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Politica

Sangiuliano e quella storia tutta personale

Da Colombo a Galileo, da Dante a Times Square, le gaffe del ministro Sangiuliano continuano a lasciare perplessi e divertiti cittadini e storici. Ogni volta, i tentativi di correggersi rendono la situazione ancora più esilarante.

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    Sembra che il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano abbia deciso di trasformare la storia in una sua personale saga di fantasia. La sua ultima perla? Durante un incontro a Taormina, ha affermato che Cristoforo Colombo avrebbe raggiunto l’America grazie alle teorie di Galileo Galilei, ignorando che Galileo è nato ben dopo la scoperta del Nuovo Mondo. Un’uscita che ha fatto sobbalzare chiunque abbia un minimo di nozioni storiche.

    Il capolavoro delle giustificazioni

    Ma il vero spettacolo non sono solo le gaffe, bensì i tentativi di Sangiuliano di porvi rimedio. Memorabile è stata la sua dichiarazione in diretta di non aver letto i libri del Premio Strega, seguita dalla precisazione che non li aveva letti “con la calma che meritavano”. Dinanzi alla confusione Colombo-Galileo, il ministro è entrato a Palazzo Chigi a capo chino, evitando per una volta di impartire lezioni di “memoria storica” agli ex colleghi giornalisti.

    Times Square a Londra?

    Non possiamo dimenticare l’altro scivolone epocale: durante un’intervista, Sangiuliano ha trasferito Times Square a Londra, per poi cercare di rimediare affermando che intendeva Piccadilly Circus. Un’altra perla per la collezione, che ha fatto sorridere anche i più seriosi tra noi.

    Dante e il Colosseo

    Tra le dichiarazioni più discutibili, quella in cui Sangiuliano definì Dante Alighieri come “il fondatore del pensiero di destra” e l’idea di concedere il Colosseo per una scazzottata tra Elon Musk e Mark Zuckerberg in cambio di un ospedale per bambini malati. Un cinepanettone della realtà.

    Un debutto da manuale

    Il debutto di Sangiuliano come ministro della Cultura non è stato da meno. Annunciò con grande enfasi l’urgenza di una fiction su Oriana Fallaci, ignorando che la Rai, dove lui stesso aveva lavorato, l’aveva già realizzata anni prima. Forse, nella sua “superpotenza culturale”, non aveva avuto tempo per un controllo rapido su Google.

    Un mistero politico

    Come Sangiuliano sia finito a capo del ministero della Cultura resta un enigma. Forse Meloni cercava di bilanciare le gaffe del cognato Lollobrigida con quelle di Sangiuliano, ma il risultato è stato un vero spettacolo di disinformazione. Con un apparato di consiglieri, ci si chiede come il ministro non abbia ancora capito che ogni sua dichiarazione viene amplificata sotto una lente d’ingrandimento.

    La passione per sé stesso

    Non si può dire che Sangiuliano non ami la cultura, almeno nei numeri: 15 mila volumi nella sua biblioteca personale e 18 libri scritti di suo pugno. Tuttavia, la sua passione per se stesso sembra superare quella per la cultura, trasformandolo spesso in un personaggio da cartoon, impettito e ghiotto di applausi. E così, tra un errore storico e l’altro, Sangiuliano continua a intrattenerci con le sue avventure nel mondo della cultura.

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      Politica

      Ma dove è finita Giorgia Meloni? In un trullo blindato di Locorotondo con Giambruno e Gemmato

      Secondo indiscrezioni, Giorgia Meloni avrebbe scelto il Leonardo Trulli Resort di Locorotondo per le sue vacanze estive. Con lei la figlia Ginevra, l’ex compagno Andrea Giambruno e il sottosegretario Marcello Gemmato con la famiglia. Una scelta dettata dal bisogno di privacy, ma anche dall’attrazione per una dimora che unisce lusso e tradizione pugliese.

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        Non più la masseria di Ceglie Messapica, che lo scorso anno l’aveva vista finire sotto i teleobiettivi dei paparazzi mentre si rilassava a bordo piscina. Quest’estate Giorgia Meloni ha deciso di cambiare scenario, pur restando fedele alla sua amata Valle d’Itria. Tutti gli indizi portano al Leonardo Trulli Resort di Locorotondo, struttura immersa nella campagna pugliese, avvolta da vigneti e muretti a secco, dove la riservatezza è la regola.

        Ad accompagnarla in Puglia ci sono la figlia Ginevra e l’ex compagno Andrea Giambruno, con cui ha scelto di mantenere un rapporto sereno per il bene della bambina. Con loro anche il sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, farmacista di professione e in pole per la poltrona di ministro, arrivato in vacanza con la moglie Laura e le due figlie gemelle, grandi amiche di Ginevra.

        Il resort, aperto nel 2013 ma costruito attorno a un’antica dimora recuperata con cura, conta quattordici alloggi che oscillano dai 250 ai 900 euro a notte. Trulli in pietra, una piccola masseria liberty e una villa di campagna, tutti con arredi ricercati e giardini privati. La vera chicca è la stanza con piscina segreta ricavata da una cantina sotterranea, diventata virale sui social. Non mancano due ville indipendenti, tra cui villa Leonardo, ideale per famiglie in cerca di totale isolamento: la candidata più probabile per ospitare la premier e il suo entourage.

        La scelta non sarebbe casuale. Meloni conosce da tempo la famiglia Cardone, che ha trasformato la residenza in un rifugio esclusivo, a metà strada tra il fascino antico e il comfort moderno. Una dimora nata dalla visione romantica di Leonardo, il fondatore, e oggi curata dalla nipote Rosalba.

        Per la premier, quindi, un ritorno in Puglia, ma con una strategia diversa: più spazio, più sicurezza, meno possibilità di flash indesiderati. Perché anche quando la politica si ferma, la riservatezza resta un dovere.

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          Politica

          Trump confonde la Crimea col Texas e inventa guerre: il presidente che inciampa nelle sue stesse gaffe

          Donald Trump continua a ripetere che nei primi sette mesi alla Casa Bianca ha risolto sei guerre. Poi, senza battere ciglio, ne annuncia sette, salvo non chiarire quale sia l’ultima. L’exploit radiofonico ha però regalato un doppio scivolone: la Crimea trasformata in un Texas affacciato sull’oceano e il conflitto inesistente tra Azerbaigian e Albania. Un cortocircuito che riaccende i dubbi sullo stato di lucidità del presidente.

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            Era stato lui, ai tempi della campagna elettorale, a prendersi gioco della presunta fragilità mentale di Joe Biden, ribattezzato con scherno “Sleepy Joe”. Ma ascoltando Donald Trump al microfono del Mark Levin Show, viene da pensare che, a confronto, il rivale democratico fosse davvero un giovanotto fresco come un pischello. Il presidente ha inanellato una sequenza di strafalcioni che hanno lasciato di stucco perfino i suoi sostenitori più accaniti.

            Prima la geografia creativa: «La Crimea è grande quanto il Texas e affacciata sull’oceano». In realtà è una penisola che si tuffa nel Mar Nero, e non in un oceano. Poi la diplomazia da avanspettacolo: «Ho risolto la guerra tra Aberbaijan e Albania». Due colpi in un solo colpo: storpiare il nome di un Paese e infilarne dentro un altro che con quel conflitto non ha nulla a che fare.

            Eppure, Trump ci crede. Rivendica di aver chiuso sette guerre in sette mesi: India-Pakistan, Israele-Iran, Ruanda-Congo, Thailandia-Cambogia, Armenia-Azerbaigian, Egitto-Etiopia. Più una settima, indefinita, che il presidente evoca con aria misteriosa, parlando di Serbia e Kosovo come se avesse bloccato una guerra che in realtà non è mai iniziata. Il risultato è un elenco confuso, già messo in dubbio dagli stessi protagonisti, che spesso hanno ridimensionato il ruolo americano.

            La scena più surreale resta quella con i leader armeno e azero nello Studio Ovale, che Trump descrive come due ragazzi imbronciati convinti all’abbraccio dopo una ramanzina sui commerci. Ma la sua versione cozza con i fatti: la tregua è fragile e gli scontri non si sono fermati.

            Un presidente che si vanta di «aver risolto guerre che nessuno pensava risolvibili» e che, allo stesso tempo, trasforma la geopolitica in un pasticcio di geografia e fantasia. Per molti, la vera notizia non è l’ennesimo Nobel che si auto-candida, ma il dubbio che, più che a fermare i conflitti, Trump sia diventato maestro nell’inventarli.

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              Politica

              Dal Leoncavallo ad “afuera”: Salvini dimentica il suo passato da frequentatore del centro sociale che oggi rivendica di aver fatto sgomberare

              Matteo Salvini, a 21 anni, raccontava che dai 16 ai 19 il suo ritrovo era il Leoncavallo, centro sociale milanese sgomberato ieri. All’epoca lo difese a spada tratta, parlando di “idee e bisogni condivisi” e ricevendo applausi dal Pds. Trentun anni dopo, da ministro, ha brindato allo sfratto citando Milei: “Afuera!”. Intanto a Roma resta intoccata l’occupazione di Casapound, e crescono le accuse di doppiopesismo.

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                “Dai 16 ai 19 anni il mio ritrovo era il Leoncavallo. Mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni”. Correva il 1994 e un giovane consigliere comunale, Matteo Salvini, difendeva in aula quello che oggi celebra come il trionfo della legalità calata dall’alto. Il verbale dell’epoca è chiaro: per il futuro leader della Lega, i centri sociali erano luoghi di incontro, discussione, perfino divertimento. “Ci si trova per confrontarsi, bere una birra e divertirsi” disse allora, ricevendo l’approvazione persino del capogruppo del Pds, Stefano Draghi, che definì il suo intervento “lucido ed equilibrato”.

                Trentun anni dopo, la scena è ribaltata. All’indomani dello sgombero dello storico centro sociale di via Watteau, Salvini ha esultato sui social: “Decenni di illegalità tollerata: afuera!”. Una citazione del presidente argentino Milei che ha fatto il giro delle bacheche, non senza imbarazzo per i ricordi che riaffiorano. Perché Salvini, prima di vestire i panni del “capitano”, è stato un giovane comunista padano che al Leonka, come lo chiamano a Milano, ci andava davvero.

                Lo sfratto ha riaperto ferite storiche. Il sindaco Giuseppe Sala ha denunciato di non essere stato avvisato dell’operazione, nonostante il comitato per l’ordine e la sicurezza si fosse riunito il giorno prima. “Un valore storico e sociale della città” ha ribadito Sala, convinto che il Leoncavallo debba continuare a produrre cultura “in un contesto di legalità”.

                Ma la polemica politica si allarga. Luca Casarini parla di “sgombero con sotterfugio”, Angelo Bonelli denuncia il doppio standard: “Si chiude il Leoncavallo e si lascia intatto il palazzo occupato da Casapound nel cuore di Roma”. Giorgia Meloni, invece, plaude: “In uno Stato di diritto non possono esistere zone franche”.

                Così lo spirito del Leonka torna al centro della contesa politica, sospeso tra la memoria di chi lo visse come spazio di socialità e la narrazione di chi oggi lo liquida come simbolo di illegalità. In mezzo resta la contraddizione di Salvini: da giovane lo difendeva, da ministro lo caccia via.

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