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Cronaca Nera

Io Bestia di Satana vi racconto la mia verità sul satanismo, la setta e gli omicidi di quei tempi

Nel mistero delle Bestie di Satana, il tragico destino di Chiara Marino e Fabio Tollis si svela: una storia di violenza e oscuri segreti che continua a suscitare orrore e interrogativi.”

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    «Io non mi sono mai sentito un mostro». A vent’anni dai delitti delle Bestie di Satana, Mario Maccione, conosciuto come “Ferocity”, rompe il silenzio e propone una versione dei fatti diversa da quella raccontata fino ad oggi. In un podcast di Luca Casadei, intitolato “One more time”, Maccione si apre e racconta la sua verità su quella serie di efferatezze che hanno scosso l’Italia alla fine degli anni ’90 e all’inizio del 2000.

    Condannato a 19 anni di carcere

    Mario Maccione, ora 43enne e residente in Sardegna, è stato condannato a 19 anni di carcere, dei quali ne ha scontati 16 effettivamente. Oggi, libero, cerca di ricostruire la sua vita, ma decide di affrontare il passato e confessare la sua versione dei fatti. Maccione emerge come una figura chiave per comprendere gli eventi legati alle Bestie di Satana, poiché è uno dei pochi membri del gruppo ad aver accettato di parlare pubblicamente.

    Presunto medium

    Tra i membri della setta, Maccione era noto come il presunto medium in grado di entrare in contatto con forze demoniache e soprannaturali durante i rituali. Sebbene non fosse un intellettuale nel vero senso del termine, aveva una certa familiarità con testi di esoterismo, come quelli di Allan Kardec e Howard Lovecraf, che gli hanno conferito il ruolo di “stregone” all’interno del gruppo.

    La sua confessione offre una nuova prospettiva sulla dinamica della setta e sulle motivazioni che hanno portato ai terribili crimini commessi. È un tassello importante per comprendere più a fondo la complessità di questa storia di orrore e tragedia che ha segnato la cronaca italiana.

    Un terribile omicidio

    E questo evento cruciale è legato al numero 16. Mario aveva appena compiuto 16 anni quando, in una gelida notte di gennaio del 1998, insieme agli altri membri delle Bestie di Satana, ha perpetrato un terribile omicidio ai danni dei suoi amici Chiara Marino e Fabio Tollis. I loro corpi sono stati brutalmente trucidati a martellate e coltellate, per poi essere sepolti in una buca in un bosco di Somma Lombardo, in provincia di Varese. Questi corpi sono rimasti lì fino al maggio del 2004.

    La domanda che sorge spontanea è: qual era il grado di consapevolezza di un sedicenne coinvolto in un duplice omicidio così atroce? Come ha maturato il piano e come è riuscito a mantenere il terribile segreto per sei lunghi anni, senza mostrare alcun segno di rimorso?

    Chiara Marino e Fabio Tollis

    La ricostruzione processuale ha stabilito che Chiara Marino e Fabio Tollis sono stati uccisi in un contesto che sembrava essere un rito satanico, un vero e proprio sacrificio umano. Tuttavia, ai giudici interessava soprattutto stabilire se Maccione e i suoi complici fossero effettivamente i responsabili di questi delitti, senza essere influenzati da motivazioni soprannaturali.

    Il racconto di Mario Maccione getta nuova luce su uno degli episodi più bui della storia italiana, consentendo di andare oltre le semplici sentenze giudiziarie e di comprendere più a fondo le motivazioni e la psicologia dietro questi atti mostruosi.

    Le Bestie di Satana

    Le parole di Mario Maccione, pronunciate nel corso degli anni e raccolte anche nel recente podcast One more time, gettano nuova luce sui tragici eventi legati alle Bestie di Satana. Contrariamente a quanto suggerito dalle teorie esoteriche, Maccione offre una spiegazione più terrena e inquietante: la tragedia non è stata alimentata da forze oscure, ma da un mix di suggestione, droghe, e l’influenza di una subcultura dark.

    Prove di coraggio

    Maccione rivela di essere stato coinvolto nel gruppo a causa di prove di coraggio e auto-suggestione, alimentate dall’uso di sostanze stupefacenti e dall’estetica dark. Pur non essendosi mai considerato un mostro, si è trovato a indossare una maschera che lo ha trasformato nella figura del terrore. Tuttavia, il suo racconto non fornisce una spiegazione consolatoria per i terribili crimini commessi.

    Il retroterra familiare di Maccione non sembra fornire chiavi di lettura valide per comprendere il suo coinvolgimento nei delitti. Cresciuto in una famiglia con un certo margine di sicurezza economica, ha frequentato istituti religiosi prima di ribellarsi al rigore religioso e avvicinarsi al metal e al satanismo.

    Assenza di un background criminale

    L’elemento cruciale sembra essere il suo coinvolgimento precoce nei delitti, avvenuto all’età di 16 anni. Nonostante l’assenza di un background criminale o familiare problematico, Maccione e i suoi complici hanno compiuto atti di estrema violenza. Il podcast rivela che Maccione ha considerato l’omicidio come una prova di coraggio, non prevedendo le conseguenze tragiche che ne sarebbero seguite.

    La falsa pista del satanismo emerge come una mera messinscena, mentre il vero motore dietro ai delitti sembra essere stato il desiderio di potere e il gioco del coraggio estremo. Maccione stesso ammette di aver commesso un errore irreparabile, perdendo il controllo durante un attacco di panico e scatenando la tragedia.

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      Cronaca Nera

      Una morte assurda nei boschi dell’Alto Adige: il caso Aaron Engl

      L’indagine è chiusa: nessun omicidio, ma una tragica fatalità. Secondo la Procura di Bolzano, il 24enne si sarebbe decapitato da solo con una motosega sotto l’effetto di sostanze allucinogene, dopo un rave party.

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        Una notte di festa, poi l’oblio. E infine la morte. Quella di Aaron Engl, 24 anni, boscaiolo altoatesino, è una delle vicende più incredibili e spaventose che l’Italia abbia conosciuto negli ultimi mesi. Non per efferatezza, non per mano di assassini, ma per l’inquietante miscela di isolamento, sostanze psicotrope e casualità che ha portato il giovane a una fine tanto assurda quanto solitaria.

        Il caso risale alla mattina del 18 agosto 2023, in località Marga di Terento, nei pressi della malga Raffalt. Lì, in una zona impervia della Val Pusteria, il corpo di Engl viene ritrovato semidecapitato accanto alla sua motosega. Una scena inquietante, che sin da subito solleva interrogativi. La prima ipotesi è brutale: si pensa a un omicidio. A un’esecuzione. Ma la pista, col passare delle ore, vacilla. E inizia a farsi strada un’altra verità. Più sottile. Più disturbante.

        Il rave, il viaggio solitario e la motosega

        Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Bolzano, la sera prima della tragedia Aaron aveva partecipato a un rave party assieme a un gruppo di amici e parenti. Una serata lunga, fuori controllo, segnata anche – come confermeranno poi le analisi tossicologiche – dall’assunzione di sostanze allucinogene. Nulla di sconosciuto agli inquirenti: nella zona si è parlato più volte di eventi non autorizzati nelle valli alpine, spesso accompagnati da uso di stupefacenti.

        Aaron, raccontano gli amici, a un certo punto si sente male. Viene riaccompagnato a casa. Tutto sembra tornare nella norma. Ma a quanto pare, la notte non è finita lì.

        Il suo cellulare – elemento chiave dell’inchiesta – racconta un altro percorso. Nessuno degli amici o familiari ha lasciato casa propria nelle ore successive. Aaron sì. Intorno all’alba, sale sul suo furgone, dove sono ancora caricate le motoseghe da lavoro, e riparte. Da solo. Arriva nei pressi della malga. E lì avviene l’impensabile.

        Un incidente drogato dall’alterazione mentale

        Secondo il referto del medico legale e la relazione finale del RIS di Parma, Aaron si sarebbe involontariamente ferito alla gola con la motosega, causandosi una decapitazione parziale. Non si sarebbe trattato di un gesto volontario, né – tantomeno – di un suicidio nel senso canonico. Bensì di un atto compiuto in stato di alterazione profonda, legato alle sostanze psicotrope ancora attive nel suo organismo.

        Il medico legale parla di “un gesto autonomo, seppur non volontario”. L’ipotesi più accreditata è che il ragazzo, in preda a un delirio o a un’allucinazione, abbia impugnato la motosega e se la sia poggiata sulla spalla, come probabilmente era solito fare nel lavoro quotidiano nei boschi. Ma il macchinario, ancora armato e acceso, si è attivato all’improvviso, provocando una ferita letale.

        Il RIS ha trovato solo tracce di DNA di Engl sia sull’attrezzo che sugli indumenti e sul veicolo. Nessuna presenza estranea. Nessun altro coinvolto.

        Fine dell’inchiesta: nessun colpevole, solo il vuoto

        Così, dopo mesi di accertamenti, esami genetici, rilievi ambientali e indagini digitali, la Procura ha chiuso il fascicolo. L’ipotesi di omicidio è stata definitivamente archiviata. La morte di Aaron Engl viene ufficialmente classificata come una tragica fatalità legata all’effetto di sostanze allucinogene.

        “Si ritiene – scrivono i magistrati – che la morte non sia riconducibile all’azione violenta di terzi, bensì a un gesto autonomo del giovane, presumibilmente correlato al grave stato di alterazione derivante dall’assunzione di sostanze stupefacenti”.

        Domande senza risposta

        Resta il dolore, naturalmente. E la sensazione che la verità, per quanto accertata, non riesca a consolare. Aaron Engl era un ragazzo benvoluto, cresciuto tra i boschi e la neve. Uno che lavorava sodo, che maneggiava motoseghe ogni giorno, che amava la montagna. Una serata sbagliata, una sostanza sbagliata, un gesto incomprensibile. Ed ecco una fine che sembra più scritta da un incubo che da una logica.

        C’è chi, in paese, ancora oggi fatica a credere a questa versione. Ma le prove, a quanto pare, non lasciano margini. Nessuna colluttazione, nessun segno di trascinamento, nessun testimone. Solo un ragazzo solo, all’alba, nel cuore dei boschi. E il silenzio dell’Alto Adige, che tutto avvolge.

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          Garlasco, spunta una nuova testimonianza: «Potrebbe riscrivere la storia dello scontrino»

          Una nuova persona è stata ascoltata dagli inquirenti sul delitto di Chiara Poggi e secondo la difesa di Alberto Stasi potrebbe cambiare tutto: «I carabinieri sanno molto di più». Intanto l’avvocato di Andrea Sempio attacca: «Niente più collaborazione, è guerra con la Procura».

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            Il caso Garlasco torna a infiammarsi. Dopo anni di silenzi e sentenze, ecco spuntare una nuova testimonianza che, secondo l’avvocato di Alberto Stasi, potrebbe «riscrivere la storia dello scontrino», ovvero uno dei punti chiave dell’alibi di Andrea Sempio, già attenzionato in passato ma mai formalmente indagato. La rivelazione è arrivata durante la trasmissione Ore 14 su Rai 2, dove il legale di Stasi, Antonio De Rensis, ha commentato le ultime mosse investigative: «Ritengo che i carabinieri abbiano molto ma molto di più di quanto possiamo immaginare al momento», ha dichiarato, lasciando intendere che il quadro potrebbe essere ben diverso da quello ormai cristallizzato nei fascicoli processuali.

            Secondo quanto trapelato, la madre di Sempio, convocata in caserma lunedì scorso, avrebbe fatto riferimento a una persona nuova, già sentita dagli inquirenti, prima di essere colta da un malore. Un dettaglio che alimenta i sospetti su un possibile cambio di scenario, tanto da spingere De Rensis ad affermare: «Ora andremo a vedere se è vero quello che ci hanno raccontato. Non abbiamo interesse a spostare dalla scena Stasi, ma forse chi indaga aggiungerà altri nomi. E forse allora tutto sarà più chiaro».

            Nel frattempo, l’altra sponda si barrica. Massimo Lovati, avvocato di Andrea Sempio, intervenuto telefonicamente durante la trasmissione, ha annunciato la rottura totale con gli inquirenti: «Non ci fidiamo più della Procura né dell’Arma dei carabinieri di Milano. Ci sono state scorrettezze e procedure anomale». Il riferimento è all’invito, pare telefonico e informale, a presentarsi per il rifacimento delle impronte digitali: «Dovevano avvertirmi, scrivermi. Non si convocano le persone così, con una telefonata. È una modalità che non accettiamo più», ha dichiarato infuriato.

            La polemica si è fatta via via più accesa, fino alla dichiarazione definitiva: «Le prossime mosse saranno tutte volte a controbattere le richieste. Non c’è più alcuna collaborazione, è guerra all’ultimo sangue. Presenteremo tutte le eccezioni possibili, a partire dall’inutilizzabilità delle impronte, vecchie e nuove».

            Dietro le schermaglie legali, però, resta l’omicidio irrisolto di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto del 2007. Un delitto che, nonostante una condanna definitiva per Alberto Stasi, continua a dividere l’opinione pubblica e ad alimentare dubbi e interrogativi. L’avvocato De Rensis, parlando del contesto investigativo, si è lasciato sfuggire un accenno inquietante: «Questa testimonianza nuova potrebbe rivelare dettagli chiave su quella mattinata. E se così fosse, ci troveremmo davanti a una narrazione completamente diversa».

            Per ora, però, il contenuto delle dichiarazioni resta riservato. Si sa soltanto che, come accaduto troppe volte in questa lunga e dolorosa vicenda, un nome, una frase, un dettaglio possono ribaltare tutto. Oppure rivelarsi solo un’ombra tra le tante.

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              Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

              Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

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                Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.

                “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

                “Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.

                Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.

                “C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.

                Un puzzle senza pezzi combacianti

                Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.

                E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.

                E Andrea Sempio?

                L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.

                Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.

                Sedici anni dopo, i dubbi restano

                Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.

                Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?

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