Cronaca Nera
Mostro di Firenze: riesumati i resti di Francesco Vinci, l’ex moglie crede che sia ancora vivo
Esami sul DNA per verificare l’identità del cadavere trovato carbonizzato nel 1993. La famiglia sospetta una messa in scena. La riesumazione di Francesco Vinci potrebbe essere il tassello mancante di un puzzle complesso, che lega la sua vicenda personale a quella più ampia e tragica del Mostro di Firenze. Un’ombra lunga che continua a pesare sulla cronaca nera italiana.

Questa mattina, nel cimitero di Montelupo Fiorentino, sono stati riesumati i resti di Francesco Vinci, una delle figure chiave della cosiddetta “pista sarda” legata ai delitti del Mostro di Firenze. L’operazione è stata disposta dalla Procura di Firenze, ma la richiesta iniziale era partita dalla famiglia dello stesso Vinci. La vedova, Vitalia Velis, e i figli vogliono sapere se quel corpo ritrovato incaprettato e carbonizzato nel 1993 sia realmente il loro caro. Secondo la donna, infatti, il cadavere potrebbe non essere di Vinci, e sostiene addirittura di aver visto il marito ancora vivo dopo la sua presunta morte.
Chi era Francesco Vinci?
Originario di Villacidro, in Sardegna, Francesco Vinci era uno dei principali sospettati nella “pista sarda” sui delitti del Mostro di Firenze, il serial killer responsabile di otto duplici omicidi tra il 1968 e il 1985. Vinci fu incarcerato nel 1982, ma venne poi rilasciato quando, nel 1983, avvenne il delitto dei ragazzi tedeschi a Giogoli mentre lui era in prigione. La sua morte, avvenuta nel 1993, è sempre stata avvolta nel mistero.
Il macabro ritrovamento
Il corpo, trovato carbonizzato in una Fiat Uno nelle campagne di Chianni, vicino Pisa, era irriconoscibile. A complicare ulteriormente l’identificazione, il cadavere era privo delle mani, elemento che impediva un riconoscimento certo. All’epoca, Vinci fu identificato solo grazie a una fede e a un orologio trovati nel veicolo, oggetti che avrebbero potuto essere messi lì da chiunque. La situazione ha alimentato i sospetti della famiglia, convinta che il cadavere potesse non appartenere a lui.

Il sospetto della moglie e la riesumazione
La moglie Vitalia Velis ha raccontato di aver visto Francesco dopo la sua presunta morte, in un’auto, e di averlo perfino salutato. Un’ipotesi che sembrerebbe assurda, ma che ha spinto la famiglia a chiedere un esame del DNA per chiarire la questione. Ora, grazie alla riesumazione e all’analisi del materiale genetico, si cercherà di stabilire con certezza se i resti appartengano davvero a Vinci. L’esame comparativo del DNA verrà condotto con il materiale genetico dei figli e i risultati potrebbero finalmente chiudere questo capitolo ambiguo.
I dubbi degli inquirenti
Il criminologo Davide Cannella, che assiste la famiglia, ha sottolineato come, sin dall’inizio, ci siano state delle anomalie. “Dall’autopsia emergono elementi che non quadrano. Chi ha ucciso Vinci e Angelo Vargiu, trovato insieme a lui nell’auto, ha cercato di rendere impossibile il riconoscimento”, ha dichiarato. Mancano, infatti, le mani, e non è stato mai trovato il proiettile che avrebbe potuto fornire ulteriori indizi.
L’importanza del DNA
Il lavoro degli esperti sarà cruciale. Se il genetista riuscirà a estrapolare il DNA dai resti riesumati, verrà comparato con quello dei figli di Vinci. Questo permetterà di confermare, o smentire, l’identità del corpo ritrovato. In caso di corrispondenza, il campione genetico verrà inserito nella banca dati delle indagini sui delitti del Mostro di Firenze, un’inchiesta che, nonostante gli anni, continua a sollevare interrogativi e a cercare risposte.
Un’indagine senza fine
Alla riesumazione, oltre alle pm Ornella Galeotti e Beatrice Giunti, erano presenti anche i figli di Vinci e i loro consulenti: il genetista forense Eugenio D’Orio e il medico legale Aldo Allegrini. I resti sono stati trasportati all’istituto di medicina legale di Firenze, dove saranno esaminati dai periti. La speranza è che i risultati possano fornire un po’ di chiarezza a una storia che, a trent’anni di distanza, ancora non ha trovato il suo epilogo.
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Cronaca Nera
Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati
Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.

Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.
Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.
Come difendersi dallo spoofing
Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.
Cronaca Nera
Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”
Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.
“A ogni verifica i dubbi aumentavano”
“Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.
Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.
“C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.
Un puzzle senza pezzi combacianti
Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.
E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.
E Andrea Sempio?
L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.
Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.
Sedici anni dopo, i dubbi restano
Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.
Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?
Cronaca Nera
Delitto di Garlasco, l’avvocato Lovati contro Corona: «Mi ha tradito, mi ha fatto bere per farmi parlare»
Il difensore, già indagato per diffamazione aggravata per le sue dichiarazioni sul caso Poggi, ora accusa l’ex re dei paparazzi di averlo manipolato: «Avevo bevuto, pensavo fosse una chiacchierata privata. Mi piacerebbe sapere a chi ha mandato quelle immagini».

Per la serie c’è ancora chi si fida di Fabrizio Corona?. L’ultimo a pentirsene è Massimo Lovati. l’avvocato di Andrea Sempio, il giovane tornato nel mirino dell’inchiesta sull’omicidio di Chiara Poggi, la ragazza di Garlasco uccisa nel 2007.
Lovati, che aveva fatto discutere per le sue uscite sopra le righe sul caso, si è scagliato contro l’ex re dei paparazzi accusandolo di averlo “tradito”. «Mi ha ripreso mentre bevevo, chiedendomi di parlare a ruota libera e di fare affermazioni volgari», ha dichiarato il legale. Spiegando che quella conversazione — poi diventata un video pubblicato sul canale YouTube di Corona — non era destinata alla diffusione pubblica.
Secondo il suo racconto, l’ex fotografo gli avrebbe promesso una chiacchierata informale, una sorta di “fuori onda” tra conoscenti. «Mi piacerebbe capire a chi ha mandato quel video», ha aggiunto l’avvocato. Sostenendo di essere stato “incastrato” in un momento di fragilità: «Avevo bevuto, non mi aspettavo che quelle parole venissero registrate».
Il filmato in questione, diffuso nel corso di una puntata di Falsissimo, la serie che Corona pubblica online, ha suscitato scalpore per il linguaggio crudo. E per le frasi contro alcuni protagonisti della vicenda giudiziaria di Garlasco. Proprio per quelle dichiarazioni, Lovati è oggi indagato per diffamazione aggravata. A denunciarlo sono stati gli avvocati Enrico e Fabio Giarda, figli del defunto professor Angelo Giarda, storico difensore di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni di carcere per l’omicidio di Chiara Poggi.
Il legale di Sempio sostiene di essere stato manipolato: «Corona ha usato le mie parole per farsi pubblicità. Io non gli ho mai dato il consenso alla diffusione del video».
Un’accusa che riapre vecchie polemiche attorno a Fabrizio Corona e al suo modo di fare informazione-spettacolo. Dove la linea tra confessione privata e show mediatico sembra svanire.
Intanto l’inchiesta di Latina prosegue e Lovati dovrà spiegare ai magistrati non solo le sue frasi, ma anche il ruolo che attribuisce a chi — con una telecamera nascosta e un bicchiere di troppo — gli ha rovinato la reputazione.
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