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Televisione

Luca Marinelli sarà il Duce in “M – Il figlio del secolo”, nel 2025 su Sky

Uno degli attori più talentuosi dell’attuale panorama cinematografico di casa nostra, in cerca di un’affermazione a livello internazionale. L’interpretazione di Benito Mussolini, che vedremo nel 2025, potrebbe rivelarsi l’occasione perfetta.

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    Attore sempre più in ascesa nel panorama italiano, Luca Marinelli, interpreta il ruolo di Benito Mussolini in M – Il figlio del secolo, attesissima serie tv sul “Duce”, tratta dal fortunatissimo romanzo firmato da Antonio Scurati.

    Un best seller in libreria

    M – Il figlio del secolo è stato uno dei romanzi di maggiore successo del 2018, diventato ben presto un best seller. E proprio grazie a quest’opera il suo autore, Antonio Scurati, ha vinto anche il Premio Strega. Dal romanzo è ora stata tratta un’omonima serie TV, scritta da Stefano Bisex e da Davide Serino e diretta da Joe Wright, che va in onda su Sky e in streaming su Now TV.

    Il cast

    Luca Marinelli, attore italiano molto apprezzato, ha recitato anche il Lo chiamavano Jeeg Robot, Diabolik, Martin Eden, interpretando pure la figura del cantautore genovese Fabrizio De Andrè sul piccolo schermo in una fiction, oltre a tanti altri film di grande successo. Gli manca solo una consacrazione a livello internazionale e questa interpretazione potrebbe rappresentare la “volta buona”. Per sostenere il ruolo ha preso un bel po’ di chili, si è imbruttito, si è fatto rasare e poi ha regalato un Benito Mussolini titanico, insaziabile, vorace, fragile e ingordo. Ad oggi, senza ombra di dubbio, la sua migliore interpretazione in carriera. Insieme a lui, il cast annovera Francesco Russo, Barbara Chichiarelli, Benedetta Cimatti, Federico Majorana, Lorenzo Zurzolo, Federico Mainardi, Maurizio Lombardi e Gianmarco Vettori.

    Benito privato

    La serie darà modo ai telespettatori di conoscere, oltre alla storia del personaggio dei libri di storia, una serie di aspetti più privati della vita di Duce. Chiarendo nel dettaglio i chiacchierati rapporti con la moglie Rachele, insieme ai dettagli della sua relazione con l’amante Margherita Sarfatti, oltre a svariate figure storiche dei primi anni del ‘900.

    Quando e dove sarà in tv

    La serie andrà in onda sulla piattaforma Sky a partire da venerdì 10 gennaio 2025. Oltre che su Sky, la serie tv basata sui romanzi di Antonio Scurati potrà essere vista anche in streaming su Now TV.

    La trama

    Gli episodi racconteranno l’avvento del fascismo in Italia: si parte dalla fondazione dei Fasci Italiani nel 1919 e si arriva al discorso tenuto da Benito Mussolini nel 1925 dopo l’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti.

    Parla il regista Joe Wright

    “Portare sullo schermo un romanzo come M – Il figlio del secolo rappresenta una sfida incredibile. Spero di essere riuscito a restituire le luci e le ombre di un periodo storico e di un personaggio che, nel bene e nel male, hanno definito un’intera era” ha spiegato il regista Joe Wright.



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      Televisione

      40 anni di Quelli della Notte: la meglio gioventù della televisione che fu

      Renzo Arbore racconta la genesi dello show che cambiò per sempre la TV italiana, debuttando il 29 aprile 1985. Un programma irripetibile, fatto di voci sovrapposte, nonsense, provocazioni e cultura pop. Capace di diventare cult in appena 32 puntate.

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        «L’idea di questo esperimento mi venne pensando al caos delle riunioni di condominio, ma anche alle conversazioni scombiccherate di noi nottambuli», confessa Arbore. Nessuna sceneggiatura, solo intuizione, ritmo e improvvisazione. Una jam session della parola, come le jam session del jazz, dove tutto è lecito e ogni voce trova il suo spazio. Un salotto volutamente disordinato, che ironizzava sulla forma e sul contenuto.

        Personaggi iconici: da Ferrini a Catalano, da Marchini a D’Agostino

        La forza dello show stava nei suoi protagonisti, caricature geniali nate da esperienze reali. Maurizio Ferrini era il “comunista romagnolo” che s’inventò il muro di Ancona, una satira ante litteram sulla divisione Nord-Sud. Simona Marchini, con i suoi gossip telefonici, fu la prima a portare il pettegolezzo in TV. Roberto D’Agostino, invece, introdusse il pubblico all’edonismo reaganiano e alle letture di Milan Kundera, anticipando il trionfo della tuttologia.

        Poi c’era Nino Frassica, alias frate Antonino da Scasazza, con la sua comicità surreale e “swingata”. Massimo Catalano, filosofo dell’ovvio, incarnava il trionfo dell’aforisma banale. Riccardo Pazzaglia, invece, recitava il ruolo dell’intellettuale sconfitto, in un perenne confronto con la banalità dilagante. Marisa Laurito cercava Scrapizza, l’amore assente: una moderna Penelope della commedia televisiva.

        Andy Luotto e la censura Andreottiana

        Tra le storie più emblematiche, quella di Andy Luotto, l’arabo ispirato da un viaggio in Giordania. La sua interpretazione, amata da molti ma criticata da alcuni ambienti arabi, portò persino a un intervento diplomatico. «Un vicedirettore Rai mi telefonò e disse che era stato chiamato da Andreotti a nome del re di Giordania». E così il personaggio fu cancellato.

        L’eredità di Quelli della Notte e la TV di oggi

        Arbore osserva la TV contemporanea con un certo disincanto. «Guardo la televisione improvvisata nella sua versione seria: i talk politici, dove ognuno dice la sua». Ma la magia di Quelli della Notte resta unica, irripetibile: un laboratorio creativo che ha trasformato il linguaggio televisivo, anticipando i meme, le dirette social, l’ibridazione dei generi.

        Dopo 4 decenni è ancora un cult

        Quelli della Notte non è stato solo un programma: è stato uno specchio deformante del Paese, un circo della parola che ha saputo raccontare l’Italia con ironia e lucidità. Quarant’anni dopo, la sua lezione di libertà espressiva e improvvisazione rimane intatta. Una rivoluzione notturna che ha lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva.

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          Televisione

          Chef Cracco: lasciare Masterchef? E’ stata un’ottima scelta

          Basta con i talent, lo chef vicentino è tornato con grande entusiasmo a pieno regime in cucina. Unica disgressione su Prime Video con Dinner Club, che però è un programma di intrattenimento vero.

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            Quando si dice Carlo Cracco si pensa alla tv. Ancora meglio… a Masterchef, il talent show culinario di cui è stato giudice per le prime sei stagioni nell’edizione italiana. Poi, nel 2017, l’addio a sorpresa. Che oggi giudica positivamente: «È stata un’ottima scelta», ha confessato al podcast Passa dal Bsmt di Gianluca Gazzoli. «Sono tornato a quello che mi piace di più», cucinare.

            Ora al volante di Dinner Club

            Anche se il piccolo schermo è rimasto nel cuore del cuoco vicentino, che infatti dal 2021 è tornato sul piccolo schermo con Dinner Club, un programma di Prime Video in cui lo chef viaggia per tutta l’Italia alla riscoperta delle tradizioni più autentiche, in compagnia di ospiti vip: «La tv mi piace sempre. E Dinner Club non è un programma di cucina, ma intrattenimento».

            La genesi del suo personaggio da critico intransigente

            Come si diventa giudici di Masterchef? Il racconto di Carlo Cracco che risponde a questo questito è piuttosto singolare, anche perché ci svela l’origine del suo personaggio da giudice severo e intransigente. «Masterchef lo conoscevo già perché all’estero era molto conosciuto, però da noi nessuno ci credeva più di tanto», ha raccontato ricordando del suo provino nel 2011. «Mi misero davanti una ragazza, che era una segretaria, con un cannolo siciliano e mi dissero: prova a giudicare. In fondo alla stanza avevo gli autori e pochi altri. E io ho pensato: se faccio quello gentile forse mi prendono, per cui faccio l’opposto, faccio il maleducato. Comincio a essere duro, ci sono andato giù pesante». La reazione dei produttori è inaspettata: «Ho alzato gli occhi e ho visto la gente esultare. Alla fine sono uscito e mi hanno detto: “Preso”. Poi abbiamo iniziato».

            L’obiettivo era di lanciare qualche talento con Hell’s Kitchen

            Da lì il personaggio si cristallizza: «Cercavo di autogiustificarmi, nel senso che cercavo di essere corretto ma di tenere il punto». L’obiettivo, però, era chiaro: «Mi interessava che qualcuno venisse fuori». E in quest’ottica le maggiori soddisfazioni le ha ricevute da Hell’s Kitchen, altro talent culinario: «Il vincitore della prima edizione (Matteo Grandi, ndr), per esempio, possiede una stella Michelin. Ci sono tantissimi ragazzi di quelli che sono usciti da lì che hanno posizioni importanti», ha aggiunto con orgoglio.

            Tutta finzione

            «A Hell’s Kitchen era divertente, era completamente finto. Delle volte ridevo della mia cattiveria». Infatti, come ha ben spiegato, in cucina alla fine non c’è mai cattiveria: «Si può essere severi al massimo, ci può essere durante della tensione durante il servizio. Ma poi pensi a recuperare e cerchi di aiutare. Magari il linguaggio è duro ma ci si ferma lì».

            La fama difficile da gestire

            Da Masterchef e dalla cucina è arrivata la fama, una brutta bestia «difficile da gestire»: «Cerchi di venirne fuori, ci ho messo un po’». Ma dalle stelle si può sempre cadere, come ha fatto lo stesso Cracco che nel 2021 quando ha perso una stella Michelin: «Perderla fa parte dell’esperienza, è sempre formazione. Però non è che abbandoni il tuo lavoro, anzi, lo fai ancora meglio». Il segreto è «essere convinto di quello che fai. Se viene bene, se non viene è uguale». Anche perché Masterchef ormai è un ricordo lontano: «Ormai per me non è più una gara. Tu devi lavorare perché sai lavorare bene e puoi servire come esempio per i ragazzi che lavorano con noi»

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              Televisione

              Il capitolo conclusivo di Squid Game 3 chiude nel segno del sacrificio

              Squid Game 3 segna il punto di arrivo di una delle narrazioni più sconvolgenti e innovative della TV contemporanea. La terza e ultima stagione della serie coreana creata da Hwang Dong-hyuk è un concentrato di tensione, violenza simbolica e dramma etico. Sei episodi intensi, ambientati in un’arena sempre più spietata, che chiudono la trilogia con coraggio e profondità, portando il pubblico davanti a una domanda cruciale: fin dove siamo disposti a spingerci per sopravvivere, e a quale costo?

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                La narrazione riparte da dove si era interrotta: Gi-hun (Lee Jung-jae), il protagonista assoluto della saga, è di nuovo nel gioco. Ma non è più lo stesso uomo. Non cerca la vittoria: cerca vendetta, redenzione, giustizia. I giochi si fanno più crudeli e simbolici, mentre nuove figure – tra cui la determinata Jun-hee (Jo Yu-ri) e l’enigmatica Geum-ja (Kang Ae-shim) – portano il peso di drammi personali e morali. Il Front Man (Lee Byung-hun), sempre più figura tragica, si scontra con la determinazione di chi ha perso tutto. Il risultato è una tensione crescente che esplode in un epilogo dal sapore agrodolce.

                Il cuore della stagione? Le scelte morali

                In Squid Game 3 non ci sono eroi, né cattivi assoluti. Solo esseri umani spinti al limite. La terza stagione rinuncia all’effetto sorpresa per concentrarsi sull’interiorità dei personaggi: ogni prova, ogni dialogo, ogni morte serve a esplorare la fragilità della dignità umana. Il regista abbandona la pura spettacolarizzazione della violenza per mettere in scena una riflessione disturbante sulla libertà, il potere e la colpa. Un messaggio chiaro: quando il gioco si fa mortale, la vera sfida è non perdere se stessi.

                Interpretazioni potenti e personaggi finalmente sfaccettati

                Tra i maggiori punti di forza della stagione finale c’è la qualità delle interpretazioni. Jo Yu-ri offre un’intensa performance nei panni di Jun-hee, trasformando il suo personaggio in una figura di resilienza e coraggio. Ma è Kang Ae-shim, nei panni di una madre in cerca di perdono, a regalare il momento più toccante dell’intera trilogia. Anche i personaggi più ambigui, come Myung-gi (Im Si-wan) e Nam-gyu (Roh Jae-won), ricevono un trattamento narrativo maturo, che li rende verosimili, imperfetti, dolorosamente umani.

                Un’eredità difficile da dimenticare

                Con questa terza stagione, Squid Game si conferma come una delle opere più coraggiose mai prodotte da Netflix. La serie chiude il suo arco narrativo senza cedere alla facile spettacolarizzazione e scegliendo invece una conclusione etica e coerente. La trilogia si trasforma così in una parabola tragica sulla natura umana, destinata a lasciare il segno nel pubblico e nella cultura pop.

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