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Londra firma con l’Ue: il primo vero addio alla Brexit è cominciato

Con due documenti firmati ieri nella capitale britannica, il governo Starmer ha rimesso il Regno Unito in rotta verso Bruxelles. I tabloid gridano alla resa, Farage minaccia, ma la realtà è chiara: Londra ha iniziato a smontare pezzo per pezzo il castello vuoto della Brexit.

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    Londra – Le firme sono arrivate puntuali, i sorrisi erano distesi. Ma nelle redazioni dei tabloid britannici si è gridato al tradimento. Il Regno Unito ha compiuto ieri, senza annunci roboanti ma con una determinazione chirurgica, il primo vero passo di riavvicinamento all’Unione Europea. Un patto in due atti, siglato a Londra da Keir Starmer, Ursula Von der Leyen e Antonio Costa, che demolisce l’illusione autarchica venduta ai cittadini britannici con la Brexit.

    Dopo anni passati a issare muri doganali e slogan vuoti, il governo laburista ha preferito i fatti: difesa comune, sicurezza condivisa, mobilità giovanile e abbattimento delle barriere commerciali. E la risposta dei professionisti dell’odio non si è fatta attendere. Il Mail on Sunday ha parlato di “resa” e Nigel Farage ha alzato la voce: “Non toccate la Brexit”. Ma il vento, evidentemente, è cambiato.

    Il primo documento firmato prevede una cooperazione strategica sulla difesa e un accesso, seppure condizionato, al fondo Rearm dell’Ue: 150 miliardi di euro per progetti comuni, ma solo se le imprese britanniche si alleeranno con quelle europee e se Londra pagherà il giusto contributo. Altro che “prendiamo il controllo”: qui si torna, finalmente, alla logica del contare e collaborare, dopo anni di teatrini autarchici.

    Il Regno Unito ha anche aderito ufficialmente al Pesc, la politica estera e di sicurezza dell’Unione. Una svolta, se si pensa che solo fino a pochi mesi fa Londra recitava la parte del battitore libero, salvo poi scoprire di non contare nulla, né a Bruxelles né a Washington.

    Il secondo documento affronta i nodi pratici: controlli più snelli su carne e prodotti animali, pesca prorogata per i pescherecci europei, cooperazione sull’immigrazione e contro il crimine organizzato. Su quest’ultimo punto, difficile trovare un solo poliziotto o giudice britannico che non abbia denunciato i danni provocati dalla fine della collaborazione con Europol.

    Il capitolo giovani è forse il più eloquente: ritorna la mobilità per gli under 30 da e per l’Ue, con quote prestabilite e diritti limitati, ma con la libertà di muoversi, imparare, lavorare. L’Ue ha chiesto il ripristino dell’Erasmus e delle rette ridotte per gli europei, ma Londra ha opposto resistenza. Tuttavia, i britannici potranno tornare a usare gli e-gates, entrando nei Paesi Ue senza le umilianti code che oggi li equiparano a qualsiasi altro “extracomunitario”.

    Keir Starmer lo ha detto chiaramente: “Non ci chiuderemo in noi stessi. Questo accordo è concreto, porta crescita, salari più alti e bollette più basse”. E ha rivendicato: “È ciò per cui i britannici hanno votato lo scorso anno”. Nessun rimpianto per la Brexit, anzi. Il messaggio è stato netto: chi ha promesso libertà ha consegnato soltanto burocrazia, costi e solitudine.

    Downing Street ha rincarato la dose: “L’accordo firmato dai conservatori con l’Ue è un fallimento. Questo nuovo approccio migliorerà la vita di produttori, consumatori e famiglie”. Parole che fino a ieri sarebbero sembrate eresia, oggi suonano come semplice realtà.

    Ma non tutti applaudono. La Commissione Affari Esteri di Westminster – a guida laburista – ha lamentato l’assenza di una visione strategica e ha chiesto al governo di osare di più. La presidente Emily Thornberry ha parlato di “fiducia, non cautela” e di “valori condivisi da difendere insieme all’Europa, soprattutto in tempi di guerra e minacce globali”.

    Anche Sandro Gozi, copresidente della Commissione Parlamentare euro-britannica, ha parlato a Repubblica di “una nuova fase” da costruire “sulla fiducia, sull’innovazione, sull’intelligenza artificiale, sulla ricerca, sui giovani”. Temi che sembravano scomparsi dall’agenda britannica da anni, e che adesso tornano al centro.

    La verità, sotto le firme e le dichiarazioni, è che la Brexit sta lentamente morendo, svuotata dai fatti e sgonfiata dalle necessità. Chi la difende ancora, lo fa solo per ideologia o per interesse. Il resto del Paese ha già voltato pagina.

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      Mondo

      I dazi di Trump fanno scappare i coniglietti Lindt: la cioccolata svizzera rischia di diventare americana

      La minaccia dei dazi fino al 39% costringe Lindt a studiare un piano da 10 milioni di dollari per spostare la fabbricazione dei suoi simboli pasquali oltreoceano. L’annuncio scuote la Svizzera e alimenta i timori che la tradizione dei dolci di stagione perda la sua anima europea.

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        I coniglietti dorati con il fiocco rosso, icona della Pasqua svizzera, potrebbero presto avere un passaporto americano. Colpa della politica commerciale del presidente Usa Donald Trump, che minaccia di innalzare i dazi sull’importazione dei prodotti europei fino al 39%. Una mossa che mette in seria difficoltà Lindt & Sprüngli, il colosso del cioccolato. Che da decenni lega la propria immagine al coniglietto di cioccolato più famoso al mondo.

        Secondo quanto riportato da Bloomberg, l’azienda starebbe valutando di spostare la produzione dei suoi prodotti stagionali. Non solo i coniglietti pasquali ma anche i Babbo Natale di cioccolato, dagli stabilimenti tedeschi a impianti situati direttamente negli Stati Uniti. Un investimento stimato in circa 10 milioni di dollari, che servirebbe ad aggirare le tariffe punitive e a mantenere competitivo il prezzo al consumo.

        Lindt, da parte sua, non ha confermato apertamente il progetto. Ma un portavoce ha spiegato: «Stiamo lavorando costantemente per rendere la nostra produzione e le nostre catene di approvvigionamento più efficienti, tenendo conto dell’attuale situazione tariffaria. Questo include la verifica di quali prodotti vengono fabbricati, in quali siti produttivi e per quali mercati».

        Il problema è duplice. Da un lato i dazi del 15% già imposti all’Unione Europea, che rischiano di salire vertiginosamente. Dall’altro il rincaro del cacao, che nei primi sei mesi del 2025 ha registrato un +16%. Una combinazione esplosiva che potrebbe far lievitare i prezzi al dettaglio e rendere proibitivi i dolci pasquali per milioni di consumatori.

        Eppure, il mercato americano è troppo importante per essere messo a rischio. Negli Stati Uniti, primo consumatore mondiale di cioccolato, Lindt ha registrato un giro d’affari da 843 milioni di dollari nel 2024, con una crescita annua del 4,9%. Un successo che l’azienda non intende perdere a causa delle tensioni commerciali.

        Non solo: nei piani di riorganizzazione c’è anche lo spostamento della produzione destinata al Canada da Boston a stabilimenti europei, per schivare i dazi di ritorsione decisi da Ottawa contro Washington.

        Un puzzle globale che rischia di trasformare la geografia del cioccolato: le tavolette Lindor resteranno prodotte solo in Svizzera, la Francia continuerà a ospitare il polo dell’Excellence, e l’Italia conserverà il primato delle creazioni alla nocciola. Ma i coniglietti pasquali, per sopravvivere, potrebbero dover attraversare l’Atlantico. Con buona pace della tradizione elvetica.

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          Mondo

          Germania, cala la sete di birra: consumi giù del 35% in trent’anni

          Dai 126 litri a persona nel 2000 agli 88 di oggi: la bevanda simbolo del Paese non è più un rito quotidiano. La spinta delle analcoliche non basta a compensare il calo.

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            La Germania, patria per eccellenza della birra, sta vivendo un cambiamento epocale nei consumi. Negli ultimi trent’anni il consumo pro capite è crollato del 35% e nei primi mesi del 2025 la produzione ha registrato un ulteriore calo del 6,3%. Numeri che fotografano una crisi strutturale per un settore che da secoli rappresenta un pilastro dell’identità culturale ed economica del Paese.

            Il caso del birrificio Lang-Bräu, costretto a chiudere nel 2025 dopo 172 anni di attività nel nord della Baviera, è solo uno degli esempi più simbolici. Secondo Bloomberg, solo tra il 2023 e il 2024 hanno abbassato la saracinesca 52 aziende brassicole, su un totale di circa 1.500 attive in Germania. A incidere sono soprattutto i costi di produzione, cresciuti in media del 6% all’anno, come calcolato dalla società di consulenza Roland Berger. Spese che i produttori non riescono a ribaltare interamente sul prezzo finale, vedendo così erodere progressivamente i margini di guadagno.

            Se nel 2000 un cittadino tedesco beveva in media 126 litri di birra all’anno, oggi la cifra è scesa a 88. Un calo che non dipende soltanto dai rincari, ma anche da un mutamento culturale. Le nuove generazioni, in particolare la Gen Z, consumano meno alcol, spinti da una maggiore attenzione alla salute e da disponibilità economiche più limitate. Così la birra non è più la compagna quotidiana delle serate, ma diventa piuttosto un consumo occasionale.

            Per rispondere a questa trasformazione, molti produttori hanno puntato sulle birre analcoliche. Un segmento in forte crescita, ma che al momento resta marginale e accessibile soprattutto ai grandi marchi capaci di investire in nuove linee produttive. Secondo i dati Eurostat, nel 2024 i Paesi dell’Unione europea hanno prodotto complessivamente 34,7 miliardi di litri di birra. 32,7 miliardi con più dello 0,5% di alcol e circa 2 miliardi tra birre analcoliche o a bassissimo tenore alcolico. La Germania rimane al primo posto in Europa, con oltre il 22% della produzione totale: circa 7,2 miliardi di litri, in larghissima parte di tipo tradizionale.

            La sfida per il settore è chiara: rinnovarsi senza tradire la propria storia. Per i piccoli birrifici indipendenti, però, la strada appare sempre più in salita. La bevanda simbolo dell’Oktoberfest continua a resistere nei numeri assoluti, ma l’epoca d’oro in cui la birra scandiva la vita quotidiana dei tedeschi sembra ormai alle spalle.

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              Trump lancia la sua “Netflix MAGA”: propaganda, complotti e business, tutto in streaming

              Donald Trump vuole conquistare anche il telecomando degli americani. Dopo il social fallimentare, arriva lo streaming su misura per la sua narrazione. Dietro? Il solito mix di propaganda, affari e rancore

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                Donald Trump ha deciso che i media non bastano più. Non bastano Fox News, i comizi fiume, Truth Social (il suo social fantasma). Ora serve di più: serve Truth+, una piattaforma streaming tutta sua, dove i contenuti si scolpiscono a colpi di MAGA, patriottismo tossico e verità alternative. Altro che Netflix: qui l’intrattenimento ha il profilo arancione e il parrucchino biondo.

                A spalleggiarlo, chi se non Newsmax, il canale più schierato d’America, che per anni ha spinto teorie cospirazioniste e notizie false su elezioni truccate e vaccini pericolosi. Insomma, se cercavi un rifugio sicuro per paranoici, ultrà e nostalgici del muro col Messico, sei nel posto giusto.

                Il Ceo della baracca, Devin Nunes, ha dichiarato che Truth+ offrirà “commenti incisivi contro il monolite woke”. Tradotto: una valanga di propaganda travestita da informazione, pensata per chi crede ancora che Biden dorma in un bunker sotto Disneyland e che Obama sia nato su Marte.

                Ma il problema è serio. Trump controlla tutto: piattaforma, contenuti, palinsesto, ospiti. Decide cosa si dice, come si dice e chi lo dice. La libertà di stampa? Roba da deboli. L’obiettività? Una parola da eliminare dal vocabolario.

                Intanto i giornalisti veri – tipo quelli di Associated Press o Huffington Post – vengono esclusi dalla Casa Bianca. Dentro, invece, i reporter di Newsmax, con il pass preferenziale per la propaganda. E domani, magari, anche qualche show in prima serata dove Trump intervista… Trump.

                Truth Social ha solo 6 milioni di iscritti e il nuovo streaming rischia di parlare a una stanza vuota. Ma non importa: a Trump basta che si parli di lui. Sempre. Ovunque. Anche nel salotto di casa tua, tra uno spot su bibbie marchiate Trump e una serie tv sulla “vera” America tradita da Hollywood.

                E se non ti basta, tranquillo: presto arriva anche Truth.Fi, la banca MAGA, per investire solo in aziende patriottiche, con un occhio al profitto e l’altro alla bandiera. Il capitalismo? Perfetto, finché serve la causa.

                Trump non è un politico. È un marchio. E ora si compra anche in streaming.

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