destra ha trovato un terreno fertile, adattando un’immagine volutamente brutta, sporca e cattiva, ma almeno in apparenza coerente, diretta, capace di parlare senza filtri. Meloni e Salvini riescono a farsi vedere come persone del popolo, la Schlein no. E non importa se piace o meno, la destra si mostra pronta a scendere nel fango, e questo fa sentire la sua voce molto più vicina agli umori popolari.
Che Schlein l’abbia finalmente capito? Il PD non può più permettersi di parlare dall’alto. Non è più il tempo delle lezioni di moralità o dei discorsi sulle libertà civili da salotto. Ed ecco la promessa di una nuova fase, una “fase orizzontale”, che vuole portare il partito nelle periferie, lontano dai riflettori, per entrare nei quartieri dove il tempo è scandito non dai dibattiti accademici, ma dai ritardi dei mezzi pubblici e dalle difficoltà di ogni giorno. Si parla di sanità, trasporti, stipendi che non bastano. Ma il dubbio è dietro l’angolo: sarà questo un cambiamento autentico, o solo l’ennesima operazione di facciata, un tour da “radical chic” in maglietta e sneakers? Perché non basta un nuovo look, né un cambio di vocabolario, per avvicinare il PD a chi ogni giorno vive fuori dal centro.
E qui sorge un altro dubbio: il PD riuscirà a rinunciare alla sua estetica di sinistra raffinata, alla sua attenzione compulsiva ai dettagli che lo hanno reso quasi irraggiungibile? Il dubbio resta. Perché non è solo una questione di “intenzioni”: è anche una questione di immagine, di linguaggio. E, forse, proprio in questo momento, è il caso che Schlein lasci da parte l’armocromista e i colori studiati per la telecamera. Chi vive nelle periferie o in un sud dove le risorse si sono esaurite non cerca l’eleganza o le parole forbite: cerca qualcuno che sappia guardarlo negli occhi e ascoltare, senza paternalismi o sorrisi di circostanza.
Così, Schlein – alla disperata ricerca di voti – si è lanciata in una campagna porta a porta, che punta sulle stazioni ferroviarie, simbolo dei trasporti pubblici che non funzionano, e sui mercati di quartiere, dove chiunque, dallo studente al pensionato, si confronta con la lotta quotidiana per far quadrare i conti. È lì che il PD promette di recuperare il rapporto con chi si sente abbandonato, con una popolazione che ormai guarda ai partiti come a estranei, distanti, persino ostili. Quello è il bacino dove fino ad oggi avevano pescato a man bassa la Lega e il M5S, e dove recentemente aveva trovato voti Fratelli d’Italia.
Ma è una sfida complessa: il PD non deve soltanto dimostrare una vicinanza apparente; deve riuscire a sporcarsi le mani sul serio, a rispondere senza retorica, a toccare temi concreti, evitando la trappola di trasformare ogni questione in un manifesto ideologico. Perché il Paese reale, quello fatto di pendolari, di famiglie che arrancano e di giovani che vedono stipendi sempre più bassi, non si riconosce nei discorsi accademici e nelle parole colte.
Il sud, da sempre una roccaforte del consenso di centrodestra, è un altro fronte che Schlein e il PD non possono ignorare, e in cui le promesse della destra sembrano oggi infrante dalla realtà. La legge sull’autonomia differenziata, che doveva avvicinare il governo ai territori, è vissuta invece come un tradimento in un’area che già fatica a stare al passo. Gli amministratori locali del sud ora guardano alla nuova leadership con sospetto, perché, più che risolvere le disparità, sembra averle acuite.
E il rischio è che, anche questa volta, il PD si perda per strada. Non serve parlare “della” gente, serve parlare “alla” gente, a quella che lotta con stipendi insufficienti e con servizi pubblici sempre più deboli. Serve dimostrare che il PD non ha solo l’intenzione, ma la capacità di ascoltare senza filtri, senza quell’arroganza morale che da anni lo accompagna.
Il rischio è che, nonostante le parole, Schlein e il PD restino nella loro bolla di retorica, di promesse e di immagine. Perché la gente, da nord a sud, ha smesso da tempo di accontentarsi delle parole. E il rischio, ancora una volta, è che continui a guardare altrove, dove almeno, anche se scomoda, trova una verità più concreta.
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Sic transit gloria mundi
Il Papa venuto dal futuro: perché Leone XIV ha già fatto la rivoluzione
Meno proclami, più strategia. Il nuovo Papa non urla, ma agisce: ricompone le fratture interne, cambia il linguaggio, riporta ordine e introduce un modello di leadership a lungo termine. Con un dettaglio non trascurabile: ha iniziato a rivoluzionare tutto… restando apparentemente fermo

Non ha alzato la voce, non ha fatto gesti eclatanti, non ha rovesciato nulla. Eppure Leone XIV ha già fatto la rivoluzione. La sua, a ben vedere, è una delle più subdole ed eleganti operazioni di riforma degli ultimi anni: un cambiamento interno, sottile, profondo, silenzioso. Una rivoluzione nella forma che trasformerà la sostanza.
Il pontificato del primo Papa americano (e peruviano) della storia si annuncia come una fase di transizione, certo, ma anche come un ritorno a una forma più “classica” di conduzione della Chiesa. Senza rinnegare Francesco, ne ha assorbito l’eredità su pace, giustizia sociale e dialogo con i poveri. Ma lo ha fatto spogliandola del pathos sudamericano e della forza mediatica del predecessore. Dove Francesco camminava tra la folla, Prevost resta sullo sfondo. Dove Francesco abbracciava, Leone XIV osserva e media. Ma, attenzione, non è affatto debolezza: è consapevolezza.
Quella che stiamo vedendo non è una virata a destra o a sinistra – categorie che nel mondo ecclesiastico valgono quanto un righello nel mare aperto – ma un aggiustamento di rotta per navigare attraverso acque sempre più torbide: lo scontro tra “correnti” interne alla Curia, la pressione delle opinioni pubbliche globali, la crisi vocazionale e identitaria del clero, la secolarizzazione inarrestabile in Europa e il radicalismo emergente in altre aree del mondo. Tutto questo, Prevost ha deciso di affrontarlo con un’arma che nella Chiesa ha sempre funzionato: il tempo.
Perché è il tempo la vera novità di questo pontificato. Dopo tre papi anziani, l’elezione di un pontefice giovane cambia l’intero scenario: non serve più pensare a soluzioni tampone o a gestioni ordinarie, ma a progetti di lungo corso. Il nuovo Papa può permettersi di ragionare come un costruttore di cattedrali, non come un amministratore in scadenza di mandato.
La sua età è una risorsa politica e strategica, soprattutto in un contesto globale dove i leader sono spesso anziani, stanchi, logorati. Prevost, al contrario, ha tempo e visione. Può permettersi di iniziare ora un’opera di ricucitura interna, di pacificazione tra le varie anime della Chiesa, di ricentratura sul Vangelo come bussola spirituale e geopolitica. Il tutto senza bisogno di proclami roboanti, che a lungo andare stancano.
Il cambio di stile si nota subito anche nella comunicazione. Meno storytelling, più sobrietà. Niente frasi fatte, niente retorica. Il nuovo Papa parla per sottrazione. Non accarezza i media, non cavalca i social. Al massimo li attraversa con passo lento. Eppure, ogni parola è pesata, meditata, calibrata per durare. Come quella con cui ha aperto il suo pontificato: «La pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante». Una frase che sembra una carezza, ma che contiene un’architettura spirituale e diplomatica potentissima.
Perché la pace, per Leone XIV, non è solo un auspicio ma un programma. È l’unico ponte possibile tra la Chiesa e il mondo lacerato che la circonda. È anche il punto di continuità più evidente con Papa Francesco: il rifiuto di ogni logica di guerra, la critica al riarmo europeo, l’attenzione ai popoli martoriati da conflitti dimenticati. Ma lo fa con un tono che è tutto suo: meno appelli pubblici, più diplomazia silenziosa.
E se c’è una rivoluzione che Leone XIV ha già messo in atto, è proprio questa: riportare la Chiesa a un ruolo di regia silenziosa, capace di parlare ai potenti con il linguaggio dei secoli, non con i post su X. Capace di tenere il timone dritto, anche quando le onde sono alte e la nave cigola. E soprattutto, capace di non cedere alla tentazione di farsi partito o fazione.
La tentazione, oggi più che mai, sarebbe forte: usare la visibilità globale del papato per occupare spazi politici, influenzare agende, dirigere voti. Ma Prevost non ci casca. Forse perché sa bene che, nella lunga storia della Chiesa, le vere rivoluzioni non le ha fatte chi urlava più forte, ma chi sapeva aspettare.
Leone XIV ha cominciato il suo pontificato con pochi gesti e molte omissioni. Ma proprio in quelle omissioni, nella scelta di non forzare, di non dividere, di non provocare, si sta già costruendo un nuovo modo di essere Papa. Più difficile da raccontare, forse. Ma potenzialmente molto più potente.
Sic transit gloria mundi
Tutti a parlare di pace, ma a Istanbul ci va solo Zelensky: Putin e Trump mandano i camerieri
Blaterano di tregua, ma si tengono alla larga. L’ucraino ci mette la faccia, gli altri due solo arroganza e deleghe

Alla fine la montagna, come da copione, partorirà il solito, patetico topolino diplomatico. Mancano meno di 48 ore al vertice di Istanbul, il primo vero incontro negoziale tra Russia e Ucraina da tre anni a questa parte, e l’unico dei tre leader che ha il coraggio (e la decenza) di presentarsi è Volodymyr Zelensky. Gli altri due, Donald Trump e Vladimir Putin, blaterano di pace, parlano a raffica di “cessate il fuoco” e “soluzioni”, ma poi si defilano. E mandano i sottoposti.
Zelensky, almeno, ci mette la faccia. “Vengo io, ovunque serva, basta che Putin si presenti”, ha detto con la consueta schiettezza. Vuole incontrare il leader russo vis-a-vis, e glielo ripete ormai da giorni. Ma da Mosca il solito silenzio nebbioso: né conferme né smentite. Il portavoce Peskov balbetta frasi vaghe, mentre le solite fonti “bene informate” annunciano che a Istanbul, al posto dello zar, ci sarà il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Insomma, la Russia c’è, ma con il pilota automatico.
Trump non è da meno. Dopo aver accennato a una possibile partecipazione in prima persona, ieri da Riad ha annunciato che a rappresentarlo sarà il segretario di Stato Marco Rubio. Una mossa utile giusto a mantenere il nome nei titoli dei giornali, ma che sa tanto di “mandate avanti gli altri”. Eppure, Trump trova il modo di commentare: “Mi aspetto buoni risultati”. Certo. Magari dal divano.
Intanto, Zelensky continua a picchiare sul punto: “Putin non vuole la pace. Se non viene a Istanbul, vuol dire che non ha alcuna intenzione di fermare la guerra”. E chiede nuove sanzioni, ancora più pesanti, se il leader del Cremlino dovesse rimanere nella sua dacia a rimuginare. La risposta di Putin? Il solito sarcasmo velenoso: “Chi ci sanziona fa il male della Russia… e anche il proprio”. Un disco rotto che ormai non convince più nessuno, se non la corte di falchi di cui si circonda.
Per non farsi mancare nulla, Mosca ribadisce anche le condizioni: la “denazificazione dell’Ucraina” e l’eliminazione delle “cause profonde” della guerra. Tradotto: il solito bla bla per non cedere su nulla. E tutto mentre l’Occidente guarda, commenta, e incrocia le dita.
Dalla parte di Kiev, il braccio destro di Zelensky, Andrei Yermak, è netto: “Se Putin non si presenta, sarà la prova definitiva che la Russia non vuole trattare”. E se invece arrivasse, Kiev è pronta anche a rivedere il decreto che vieta ufficialmente il dialogo con lui. Ma serve un segnale, e non arriverà.
A sperare ancora ci prova la Germania. Il ministro degli Esteri Johann Wadephul prova a mettere pressione: “La Russia non dovrebbe lasciare una sedia vuota. Ma se viene, deve essere davvero interessata alla pace”. Non a giocare a Risiko geopolitico.
Morale: tutti parlano di pace, ma poi si tengono ben lontani dal tavolo. L’unico a rischiare in prima persona è Zelensky. Gli altri? Troppo impegnati a farsi belli davanti alle telecamere, o a manovrare nell’ombra. Ma almeno, risparmiateci la retorica.
Sic transit gloria mundi
Il cardinale malato che non c’è: veleni da conclave, Parolin nel mirino dei corvi
La smentita della Santa Sede è arrivata puntuale, ma il danno è fatto: l’indiscrezione sul presunto malore di Pietro Parolin sembra avere tutto il sapore di una manovra per affondare la candidatura del Segretario di Stato.

Niente malore, niente infermieri, niente camici bianchi sfreccianti nei corridoi vaticani. Solo una fake news ben confezionata, diffusa a colpo sicuro nel giorno giusto, e rimbalzata sul web come una miccia accesa tra le panche della Congregazione generale. Il bersaglio? Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, considerato tra i nomi più forti in vista del Conclave del 7 maggio. L’obiettivo? Farlo apparire fragile, inaffidabile, fisicamente non all’altezza. E così, quando in serata la smentita ufficiale del Vaticano ha bollato tutto come “priva di fondamento”, il sospetto è diventato certezza: questa non è cronaca, è strategia.
Il primo a lanciare il siluro è stato CatholicVote.org, sito americano notoriamente vicino all’ala più conservatrice del cattolicesimo Usa. Da lì, l’indiscrezione ha fatto il giro dei social, degli ambienti ultracattolici, delle chat dei vescovi più intransigenti. Tutto secondo copione. Parolin, va detto, è l’uomo che più incarna il volto istituzionale e pragmatico della Chiesa. È stato il custode dell’equilibrio bergogliano, ma senza mai diventarne megafono. Troppo diplomatico per i tradizionalisti a stelle e strisce, troppo “moderato” per i teologi della sinodalità a tutti i costi. Il capro espiatorio perfetto.
Classe 1955, originario di Schiavon, in provincia di Vicenza, Pietro Parolin entra in seminario a 14 anni, resta orfano di padre a dieci, studia alla Pontificia Accademia Ecclesiastica e inizia la sua carriera diplomatica in Africa, poi in Messico e Venezuela. Parla correntemente sei lingue, conosce a memoria gli equilibri tra Santa Sede e Cina, ha tenuto i contatti con regimi impresentabili senza mai sporcarsi le mani. Un uomo di equilibrio, ma anche di potere. Ed è qui che scattano le gelosie.
Alcuni, in queste ore, leggono gli attacchi come una rappresaglia per il ruolo giocato da Parolin nella definitiva estromissione di Angelo Becciu dal Conclave. Fu lui, secondo fonti curiali, a mostrare in aula le lettere siglate da Francesco — quando era ancora ricoverato — in cui si confermava la decisione irrevocabile di escludere Becciu. Una mossa che qualcuno ha vissuto come uno sgarbo personale e istituzionale. Il resto lo fa il veleno, mai assente nelle sagrestie romane, soprattutto in tempo di elezione.
Eppure, nel caos di queste giornate, Parolin continua a non sbilanciarsi. Esce dalle Congregazioni in silenzio, entra tra i primi, esce tra gli ultimi. Sa che ogni parola potrebbe diventare un boomerang. Ma intanto resta uno dei candidati più solidi: ha esperienza, reti internazionali, capacità di mediazione, credibilità tra i cardinali che non vogliono uno strappo netto ma neppure un clone di Francesco. E se i progressisti dovessero capire che nessuno dei loro riuscirà a superare il quorum, potrebbero anche convergere su di lui.
Resta però un’incognita: quanto il fango lanciato in questi giorni avrà davvero lasciato traccia? I 129 cardinali elettori non si lasciano condizionare facilmente, ma il dubbio insinuato — la crepa, per quanto smentita — può bastare a spostare voti decisivi, soprattutto se si arrivasse a una battaglia lunga e fatta di ballottaggi sotterranei.
Intanto, Parolin guarda e attende. Come il diplomatico che è, non rincorre le smentite. E come il prete che è stato — figlio di una maestra, cresciuto all’oratorio — sa che ogni attacco è anche una prova. A pochi giorni dalla prima votazione, le manovre si fanno più esplicite e le trappole più insidiose. Ma c’è un dettaglio che chi diffonde bufale dovrebbe ricordare: la porpora non è impermeabile al fango. Ma non lo è nemmeno la memoria della Chiesa. E in Sistina, ogni passo falso — anche uno solo — può costare il trono… pardon, il soglio!
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