Storie vere
Scarpini, fede e fuorigioco: la nazionale di calcio delle suore sogna un mondiale in Vaticano
Le Sister Football Team scendono in campo in pantaloncini e capo scoperto per evangelizzare con il pallone. Suor Francesca: “Il calcio mi ha insegnato l’obbedienza. Oggi sogno di giocare davanti al Papa guarito”
Dal convento al campo, senza mai smettere di sorridere. Con le ginocchiere al posto del rosario e il Vangelo nel cuore, le Sister Football Team sono la prima Nazionale di calcio femminile composta interamente da religiose. E non è uno scherzo. Con pantaloncini, maglietta e niente velo, queste suore entrano in campo per beneficenza, ma anche per evangelizzare. E, perché no, per vincere. Il loro sogno? Un mondiale tutto al femminile, con suore da ogni parte del mondo, giocato in Vaticano davanti al Papa ristabilito.
Un’idea che oggi ha il volto sorridente di suor Francesca Avanzo, 40 anni, religiosa agostiniana di San Giovanni Valdarno, insegnante di religione e attaccante sulla fascia. Una che di pallone se ne intende. “Ho cominciato da piccola, giocando coi maschi a Rovigo, dove sono nata. A dodici anni ero già in una squadra femminile. Mi chiamavano ‘Chica’, ero un maschiaccio, lo sport era la mia passione. Ma il calcio… il calcio era un richiamo irresistibile”.





La nazionale è affiliata alla Lazio e la sua prima presidente è stata suor Paola, volto amatissimo della tv e tifosa sfegatata, scomparsa pochi giorni fa. “È stata la prima a portare le suore nel mondo del calcio – racconta suor Francesca – sfidando i pregiudizi della Chiesa e anche della sua superiora. Un esempio di libertà e coraggio che oggi ci guida come una capitana invisibile”.
In panchina siede Moreno Buccianti, ex calciatore e già allenatore della celebre “Seleçao” dei sacerdoti. A benedire l’iniziativa c’è una lettera di incoraggiamento del Papa in persona, che per le sorelle è ormai una reliquia motivazionale.
Ma com’è giocare da suora in un mondo che ancora fatica a immaginare le religiose fuori dall’oratorio?
“Mai avuto paura delle critiche. Ho consacrato la vita al Signore, non serve un abito per dimostrarlo. E poi, ho ricevuto subito il via libera dalla mia superiora: ha capito che oggi anche il messaggio di Cristo può passare dagli scarpini”.
Suor Francesca gioca esterno d’attacco, non si sente Messi né Ronaldo, ma ha un idolo: “Barbara Bonansea, della Juve e della Nazionale. Mi piacerebbe saper tirare come lei. Il calcio maschile invece mi ha un po’ nauseato: tra genitori che si prendono a botte alle partite dei figli e stipendi miliardari, è diventato un mondo poco etico”.
Le Sister Football Team giocano sul serio. “Sì, partecipiamo per vincere. Siamo competitive. Suor Emilia, per esempio, giocava nella Nazionale romena prima della vocazione. E il nostro ultimo successo è freschissimo: il 23 marzo a Bologna abbiamo vinto 3 a 1, per beneficenza”.
E il calcio, spiega, è uno strumento potente anche per evangelizzare: “Ai bambini parlo di Gesù con le metafore del campo: spirito di gruppo, panchina, sacrificio. È un linguaggio che capiscono”.
La consacrazione, racconta, le è sembrata una naturale prosecuzione delle regole di spogliatoio. “Obbedienza, ascolto, spirito di squadra: se giochi a calcio, entri più facilmente in convento. È come se lo avessi sempre fatto”.
Alla domanda se si sente pronta a giocare per il Papa, suor Francesca non esita. “L’ho incontrato due volte. Ci ha benedette e incoraggiate. Se venisse a vederci, sarebbe il nostro mondiale personale”.
La palla è rotonda, anche per chi ha preso i voti. E in fondo, dice suor Francesca, “non importa se il campo è un prato o il mondo intero: l’importante è continuare a correre verso il bene”.
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Storie vere
A Biancavilla famiglie in lacrime davanti alla salma sbagliata: scambio di feretri in ospedale e mistero su chi abbia invertito le bare
Lo scambio è avvenuto dopo il ricovero dei due uomini, coetanei, nello stesso ospedale di Biancavilla. Le bare tornano alle famiglie corrette, ma resta senza risposta la domanda chiave: quando e perché i feretri sono stati confusi?
A Biancavilla, nel Catanese, una famiglia ha vegliato per ore un uomo che non conosceva, convinta di trovarsi davanti al proprio caro estinto. La scena, quasi irreale, si è consumata in una casa privata dove parenti e amici avevano iniziato il rito del commiato. Nessuno aveva notato nulla di anomalo. L’allarme è scattato solo quando l’Azienda sanitaria provinciale di Catania ha contattato uno dei familiari, invitandolo a verificare l’identità della salma. Una richiesta insolita che ha subito acceso i sospetti.
Il controllo, effettuato con maggiore attenzione, ha confermato il peggiore dei timori: la persona nella bara non era il loro congiunto. Da quel momento la situazione si è capovolta, trascinando entrambe le famiglie in uno sconcerto difficile da spiegare.
Due uomini, stesso ospedale, età simile
Le informazioni raccolte indicano un punto comune: i due defunti, uomini di età simile, erano stati ricoverati nel medesimo ospedale, il “Maria SS. Addolorata” di Biancavilla. È lì che le loro strade si sarebbero incrociate per l’ultima volta.
Le operazioni successive – preparazione delle salme, trasferimenti, consegna delle bare – rappresentano una catena lunga, fatta di passaggi tecnici e procedure che, in teoria, riducono al minimo la possibilità di errori. Ma qualcosa, questa volta, non ha funzionato. E le famiglie, ignare, hanno accolto due feretri invertiti senza sospettare alcuno scambio.
Un errore ancora senza autore
Resta ora la domanda più scomoda: chi ha invertito le bare? E soprattutto, in quale momento della procedura è avvenuta la confusione?
L’Asp ha segnalato l’accaduto e dovrà ricostruire ogni fase, dai reparti al deposito delle salme, fino al passaggio alle imprese funebri. Errori del genere sono rari, ma quando accadono lasciano dietro di sé non solo disagi burocratici ma ferite emotive profonde.
Le due famiglie, dopo ore di smarrimento, hanno finalmente riavuto indietro i rispettivi defunti. Un epilogo necessario, ma che non cancella lo choc di aver pianto un estraneo, né le domande ancora aperte su una vicenda che richiede chiarezza.
Storie vere
La superiora coinvolta in una chat erotica col prete, ma le suore negano
La religiosa a capo del Most Holy Trinity di Arlington è stata accusata di aver violato il voto di castità con telefonate sconce con un prete. Il vescovo locale vuole prendere il controllo della struttura, ma le suore si sono ribellate
La saga del monastero Most Holy Trinity di Arlington, Texas, è diventata la trama principale di una telenovela dall’andamento tanto imprevedibile quanto scandaloso. Il palcoscenico di questa storia boccaccesca è un monastero in lotta tra suore ribelli e un vescovo determinato, con tanto di violazione dei voti di castità e telefonate sconce a un prete.
Le suore carmelitane hanno alzato la voce, sfidando il Vaticano e denunciando il vescovo locale e l’Association of Christ the King. La battaglia per il controllo del monastero e dei suoi trenta ettari di terreno è diventata un vero e proprio campo di battaglia legale, con milioni di dollari in gioco e un’accusa di violazione dei voti sacri che avrebbe fatto arrossire persino il Papa.
Il Vaticano ha emesso un decreto assegnando il controllo del monastero a un’organizzazione privata cattolica, scatenando una guerra legale senza precedenti. Ma le suore non si sono arrese facilmente: hanno chiesto di bloccare il provvedimento e hanno denunciato il vescovo locale per tentativo di appropriazione indebita.
Ma la vera bomba è stata la rivelazione dei loschi affari della madre superiora, Teresa Agnes Gerlach, accusata di aver rotto il voto di castità con telefonate sconce a un prete di un altro monastero. Un’indagine interna condotta dal Vaticano ha portato alla rimozione di Gerlach, ma la madre superiora non si è data per vinta, sostenendo di essere vittima di un complotto ordito dal vescovo per prendere il controllo del monastero.
Il tribunale diventa così il palcoscenico di una battaglia epica, con suore coraggiose che lottano per difendere la loro casa e il loro onore. La richiesta di 100 mila dollari di risarcimento è solo l’ultima mossa in questa partita che sembra non avere fine.
Ma mentre il pubblico si prepara a scrutare ogni mossa sul palcoscenico del tribunale, ci si chiede: chi sarà il vincitore di questa battaglia? Le suore sono pronte a tutto pur di difendere il loro monastero, e il vescovo dovrà fare i conti con una rivolta che potrebbe mandare in fumo i suoi loschi piani.
Storie vere
Basta mollo tutto e vado a vivere in un container! La scelta per una vita autosufficiente
Questa giovane donna dimostra che è possibile vivere in modo diverso e trovare felicità e serenità in uno stile di vita minimalista. Ma per forza in un container…?
Robyn Swan, una giovane donna di 33 anni, ha deciso di cambiare radicalmente la sua vita vendendo tutto ciò che possedeva per vivere in un container, immersa nella natura della Scozia. La sua scelta, lontana dai canoni tradizionali, è stata motivata dal desiderio di diventare autosufficiente, ridurre il proprio impatto sull’ambiente e ritrovare serenità e libertà. Robyn ha venduto tutti i suoi beni, inclusi l’auto, i mobili e la televisione, per finanziare l’acquisto di un terreno vicino a Stirling, dal valore di 220mila euro. Ha poi collocato sul terreno un container, acquistato per 5mila euro, che è diventato la sua nuova abitazione. Per otto mesi, Robyn ha vissuto senza elettricità, ma successivamente ha installato pannelli solari, rendendo la sua casa energeticamente autosufficiente.
Uno stile di vita autosufficiente
La vita di Robyn si basa su un modello di autosufficienza e semplicità. Coltiva il proprio cibo, alleva polli, conigli e maiali, e raccoglie l’acqua piovana per il fabbisogno quotidiano. Per sostenersi, lavora come dog walker a tempo pieno. Condivide questa esperienza con il suo socio, Luke, un elettricista di 29 anni che ha contribuito a rendere possibile il progetto. Grazie al suo impegno, Robyn riesce a vivere con circa 300 euro al mese. Le sue spese principali sono limitate alla tassa comunale, al cibo e al telefono. Non avendo affitto o bollette energetiche significative, riesce a mantenere un tenore di vita semplice ma appagante.
Ma perché questa scelta?
La decisione di Robyn non è stata dettata solo da motivi economici, ma anche dal desiderio di vivere in modo più sano e sostenibile. “Volevo sapere esattamente cosa c’è nel cibo che consumo, produrlo da sola mi dà questa certezza“, ha spiegato. Inoltre, vivere lontano dalla civiltà le permette di essere preparata ad affrontare eventuali crisi globali, come una carenza alimentare. Pur riconoscendo che questo stile di vita può essere fisicamente impegnativo, Robyn lo descrive come profondamente appagante. “Mi dà tranquillità,” ha detto, spiegando che la connessione con la natura e la consapevolezza di essere autosufficiente contribuiscono al suo benessere generale.
Vuoi andare anche tu a vivere in un container? Ecco qualche informazione pratica
Vivere in un container richiede adattamenti pratici e creativi. Robyn ha dimostrato che, con le giuste soluzioni, questa scelta abitativa può essere comoda e sostenibile. Per prima cosa biosgna munirsi di pannelli solari per la produzione di energia elettrica. Poi biosgna pensare alla raccolta dell’acqua piovana. Acqua che serve per l’irrigazione delle colture e le necessità quotidiane. Quindi dal punto di vista della gestione degli spazi è indipensabile organizzare il container in modo funzionale per includere zona notte, cucina e spazio di lavoro. Infine cointainer o non container biosgna pensare a come procurarsi la pappa quotidiana. Insmma bisogna darsi da fare per raggiungere una autosufficienza alimentare. Robyn coltiva verdure e alleva animali, riducendo così la dipendenza da fonti esterne. E voi lo sapreste fare?
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