Mondo
Trump elogia i generali di Hitler: “Vorrei uomini così leali”. E poi insulta la soldatessa uccisa e la sua famiglia
L’ammirazione di Trump per l’obbedienza cieca dei generali di Hitler riaccende le critiche sulla sua visione autoritaria del potere. E nel frattempo emergono nuove inquietanti rivelazioni sulla gestione del caso Guillén, con commenti razzisti che svelano un lato oscuro del suo carattere.

Donald Trump non smette mai di far parlare di sé, e questa volta è il suo presunto apprezzamento per i generali di Adolf Hitler a creare scalpore. Secondo un articolo pubblicato dalla prestigiosa rivista The Atlantic, durante una conversazione privata alla Casa Bianca, l’ex presidente americano avrebbe espresso il desiderio di avere “il tipo di generali che aveva Hitler”. Un’affermazione che ha subito infiammato il dibattito pubblico, sollevando interrogativi sul rapporto di Trump con i valori democratici e la sua comprensione della storia.
“Generali fedeli come quelli di Hitler”
Trump, stando all’articolo, si lamentava del fatto che i generali americani non fossero leali nei suoi confronti, come lo erano stati quelli del dittatore nazista. “Ho bisogno del tipo di generali che aveva Hitler”, avrebbe detto, lodando la cieca obbedienza di cui godeva il Führer, ignorando che molti di quei generali finirono per complottare contro di lui. Non è la prima volta che Trump viene accusato di dichiarazioni simili. Nel libro The Divider: Trump in the White House, pubblicato nel 2022, si racconta di un episodio in cui Trump chiese al suo allora capo di stato maggiore, John Kelly, perché i generali americani non potessero essere come quelli tedeschi. Alla risposta ironica di Kelly, che ricordava l’epilogo tragico di molti ufficiali nazisti, Trump avrebbe ribadito la sua ammirazione per la “lealtà” di quei militari.
La risposta di Trump e la negazione dello staff
Non sorprende che lo staff di Trump abbia prontamente negato queste affermazioni. Alex Pfeiffer, portavoce della campagna di Trump, ha definito l’articolo di The Atlantic “assolutamente falso”, ma l’inquietudine sollevata da queste parole rimane palpabile. Per quanto smentite, le dichiarazioni di Trump trovano terreno fertile in un passato di commenti controversi e spesso maldestri sulle forze armate.
Il caso Vanessa Guillén e la controversia sul funerale
L’articolo di The Atlantic non si ferma qui. In un altro episodio che ha fatto discutere, Trump avrebbe reagito in modo insensibile alla notizia dei costi del funerale della soldatessa Vanessa Guillén, uccisa nel 2020 a Fort Hood, Texas. Nonostante Trump avesse pubblicamente promesso alla famiglia di coprire le spese, quando scoprì che il funerale sarebbe costato 60.000 dollari, reagì con rabbia, secondo l’articolo: “Non costa 60mila bigliettoni seppellire una fottuta messicana”. La frase, oltre a rivelare un lato oscuro del suo carattere, ha riacceso le polemiche sulla sua retorica razzista e sulla sua gestione delle questioni legate alle forze armate e alle minoranze.
Generali di Hitler, funerali e retorica razzista
Le accuse rivolte a Trump dipingono un quadro che alimenta una narrazione già critica. L’elogio ai generali di Hitler, con tutte le implicazioni storiche che ne derivano, e la cruda reazione alla questione del funerale di Vanessa Guillén offrono uno spaccato di un leader apparentemente scollegato dalla sensibilità comune. La preoccupazione non è solo legata alla natura delle sue affermazioni, ma anche all’immagine che continua a dare di se stesso: un leader che sembra affascinato da regimi autoritari e che spesso fatica a trattenere commenti controversi su questioni razziali e culturali.
Una questione di lealtà o di democrazia?
La questione fondamentale che emerge da queste dichiarazioni è quella della lealtà. Trump sembra confondere la lealtà personale con la lealtà istituzionale. I generali americani giurano fedeltà alla Costituzione, non al Presidente, un principio fondamentale della democrazia americana che Trump sembra non aver compreso appieno. Questo richiamo ai generali nazisti solleva domande sulla sua visione del potere e sul rispetto per i valori democratici che dovrebbero guidare un leader.
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Mondo
Khaby Lame espulso dagli USA. Invidia o sgarbo? L’influencer Maga rivendica il merito
Bo Loudon, amico di Barron Trump, afferma di aver orchestrato l’espulsione del tiktoker: “Nessuno è al di sopra della legge”.

C’è del clamore mediatico attorno alla recente espulsione dagli Stati Uniti di Khaby Lame. Il popolare tiktoker italo-senegalese, che con il suo stile minimalista ha conquistato oltre 162 milioni di follower, è stato preso di mira. Dietro il provvedimento della sua espulsione c’è un nome sorprendente: Bo Loudon. Il giovane influencer legato alla famiglia Trump, presunto migliore amico di Barron, figlio minore dell’ex presidente è noto per la sua vicinanza ai circoli conservatori americani. Loudon ha rivendicato apertamente di aver avuto un ruolo determinante nell’espulsione. In una serie di post su X, ha dichiarato di aver “preso personalmente provvedimenti” per far sì che il 25enne venisse fermato. Ha lavorato “con i patrioti dell’amministrazione Trump” per ottenere l’arresto del tiktoker all’aeroporto di Las Vegas.
Loudon vs. Lame. una rivalità tra Tiktoker?
Secondo le autorità, Lame sarebbe rimasto oltre la scadenza del suo visto temporaneo. Lame è entrato negli USA il 30 aprile per partecipare al Met Gala a New York il 5 maggio. E’ stato fermato dagli agenti dell’US Immigration and Customs Enforcement (ICE) il 6 giugno allo scalo Harry Reid. Gli è stata concessa la “partenza volontaria”, lasciando così il Paese senza ulteriori conseguenze legali. Loudon, da parte sua, esulta per l’operazione: “Nessuno lavora più velocemente dell’amministrazione Trump“, ha scritto, sottolineando il ruolo che lui e Barron Trump avrebbero avuto nel garantire l’applicazione della legge.
Dal comitato elettorale a poliziotto
L’influencer di Palm Beach, nonostante la giovane età, è stato reclutato ufficiosamente nel team elettorale di Donald Trump. Il suo compito è quello di intercettare il voto della Generazione Z e il cosiddetto “bro vote”, ovvero il consenso dei giovani uomini americani. Ma dietro questo attivismo politico, alcuni vedono anche un velato sentimento di invidia. Lame è una star internazionale, mentre Loudon, pur vicino ai circoli di potere, resta una figura controversa e di nicchia. Il sospetto che questa espulsione sia stata motivata più da personalismi che da una reale emergenza legale è stato sollevato da diversi osservatori, soprattutto in un momento in cui Trump è alla ricerca di consensi tra i giovani. E Lame che fa? Risponderà? Forse sceglierà il silenzio e un’espressione sarcastica per dire tutto senza dire nulla.
Mondo
“Mi sono alzato tra le fiamme e ho cominciato a correre”: il racconto dell’unico sopravvissuto alla strage di Ahmedabad
“Non so come sia possibile, ma sono uscito vivo da lì”. Si chiama Vishwash Kumar Ramesh, ha 40 anni, la cittadinanza britannica e una famiglia a Londra. È l’unico sopravvissuto al disastro del Boeing Air India precipitato ad Ahmedabad. Il volo, diretto nel Regno Unito, si è schiantato poco dopo il decollo, provocando 240 morti. Il suo racconto, tra dolore e incredulità, arriva da un letto d’ospedale, dove è ricoverato con ustioni al volto, al petto e agli arti.

Vishwash non riesce a darsi una spiegazione, e forse non la troverà mai. Il boato, le fiamme, il buio, poi il silenzio. “Si è capito che qualcosa non andava a pochissimi secondi dal decollo”, ha raccontato. Prima un forte rumore, poi lo scoppio, un tonfo improvviso. E in un attimo, tutto intorno a lui è stato fuoco. Non c’è stato il tempo per gridare. Né per pensare.
Era seduto al posto 11A, accanto al portellone di emergenza. Forse è stato questo a salvarlo. Quando ha riaperto gli occhi, era ancora vivo. Ustionato, confuso, ma vivo. “Mi sono alzato tra le fiamme e ho cominciato a correre, tra lamiere e corpi senza vita, cercando disperatamente un’uscita”. In tasca aveva ancora la carta d’imbarco. L’ha mostrata ai soccorritori come se fosse un talismano, una prova fisica di un passaggio rimasto inspiegabilmente aperto tra la vita e la morte.
Nelle sue parole, spezzate dalla fatica e dal dolore, c’è un’immagine che torna più volte: quella dei passeggeri davanti a lui. Un’hostess, una coppia di anziani, e suo fratello Ajay. “Sono morti tutti davanti ai miei occhi”, ha detto. Il fratello, 45 anni, era accanto a lui. Viaggiavano insieme, di ritorno da una breve visita ai parenti. Avevano preso quel volo per tornare a casa, in Gran Bretagna, dove vivono da vent’anni. Uno solo è sopravvissuto.
Il racconto prosegue come un sogno spezzato. “Mi muovevo quasi senza capire. C’erano pezzi dell’aereo ovunque, fumo, odore di carburante. A un certo punto ho visto qualcuno venirmi incontro. Poi l’ambulanza”. L’aereo, carico di cherosene per il lungo viaggio, ha preso fuoco subito dopo l’impatto con un edificio nei pressi dell’aeroporto. Era un ostello per studenti di medicina: tra le vittime, almeno cinque giovani che dormivano nelle stanze investite dalle lamiere.
Vishwash ha provato a ricostruire quei secondi prima dello schianto. Secondo lui, qualcosa è andato storto appena dopo il decollo. “Sembrava che l’aereo si fosse fermato a mezz’aria. Poi ho visto accendersi luci verdi e bianche. I piloti hanno cercato di riprendere quota, ma non c’è stato niente da fare. È andato giù di colpo, a tutta velocità”. Quando l’aereo si è inclinato, il caos ha preso il sopravvento. I passeggeri si sono stretti ai sedili, molti hanno urlato. Lui ha stretto la cintura, poi il resto è venuto da sé.
Dall’ospedale civile di Asarwa, dove è ricoverato, Vishwash ha parlato con un cronista del quotidiano Hindustan Times, ma anche con i giornalisti di NDTV. Ha raccontato tutto, senza cercare un senso. “La morte di mio fratello spezzerà il cuore alla nostra famiglia. Io ringrazio gli dei per il miracolo che mi ha salvato, ma porterò per sempre nel cuore questa tragedia”.
Il posto 11A, accanto alla porta d’emergenza, è diventato un simbolo. Lo citano i medici, i cronisti, i soccorritori. È lì che sedeva l’unico sopravvissuto di un volo che non doveva finire così. È lì che, tra fumo, fuoco e lamiere, si è aperto un varco impossibile tra la fine e la vita.
Mondo
Trump umiliato da un giudice: la Guardia Nazionale deve tornare alla California
Gavin Newsom vince in tribunale: Trump ha superato i limiti costituzionali nel dispiegare la Guardia Nazionale. Il presidente dovrà restituire il controllo delle truppe allo Stato. La Casa Bianca grida all’abuso giudiziario, ma il danno politico è fatto.

Un altro schiaffone per Donald Trump. Non dalle urne, non dai democratici, ma direttamente da una corte federale. Il giudice Charles Breyer, togato di lungo corso a San Francisco, ha deciso che l’ex presidente ha agito in violazione della Costituzione quando ha ordinato il dispiegamento della Guardia Nazionale in California.
In particolare a Los Angeles, dove ha inviato le truppe per presidiare edifici federali e reprimere le proteste, scavalcando il governo statale.
La sentenza – 36 pagine fitte e giuridicamente inappellabili – è una vittoria fragorosa per Gavin Newsom, governatore democratico della California, che aveva citato in giudizio l’ex presidente all’inizio della settimana.
Un atto che sembrava solo politico, e invece ha trovato pieno accoglimento in tribunale. Breyer ha scritto nero su bianco che Trump ha oltrepassato i limiti del suo potere e violato il decimo emendamento, quello che garantisce agli Stati l’autonomia su tutto ciò che non è espressamente demandato al governo federale.
La sentenza è destinata a far rumore. Anche perché Trump, da comandante in capo, ha sempre rivendicato il diritto assoluto di impiegare la Guardia Nazionale come strumento d’ordine pubblico, anche contro il parere degli Stati. L’amministrazione ha già annunciato ricorso, parlando di “straordinaria intrusione nei poteri presidenziali”.
Il Dipartimento di Giustizia ha chiesto la sospensione della sentenza, sostenendo che il presidente ha il diritto, quando lo ritiene necessario, di mobilitare le truppe statali per proteggere i funzionari e gli edifici federali.
Ma il danno d’immagine è fatto. L’ex presidente si ritrova ancora una volta nell’angolo, accusato di autoritarismo, di scavalcare la democrazia locale per piegarla a fini di propaganda. Gavin Newsom lo ha scritto chiaramente su X: “Un tribunale ha confermato ciò che tutti sappiamo: l’esercito non appartiene alle strade delle nostre città. Trump deve porre fine all’inutile militarizzazione di Los Angeles. Se non lo farà, confermerà le sue tendenze autoritarie”.
Il caso politico è tutt’altro che chiuso. Trump continua a riproporsi come uomo forte, deciso, pronto a usare ogni leva del potere per mostrare muscoli e disciplina, anche se in violazione delle regole. Ma il giudice Breyer gli ha ricordato che negli Stati Uniti il potere ha un limite, e quel limite si chiama Costituzione.
Newsom, da parte sua, cavalca l’onda della vittoria: non è più solo il governatore glamour della California progressista, ma il volto di una resistenza istituzionale all’ex presidente. La sua stoccata finale: “Se Trump vuole usare i soldati, lo faccia nelle fiction di Hollywood, non nella realtà democratica americana”.
E stavolta, il giudice lo ha detto chiaro: quel potere non gli appartiene.
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