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Musica

E’ di nuovo sfida aperta fra Beatles e Rolling Stones

I Fab Four sono stati candidati ai prossimi Grammy per due distinte categorie. Una notizia che fa parecchio effetto, visto che il quartetto si è sciolto nel 1970. La cosa più divertente è che per i premi sono in lista anche i Rolling Stones, loro eterni “rivali”.

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    Nella storia del rock si è assistito – nel corso degli anni – all’emergere (e talvolta al degenerare) di svariate rivalità tra band e musicisti. Una delle più appassionanti e controverse è sicuramente quella che vide come protagonisti i Beatles e i Rolling Stones. Da sempre contrapposti anche sul piano mediatico – i bravi ragazzi di Liverpool con i cattivi ragazzi degli Stones – i due gruppi avrebbero potuto coesistere tranquillamente, dati gli interessi divergenti. I Fab Four, infatti, ammiccavano al rock ‘n’ roll e a Elvis, mentre Jagger e compagni attingevano a piene mani dal blues ruvido e scuro.

    In realtà erano amici

    Nel 1963, addirittura,nasce un’amicizia tra le due band. In quell’anno infatti, Paul McCartney e John Lennon scrivono per la band britannica il brano I Wanna be Your Man. Se fino a quel momento gli Stones si erano affidati a cover e rivisitazioni di pezzi blues, con la spinta dei Fab Four guadagnarono un minimo di visibilità. Ma, evidentemente, non era sufficiente. Soprattutto per il loro manager Andrew Loog Oldham. La soluzione? La più ovvia: costruire a tavolino, in logica di marketing strategico, la famosa rivalità, della quale si parla ancora oggi.

    Una contrapposizione voluta dal marketing

    L’elemento più evidente era quello di carattere estetico. I Beatles si presentavano come i classici bravi ragazzi della porta accanto, sradicati dalle loro origini tutt’altro che elevate. Puliti e ordinati nei loro completi grigi tutti uguali e con quell’iconico taglio di capelli che farà storia. Gli Stones invece – che paradossalmente provenivano da un ambiente sociale più agiato di quello dei Fab Four – ricevettero il trattamento opposto da parte della stampa. Fu allora che Oldham – in cerca di un’ideal per dare maggior visibilità al gruppo – ebbe l’idea di contrapporli ai Beatles.

    Di nuovo gli uni “contro” gli altri

    Oggi, neanche il più fantasioso degli scrittori avrebbe potuto immaginare una trama nel quale i Beatles, scioltisi nel 1970, avrebbero ricevuto ben due nomination per i Grammy 2025, per le categorie Record of the year e Best rock performance. Ancora più bizzarro scoprire che in un’altra categoria affine (Best rock album), sono stati nominati anche i Rolling Stones, rinnovando quello che è stato consegnato alla storia come l’archetipo dei duelli musicali del rock.

    Una canzone per colmare un silenzio insostenibile

    Tutto questo dovuto a una serie di circostanze del tutto eccezionali. La prima è che gli Stones. ostinatamente, continuano ad esibirsi dal vivo pubblicando dischi, senza mai mollare il colpo, al di là di ogni prevedibile buon senso. La seconda riguarda l’incolmabile vuoto che i Beatles hanno lasciato nel grande mare della cultura pop, scioltisi all’apice della loro carriera, nel punto massimo della loro creatività, chiudendo la loro epopea con due album a dir poco strepitosi: Let It Be e Abbey Road. Cosa fare per cercare di rimediare a questo struggente silenzio?

    A febbraio sapremo

    Dopo lunghi ragionamenti ed esitazioni, Paul McCartney e Ringo Starr hanno deciso di rielaborare un inedito di John Lennon e trasformarlo in Now and then, singolo uscito alla fine del 2023 con grande clamore e pure qualche perplessità dovuta all’utilizzo dell’Intelligenza artificiale. Con questo scenario si arriva ai prossimi Grammy che saranno consegnati il 2 febbraio 2025. Dovessero vincere i Beatles, il tutto suonerebbe come un Oscar alla carriera, visto che un Grammy i ragazzi di Liverpool non l’hanno mai vinto. Una leggenda, quella di 4 ragazzotti innamorati del rock’n’roll che, a modo loro, hanno cambiato il mondo.

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      Musica

      Levante si definisce “sapiosessuale” e presenta il compagno Pietro Palumbo: «È un bonazzo, ma soprattutto un genio»

      Levante parla senza filtri del compagno Pietro Palumbo, avvocato, definendosi “sapiosessuale”. Ospite di Say Waaad?!? su Radio Deejay, la cantante spiega di essere attratta dall’intelligenza e dalla conoscenza: «Parliamo di filosofia e io rimango appesa come una babba». Intanto si prepara a tornare protagonista al Festival di Sanremo.

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        Levante ha deciso di dirlo chiaramente, con quella naturalezza ironica che le è sempre appartenuta: «Sono sapiosessuale». La frase, lanciata quasi con nonchalance durante un intervento a Say Waaad?!?, il programma di Radio Deejay, è bastata a far scattare il riflettore sul suo presente sentimentale. Accanto a lei c’è Pietro Palumbo, avvocato, compagno e – parole sue – «un bonazzo, ma anche un genio».

        La definizione che accende la curiosità
        Quando in studio le chiedono di spiegare cosa significhi davvero “sapiosessuale”, Levante non si sottrae. «Sapiosessuale è colui o colei che è attratto dalla conoscenza», chiarisce, togliendo subito ogni ambiguità. Non una posa, non una parola da dizionario sfoggiata per darsi un tono, ma una descrizione che sembra cucita addosso al suo modo di vivere le relazioni.

        E poi arriva la frase che sintetizza tutto con autoironia disarmante: «Parliamo di filosofia e io rimango appesa come una babba». Un’immagine che fa sorridere e che restituisce una Levante lontana da qualsiasi atteggiamento costruito, più interessata allo scambio mentale che all’apparenza.

        Pietro Palumbo tra fascino e cervello
        Il nome del compagno non è nuovo, ma è la prima volta che la cantante ne parla in modo così diretto e affettuoso. Pietro Palumbo, avvocato, viene descritto come una combinazione perfetta di fascino e intelligenza. «È un bonazzo», ammette senza troppi giri di parole, «ma anche un genio». Un mix che, a quanto pare, per lei fa decisamente la differenza.

        Non è solo una questione estetica, ma di stimoli, dialogo, curiosità. Un tipo di attrazione che Levante racconta come qualcosa di naturale, quasi inevitabile, soprattutto per chi vive di parole, pensiero e creatività.

        L’amore raccontato senza pose
        Il tono con cui Levante parla del suo compagno è leggero, mai compiaciuto. Nessuna dichiarazione roboante, nessuna retorica da copertina patinata. Piuttosto battute, autoironia e una sincerità che spiazza. Anche quando scherza su se stessa, lo fa per abbassare i toni e riportare tutto su un piano umano, quotidiano.

        La sua idea di coppia sembra passare più dalle conversazioni notturne che dai red carpet, più dai libri che dalle foto social. E questo, nel racconto, diventa quasi un manifesto personale.

        Verso Sanremo, con la testa (e il cuore) altrove
        Intanto Levante si prepara a tornare protagonista anche sul fronte musicale. La vedremo al Festival di Sanremo, palcoscenico che conosce bene e che negli anni l’ha vista crescere e trasformarsi. Ma, mentre il pubblico si interroga sulle canzoni e sulle performance, lei sembra vivere un momento di equilibrio privato, raccontato senza difese e senza filtri.

        Tra una battuta e l’altra, tra una riflessione filosofica e un sorriso, Levante consegna al pubblico un frammento della sua vita così com’è: imperfetta, ironica, colta e profondamente personale. E alla fine, con quella chiusura un po’ surreale, quasi sospesa, lascia tutto lì: sì, Natale…

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          Musica

          Eurovision 2026, il caso Israele divide l’Europa: cinque Paesi si ritirano, Nemo restituisce il trofeo

          Spagna, Paesi Bassi, Slovenia, Irlanda e Islanda annunciano il forfait in segno di protesta. L’Italia conferma la partecipazione, mentre il vincitore 2024 Nemo restituisce la statuetta come gesto simbolico contro la scelta dell’Unione radiotelevisiva europea.

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          Nemo restituisce il trofeo

            Il motto ufficiale è da anni “United by Music”, un invito all’unità attraverso le note. Eppure, la realtà che si presenta alla vigilia dell’Eurovision Song Contest 2026 è tutt’altro che unitaria. La decisione dell’European Broadcasting Union (EBU) di non escludere Israele dalla competizione, nonostante le richieste di diversi Paesi membri, ha spaccato l’organizzazione come raramente era accaduto nella sua lunga storia.

            Secondo fonti confermate dalla stessa EBU, la maggioranza degli Stati partecipanti ha votato a favore della permanenza di Israele in gara. Una scelta che ha scatenato immediatamente una reazione a catena: cinque Paesi – Spagna, Paesi Bassi, Slovenia, Irlanda e, per ultima, l’Islanda – hanno annunciato il loro ritiro dalla 70ª edizione del contest.

            L’Italia, invece, ha confermato ufficialmente la propria partecipazione nei giorni scorsi.

            Pioggia di forfait: le ragioni dei Paesi usciti

            Le motivazioni dei Paesi che hanno scelto di non presentarsi a Eurovision 2026 non sono identiche, ma seguono una linea comune: in un momento geopoliticamente teso, sostengono che la partecipazione di Israele rappresenti una presa di posizione incompatibile con lo spirito della manifestazione.

            Molti broadcaster pubblici coinvolti nei ritiri hanno sottolineato come l’evento musicale rischi di trasformarsi in un terreno di scontro politico, snaturandone la funzione originaria. Un tema già emerso in passato, ma che quest’anno esplode con forza nuova.

            Nemo, un gesto senza precedenti

            A dare ulteriore peso al dibattito è intervenuto anche Nemo, vincitore dell’Eurovision 2024 con il brano The Code. In un video diffuso sui social, l’artista svizzero ha annunciato la restituzione del trofeo conquistato a Malmö, una decisione dal forte valore simbolico, soprattutto perché la sede dell’EBU è proprio a Ginevra, nella sua Svizzera.

            In un messaggio pacato ma fermo, Nemo ha spiegato:
            «Sarò sempre grato alla comunità dell’Eurovision, ai fan che hanno votato e agli artisti con cui ho condiviso il palco. Ma sento il dovere di agire in nome dei valori che questa competizione dovrebbe rappresentare. La musica deve unire, non dividere».

            Un gesto che ha rimbalzato in tutta Europa, alimentando ulteriormente il dibattito sull’opportunità o meno di mantenere Israele in gara.

            Un contest sempre più politico?

            Eurovision Song Contest ha sempre dichiarato di voler rimanere un evento apolitico. Tuttavia, la sua dimensione internazionale e la visibilità globale lo rendono inevitabilmente al centro di tensioni geopolitiche. È già accaduto in passato con altri Paesi, dall’Ucraina alla Russia, ma raramente si era arrivati a un numero così elevato di ritiri.

            La stessa EBU, in un comunicato diffuso nei giorni scorsi, ha ribadito che la partecipazione di un Paese non implica una posizione politica da parte dell’organizzazione. Una linea già seguita in altre edizioni, ma che quest’anno sembra convincere sempre meno membri.

            Italia in bilico? Per ora no

            Mentre alcuni Paesi hanno scelto il boicottaggio, l’Italia – storico protagonista della competizione – ha confermato la propria presenza. La Rai ha dichiarato che continuerà a monitorare la situazione, allineandosi comunque alle decisioni prese a livello europeo.

            Per ora, dunque, l’Italia resta tra i partecipanti, ma il contesto resta fluido e potrebbe evolversi nelle prossime settimane.

            Un futuro incerto per il contest

            A pochi mesi dall’evento, l’Eurovision 2026 appare già segnato da tensioni e strappi. L’immagine di cinque Paesi ritirati e di un vincitore che restituisce il trofeo non è certo quella che la manifestazione avrebbe voluto dare nell’anno del suo 70° anniversario.

            Resta da capire se altri Stati sceglieranno di unirsi al boicottaggio o se, al contrario, la crisi si ricomporrà. Una cosa è certa: l’edizione del 2026 sarà ricordata non solo per la musica, ma soprattutto per il dibattito politico e morale che ha acceso l’Europa.

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              Musica

              Noa richiama tutti alla pace da Castel Gandolfo: “Ascoltate il Papa, ognuno deve impegnarsi in ogni modo possibile”

              A Castel Gandolfo Noa ha ricevuto il Peace Award nell’ambito della prima edizione dell’Hallelujah Film Festival – Simposio Internazionale della Pace. Dal palco l’artista israeliana ha rilanciato con forza l’appello del Papa, invitando tutti a impegnarsi concretamente per la pace. Un messaggio netto, pronunciato in un contesto simbolico e carico di significato.

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                Un palco simbolico, un riconoscimento dal forte valore etico e parole che non lasciano spazio a interpretazioni. A Castel Gandolfo, Noa ha scelto la via della chiarezza. «Ascoltate il Papa. Tutti dobbiamo impegnarci per la pace, in ogni modo possibile». Un appello pronunciato con voce ferma dall’artista israeliana, ospite d’onore del nuovo Hallelujah Film Festival – Simposio Internazionale della Pace.

                Il Peace Award e il significato del riconoscimento
                Noa ha ricevuto il Peace Award, un premio dedicato all’impegno nella promozione della pace, assegnato nell’ambito della prima edizione del festival. Non un semplice riconoscimento artistico, ma un attestato che tiene insieme musica, testimonianza civile e responsabilità pubblica.

                Per Noa, da anni impegnata su questi temi, il premio rappresenta la conferma di un percorso coerente. La sua voce, da sempre ponte tra culture, diventa qui strumento esplicito di dialogo, in un momento storico segnato da conflitti, polarizzazioni e tensioni che superano i confini geografici.

                Castel Gandolfo, luogo e simbolo
                La scelta di Castel Gandolfo non è casuale. Un luogo carico di spiritualità, legato alla figura del Papa, che rafforza il senso dell’appello lanciato dall’artista. Richiamare le parole del Pontefice in questo contesto significa dare continuità a un messaggio che supera le appartenenze politiche e religiose.

                Noa non entra nel merito delle singole crisi, ma punta al cuore del problema: la responsabilità individuale e collettiva. Il suo invito non è astratto, ma diretto: la pace non è una delega, è un impegno che riguarda tutti.

                L’Hallelujah Film Festival e il Simposio della Pace
                Il riconoscimento è stato consegnato nell’ambito dell’Hallelujah Film Festival – Simposio Internazionale della Pace, evento alla sua prima edizione. Il festival è stato fondato da Pascal Vicedomini e promosso dall’associazione senza scopo di lucro The Artists Club Italia.

                L’iniziativa ha preso il via sabato 6 dicembre, con l’obiettivo dichiarato di unire cinema, arte e riflessione sui grandi temi contemporanei. Un format che ambisce a creare uno spazio di confronto internazionale, dove la cultura diventa strumento di mediazione e consapevolezza.

                La voce di Noa tra arte e impegno civile
                Nel suo intervento, Noa ha scelto un registro sobrio ma incisivo. Nessuna retorica, nessuna concessione allo slogan facile. L’artista ha parlato da cittadina prima ancora che da musicista, ribadendo la necessità di ascoltare chi, come il Papa, continua a richiamare il mondo alla responsabilità morale.

                Il suo messaggio si inserisce in una linea chiara: l’arte non può essere neutra di fronte alla sofferenza e alla guerra. Senza trasformarsi in propaganda, può e deve diventare spazio di dialogo e presa di coscienza.

                Un appello che va oltre il palco
                Le parole pronunciate a Castel Gandolfo non sono destinate a restare confinate all’evento. L’invito a impegnarsi “in ogni modo possibile” chiama in causa istituzioni, artisti, cittadini comuni. È un messaggio che chiede azione, non consenso passivo.

                In un’epoca in cui le prese di posizione vengono spesso filtrate, annacquate o strumentalizzate, Noa sceglie una strada lineare. Ascoltare il Papa, lavorare per la pace, assumersi una responsabilità personale.

                Cultura come spazio di dialogo
                Il debutto dell’Hallelujah Film Festival e il conferimento del Peace Award a Noa segnano un tentativo chiaro di rimettere la cultura al centro del discorso pubblico. Non come intrattenimento, ma come luogo di confronto e costruzione.

                Il messaggio lanciato da Castel Gandolfo arriva forte e diretto: la pace non è un concetto astratto, ma una pratica quotidiana. E chi ha una voce pubblica, come Noa, sceglie di usarla senza ambiguità.

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