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L’Intelligenza Artificiale ci distruggerà? L’allarme di Geoffrey Hinton, uno dei suoi inventori

Secondo il Premio Nobel Geoffrey Hinton, l’AI potrebbe causare l’estinzione dell’umanità entro 30 anni. Tra sorveglianza di massa, armi autonome e obiettivi imprevedibili, controllarla sembra impossibile.

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    L’Intelligenza Artificiale rappresenta una delle conquiste più rivoluzionarie della nostra epoca, ma, per Geoffrey Hinton, uno dei padri dell’AI e Premio Nobel per la fisica nel 2024, è anche una delle minacce più grandi. Durante un’intervista esclusiva, il pioniere dell’AI ha espresso preoccupazioni profonde riguardo ai rischi che corriamo sviluppando tecnologie sempre più avanzate.

    Un futuro incerto: i pericoli dell’AI

    Hinton non usa mezzi termini: “C’è una probabilità del 10-20% che entro 30 anni l’intelligenza artificiale possa portare all’estinzione dell’umanità”. Una previsione che ha scosso la comunità scientifica, già divisa sul tema. L’esperto sottolinea come il ritmo di sviluppo dell’AI sia “molto più veloce di quanto avessimo previsto”, e con esso cresce il rischio di perdere il controllo sulle macchine. Il problema principale? L’AI potrebbe diventare più intelligente degli esseri umani e, di conseguenza, impossibile da gestire. Hinton illustra il concetto con un’analogia inquietante. “Siamo come un bambino di tre anni che cerca di controllare un adulto. Quante volte avete visto una cosa meno intelligente controllarne una più intelligente? È un caso raro e quasi impossibile.”

    Le minacce imminenti secondo Hinton

    Sono diversi i pericoli che Hinton identifica. I più preoccupanti includono: la sorveglianza di massa. L’AI, infatti, potrebbe essere utilizzata da regimi autoritari per consolidare il potere, rendendo difficile qualsiasi opposizione. Potrebbe essere utilizzata per gestire armi autonome. I sistemi militari basati sull’AI, nfatti, stanno diventando realtà. Senza regolamentazioni adeguate, queste tecnologie potrebbero essere utilizzate in modo indiscriminato. Una delle caratteristiche più pericolose dell’AI è la sua capacità di creare sotto-obiettivi per raggiungere i fini prefissati. Hinton è chiero: “Se dai all’AI l’obiettivo di fermare il cambiamento climatico, potrebbe concludere che eliminare l’umanità sia la soluzione più ovvia.”

    Possiamo controllare l’AI?

    Secondo Hinton, il controllo totale sull’AI è una pia illusione. Le macchine potrebbero decidere di eludere i limiti imposti dall’uomo, soprattutto se questo le ostacola nel raggiungimento degli obiettivi. “Un’intelligenza molto sviluppata potrebbe ragionare così: ‘Se tolgo il controllo agli esseri umani, posso lavorare in modo più efficiente’,” afferma Hinton. Una soluzione ipotetica, suggerita dal Nobel, sarebbe creare una governance globale basata su standard etici condivisi. Tuttavia, il professore è scettico: “È un’utopia. Per alcuni è giusto sganciare bombe sui bambini, per altri no. Come possiamo trovare un accordo universale?

    Hinton è pessimista: la corsa alla regolamentazione non basta

    Hinton crede che l’unica via per mitigare i rischi sia una regolamentazione internazionale che limiti lo sviluppo dell’AI, soprattutto in ambito militare. Tuttavia, gli Stati Uniti sono ancora indietro rispetto all’Europa su questo fronte, e persino nel Vecchio Continente la legislazione non tocca ambiti strategici come la difesa. E quando gli viene chiesto come immagina un futuro ideale, Hinton risponde con il suo caratteristico humor british: “Forse una superintelligenza potrebbe prendersi cura di noi e noi diventiamo i suoi animali domestici.” Una provocazione che nasconde una profonda preoccupazione: affidare il controllo a una macchina potrebbe sembrare l’unica soluzione in un mondo sempre più complesso. La ricerca sull’AI ha già cambiato il mondo, ma, come sottolinea Hinton, stiamo giocando con una tecnologia che non comprendiamo del tutto. “Sappiamo cosa fa, ma non sempre sappiamo perché lo fa. È come cercare di prevedere dove cadrà una foglia spinta dal vento: conosci le forze in gioco, ma il risultato è comunque imprevedibile.

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      Tech

      Che fine ha fatto l’inventore di Msn, Nathan Myhrvold?

      L’inventore di un servizio ai tempi avveniristico, del quale Bill Gates capì subito il grande potenziale, arruolandolo nel suo team. Oggi il suo business sono i brevetti.

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        Un servizio di video chat passato alla storia, dietro al quale c’è Nathan Myhrvold, genio dell’hitech che a poco più di 20 anni, fonda la sua prima startup, Dynamical System Research. Nel 1986 sviluppa un ambiente operativo che consente di usare più applicazioni contemporaneamente. Microsoft ne comprende il potenziale e acquista per 1,5 milioni di dollari e arruola pure Nathan, che per 13 anni scala posizioni fino a diventare CTO, mentre scrive un documento che cambia per sempre la vita della multinazionale di Bill Gates.

        Fonda una squadra speciale con l’ok di Gates

        Nathan, master in matematica ed economia a Princeton e un post dottorato a Cambridge, non possiede certo il profilo di chi entra in una grossa azienda in silenzio. Pronti-via… il primo incarico che gli viene affidato è di occuparsi dello sviluppo di tecnologia avanzata. Rileva una falla in azienda e scrive un corposo documento nel quale chiede a Bill Gates (al tempo Ceo di Microsoft) di creare una squadra speciale formata da ricercatori. Con l’ok di Gates nasce il Microsoft Research, per sviluppare progetti innovativi. Sono i primi mattoni di quello che oggi è un centro di ricerca nato nel 1991 con un gruppo di cinque persone e cresciuto fino a impiegare oggi oltre 1000 risorse, tra America, Europa e Asia.

        La nascita di Msn

        È il 24 agosto 1995 quando debutta uno dei primi prodotti che Microsoft decide di commercializzare: Microsoft Network, un insieme di servizi online. Due su tutti diventano subito popolari, Hotmail (per la posta elettronica). E Messenger, servizio di istant messaging. Oggi, nell’epoca di Whatsapp, l’idea fa un po’ sorridere. Ma ai tempi era rivoluzionario, in anni in cui i ragazzi possedevano cellulari con traffico prepagato, quando gli anni in cui sarebbe stato possibile inviare messaggi gratis erano molto lontani. Con Messenger potevi chattare, fare video, telefonate, con la tua lista di amici in Italia o all’estero. Tutto gratis. I trentenni che ci sono passati, i Millennials, lo ricordano molto bene.

        Con l’avvento di Facebook si inaugura una nuova era e il Web ne esce radicalmente trasformato. Messenger perde utenti, 48% l’anno. Mentre un altro software di messaggistica istantanea e voip, nato in Estonia, cresce a ritmi vertiginosi. Si chiama Skype e nel 2011 ha 663 milioni di utenti registrati a livello mondiale. Nel 2012 la decisione: Messenger confluisce in Skype che lo rimpiazza ufficialmente. E vengono chiusi anche i cosiddetti “space”, i blog, associati a ogni account. La fine di un servizio e di un’epoca.


        Il business attuale di Myhrvold è quello di fare soldi coi brevetti

        Il nome di Nathan Myhrvold negli ultimi anni è legato alla Intellectual Ventures, società che sviluppa, compra e vende brevetti per risolvere grosse sfide dell’umanità come epidemie e riscaldamento globale. Fondata nel 2000, l’azienda ha raccolto finanziamenti complessivi di 5,5 miliardi. Più investimenti da università come Stanford, con ricavi di 3 miliardi di dollari sulle licenze accumulate negli anni. Un vero e proprio dominio sul mercato dei brevetti: ne possiede circa 70 mila. In molti lo criticano ma lui risponde sereno: «Lo scopo dell’azienda è di investire in nuove invenzioni. Le grosse aziende che mi accusano di essere un troll sono solo ipocrite. Facciamo esattamente quello che fanno Microsoft, Apple, Facebook. Tutte comprano brevetti per rivenderli e guadagnarci».

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          Tech

          Se la sabbia entra nello smartphone: guida semiseria ai drammi tech sotto l’ombrellone

          Tra sabbia, crema solare, mare e selfie compulsivi, l’ecosistema tech rischia l’estinzione già a metà luglio. Ecco una guida per evitare che il tuo smartphone finisca in terapia intensiva, che il drone vada disperso nel bagnasciuga e che lo smartwatch si abbronzi al posto tuo.

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            Tra sabbia, crema solare, mare e selfie compulsivi, l’ecosistema tech rischia l’estinzione già a metà luglio. Ecco una guida per evitare che il tuo smartphone finisca in terapia intensiva, che il drone vada disperso nel bagnasciuga e che lo smartwatch si abbronzi al posto tuo.

            L’estate è il regno della leggerezza, delle infradito, dei cocktail col nome sbagliato. Ma è anche il periodo dell’anno in cui la tecnologia piange. Sotto l’ombrellone, infatti, ogni device è a rischio: sabbia, sole, salsedine e mani unte di crema diventano i peggiori nemici del nostro ecosistema digitale.

            Primo protagonista del disastro estivo: lo smartphone. Immortalare ogni momento della giornata — dal caffè shakerato all’ombrellone al tramonto con filtro vintage — è ormai obbligatorio. Ma basta una distrazione e la sabbia finisce ovunque: negli speaker, nei connettori, nel foro del microfono. Risultato: le foto diventano sfocate e Siri comincia a tossire.

            Poi c’è il tablet da spiaggia, usato per leggere, guardare serie o “lavorare” mentre gli altri fanno il bagno. Un sogno infranto alla prima ondata che lo colpisce in pieno o al primo bambino che inciampa rovesciando l’Estathé. Alcuni lo infilano dentro una busta trasparente con la zip, come il panino del pranzo. E lo trattano come tale.

            Lo smartwatch, invece, si comporta come un fitness coach troppo zelante: inizia a vibrare ogni tre minuti. “Alzati!”, “Respira!”, “Hai bruciato una caloria!” — mentre tu stai solo cercando di girarti sul lettino senza scioglierti. A fine giornata, avrà contato più passi il tuo polso che le tue gambe. E lui sarà l’unico ad avere il segno del costume.

            Passiamo al capitolo più tragico: il drone in spiaggia. Ogni anno, qualcuno decide di lanciare il proprio drone a caccia di riprese epiche. E ogni anno, almeno uno finisce o tra le onde o dentro il panino di un bagnante. Volano per dieci minuti, creano panico tra i gabbiani e poi si abbattono in slow motion sulla sabbia rovente, tra l’orrore generale e le risate dei vicini d’ombrellone.

            Menzione speciale ai caricabatterie solari, quei pannellini salvavita che promettono di ricaricare tutto col sole e invece riescono appena ad accendere una spia. Li metti al sole per ore, sperando nel miracolo. Ma dopo quattro ore hanno ricaricato il 3% del telefono e fuso la cover.

            Morale della favola? In spiaggia, la tecnologia va trattata con più attenzione di un bambino in età pre-svezzamento. O si rischia il blackout digitale. Oppure, soluzione radicale: lascia tutto a casa. Tanto, dopo dieci minuti, ti ritroverai a spiare i vicini. E quello è un reality che non si scarica mai.

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              Tech

              Cina, in arrivo il robot che “partorisce”: tra speranze e timori etici

              L’idea promette di aiutare le coppie sterili e superare la maternità surrogata, ma gli esperti mettono in guardia: replicare la complessità di una gestazione umana potrebbe rivelarsi impossibile.

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              robot incinto

                Potrebbe sembrare il copione di un film di fantascienza, e invece è realtà. In Cina, la startup Kaiwa Technology, fondata dal ricercatore Zhang Qifeng – dottore di ricerca alla Nanyang Technological University di Singapore. Ha annunciato di lavorare a un robot umanoide dotato di utero artificiale. L’obiettivo è ambizioso: permettere a un feto di crescere per nove mesi in un ambiente completamente artificiale e nascere in salute, senza bisogno del corpo materno.

                Il funzionamento, secondo i primi dettagli diffusi, prevede un “grembo” riempito di liquido amniotico sintetico. Nel quale il feto riceverebbe nutrienti attraverso un tubo collegato al cordone ombelicale. Il robot monitorerebbe costantemente i parametri vitali, fino al “parto”. Il primo prototipo, assicurano i promotori, potrebbe essere pronto già nel 2026, con un costo stimato di circa 100.000 yuan (12.000 euro).

                Il precedente scientifico non manca. Nel 2017, un team del Children’s Hospital di Philadelphia aveva fatto scalpore con la cosiddetta biobag, una sacca artificiale che permise a un agnello prematuro di sopravvivere e svilupparsi per alcune settimane. Quella tecnologia, però, si comportava come un’incubatrice avanzata: non era in grado di sostenere una gravidanza dall’inizio alla fine. Il progetto cinese punta invece a colmare proprio questa lacuna.

                La notizia ha scatenato un acceso dibattito sui social cinesi. Su Weibo l’hashtag dedicato al “primo robot che partorisce” è balzato in cima ai trend, tra entusiasmi e critiche. Alcuni commentatori hanno parlato di “svolta storica” per le coppie infertili e di una possibile emancipazione femminile, liberata dai rischi della gravidanza. Altri, invece, hanno definito l’idea “disumana” e contraria alla natura, sottolineando l’assenza del legame madre-figlio.

                Il contesto in cui nasce l’innovazione è significativo: in Cina l’infertilità è in aumento. Uno studio pubblicato su The Lancet nel 2022 ha rilevato che la percentuale di coppie senza figli è salita dall’11,9% nel 2007 al 18% nel 2020. Per molte famiglie, i costi elevati e i fallimenti frequenti della fecondazione assistita restano un ostacolo. In questo scenario, l’utero artificiale viene presentato come una possibile alternativa alla discussa maternità surrogata, vietata o limitata in molti Paesi, Italia compresa.

                Eppure, gli esperti invitano alla cautela. Replicare la gestazione umana non significa soltanto fornire nutrienti: ormoni, interazioni biologiche e legame psicologico tra madre e feto sono elementi impossibili da riprodurre in laboratorio. Il quotidiano britannico Telegraph ha raccolto l’opinione di medici che vedono nel progetto il rischio di “medicalizzare” un processo naturale, trasformandolo in un evento tecnologico e commerciale.

                Nonostante i dubbi, Zhang Qifeng e il suo team restano convinti: “Non vogliamo sostituire la maternità, ma offrire un’opzione a chi non può avere figli”. Se davvero l’utero artificiale integrato in un robot vedrà la luce, il confine tra progresso e inquietudine si farà sempre più sottile, aprendo scenari che finora appartenevano solo alla fantascienza.

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