Calcio
Antonio Conte e la solitudine del leader
Il tecnico che ha portato il Napoli al tricolore si confessa: «Sono rassegnato a essere solo, ogni decisione tocca a me». Dall’ossessione per il lavoro ai sacrifici privati, fino al legame con la figlia Vittoria: un ritratto inedito del “sergente di ferro”.

Per una volta, Antonio Conte si lascia guardare senza corazza. Niente lavagne tattiche, niente sfuriate da spogliatoio. Solo lui, la sua storia, le sue crepe. Il libro Dare tutto, chiedere tutto, scritto con Mauro Berruto e edito da Mondadori, è molto più di una raccolta di ricordi sportivi: è un ritratto sincero, umano, persino vulnerabile di un uomo che ha fatto del rigore una religione.
Il momento più toccante arriva quando parla della figlia: «La rinuncia più grande è stata non vedere tutte le fasi della sua crescita», confessa. Una frase che pesa più di una finale persa. Perché, come racconta nell’intervista a 7, il settimanale del Corriere della Sera, Conte ha barattato la vita privata con quella professionale. E non sempre ha vinto.
La sua è la storia di un uomo abituato a prendere tutto sulle spalle. «Un allenatore deve essere solo», dice. «Ha uno staff, certo. Si confronta, ascolta. Ma alla fine le decisioni toccano solo a lui, nel bene e nel male». Una solitudine scelta, necessaria, forse anche amata. Ma pur sempre solitudine.
Conte ripercorre gli anni alla Juventus, al Chelsea, all’Inter, alla guida della Nazionale. Ricorda l’inizio difficile, quell’articolo sulla Gazzetta che lo stroncò alla prima da titolare. E Trapattoni che, invece di mollare, lo incoraggiò. È lì che nasce il metodo Conte: fatica, disciplina, limiti da superare. Sempre.
«Mi chiamano sergente di ferro», ammette. Ma la verità è che lui per primo si sottopone a regole durissime. Racconta anche l’episodio al Chelsea, l’unica volta in cui provò ad allentare la morsa per rispetto verso una cultura diversa. «Andò male», dice secco. Da lì, una decisione irrevocabile: «Mai più compromessi».
E oggi, mentre il suo Napoli festeggia il tricolore, Conte guarda avanti. I rapporti con De Laurentiis, a tratti ruvidi ma schietti, hanno trovato un nuovo equilibrio. E il futuro, per ora, resta azzurro.
Nel backstage delle foto con la figlia Vittoria per l’intervista a 7, c’è un Conte nuovo. Un padre, più che un allenatore. Un uomo che, per la prima volta, sembra davvero aver tolto la divisa da sergente.
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Calcio
Antonio Cassano contro Salt Bae: “880 euro per una bistecca? Mai più nel suo ristorante!”
Da 4 antipasti e una bistecca a un conto da 880 euro. La disavventura di Cassano nel ristorante di Salt Bae in Grecia strappa risate in studio e diventa un cult online.

Antonio Cassano continua a essere il protagonista assoluto di Viva El Futbol, il programma streaming condotto insieme a Lele Adani e Nicola Ventola, dove il calcio si mescola spesso a episodi di vita quotidiana. Nella puntata di ieri, l’ex calciatore ha raccontato un episodio che ha fatto ridere fino alle lacrime i suoi compagni di trasmissione.
Si parla di Nusret Gökçe, meglio noto come Salt Bae, celebre chef turco famoso per la teatralità con cui sparge il sale sulle sue pietanze. Cassano ha ricordato una visita nel ristorante di Salt Bae in Grecia, insieme alla sua famiglia: “Abbiamo preso quattro antipasti di carne e una bistecca grande da dividere in quattro”. Fin qui tutto normale, ma la sorpresa è arrivata con il conto.
“Ci hanno portato un conto di 880 euro,” ha raccontato Cassano tra risate e stupore. “Chiamo il cameriere e gli dico: amico, mi sa che hai sbagliato.” Ma no, il conto era giusto: “220 euro a testa per quello che abbiamo mangiato.”
Il racconto ha scatenato l’ilarità di Adani e Ventola, ma la battuta finale di Cassano ha rubato la scena: “Quando in inglese ci hanno chiesto come ci siamo trovati, ho risposto: benissimo, ma non ci verremo mai più!”
Una storia che si aggiunge alla lunga lista di commenti spontanei e taglienti che hanno reso Cassano una delle voci più genuine e divertenti del panorama sportivo e non solo.
Calcio
Carlos Cuesta, il baby allenatore che fa tremare la Serie A
Ha 29 anni, un viso da studente modello e zero presenze in panchina da primo allenatore. Eppure sarà lui, Carlos Cuesta, a guidare il Parma nella prossima Serie A. Un azzardo? Forse. Ma anche un segnale forte: il calcio italiano, ogni tanto, sa sorprendere.

Cuesta sarà il più giovane tecnico della storia recente del campionato da quando esiste il girone unico. Un record che ha il sapore della rivoluzione, e che racconta una carriera cominciata in modo bizzarro: niente passato da professionista, solo tanta ostinazione e un tweet, quello che gli aprì le porte dell’Atlético Madrid. “Se hai bisogno di uno che ti sistemi i coni, io ci sono”, scrisse a un allenatore delle giovanili. Era il 2012. Fu chiamato.
Da lì, una salita rapida: studi universitari in Scienze motorie a Madrid, uno stage alla Juve Under 17 (grazie all’intuito di Cherubini), poi l’incontro chiave con Mikel Arteta, vice di Guardiola al City e oggi tecnico dell’Arsenal. Proprio ai Gunners Cuesta è diventato uno dei collaboratori più ascoltati, curando lo sviluppo individuale dei giocatori. Non male per un ragazzo di Maiorca che sognava panchine mentre altri inseguivano gol.
Il presidente del Parma Kyle Krause ha deciso di scommettere su di lui offrendogli un biennale da un milione a stagione. Una scelta che ha fatto alzare più di un sopracciglio, ma che Cuesta si è guadagnato con lavoro, metodo e quella che molti chiamano “ossessione per i dettagli”.
In Spagna ha preso il patentino Uefa Pro nel 2023, grazie a un sistema più flessibile del nostro: in Italia, per accedere al corso, bisogna avere almeno 32 anni. Fosse stato italiano, paradossalmente, non avrebbe potuto sedersi su quella panchina.
Le sue idee? Calcio propositivo, costruzione dal basso, dominio del possesso. Ma anche empatia e ascolto: “Ci capisce perché è giovane come noi”, raccontava Tavares, oggi alla Lazio. La sua forza sta anche lì.
C’è chi lo paragona a Mourinho, anche lui senza passato da calciatore, ma con carisma e visione. Cuesta invece è il ragazzo educato, maniacale, che non alza mai la voce ma entra nella testa dei suoi giocatori. L’Italia lo guarda con curiosità, qualcuno con scetticismo. Ma intanto, a Parma, hanno già puntato tutto su di lui. E forse, per una volta, è bello che a fare notizia non sia un ritorno, ma un inizio.
Calcio
Inzaghi, la testa era già in Arabia: l’Al-Hilal lo smaschera dopo la debacle di Monaco
Esteve Calzada, amministratore delegato dell’Al-Hilal, racconta alla BBC che l’arrivo di Simone Inzaghi era già deciso prima della finale di Champions. Il tecnico avrebbe chiesto di rimandare l’annuncio per non destabilizzare la squadra. Intanto l’Inter incassava cinque gol dal Paris Saint-Germain. E ora i tifosi si sentono traditi

Altro che scelta maturata dopo la sconfitta. Simone Inzaghi era già dell’Al-Hilal prima ancora di scendere in campo a Monaco. E mentre i tifosi dell’Inter cercavano consolazione dopo il pesantissimo 5-1 inflitto dal Paris Saint-Germain in finale di Champions League, dalla BBC arriva la conferma che brucia: il tecnico piacentino aveva la testa già tra i petrodollari.
A far esplodere la notizia è Esteve Calzada, amministratore delegato del club saudita, che con dichiarazioni tutt’altro che ambigue mette fine a ogni alibi: «Era già tutto deciso. Simone ci ha solo chiesto di aspettare a firmare, per rispetto della partita e della squadra. Non voleva influenzare l’ambiente prima della finale».
Una richiesta di stile? Forse. Un’ammissione di colpa? Sicuramente. Perché quella frase – “era già tutto deciso” – vale più di mille comunicati stampa. E smentisce apertamente la versione fornita dallo stesso Inzaghi, che solo pochi giorni fa aveva sostenuto di aver accettato l’offerta saudita “dopo la finale”, quando il suo ciclo con l’Inter poteva dirsi concluso.
I dubbi, in realtà, c’erano da settimane. L’insistenza con cui il suo entourage glissava sulle voci dall’Arabia, la lentezza sospetta nel definire il suo futuro con i nerazzurri, e poi quel silenzio post-finale. La sconfitta bruciante contro Mbappé e compagni sembrava aver segnato la fine di un percorso, non solo sportivo ma anche emotivo. Ora, però, i conti non tornano. Perché se il tecnico aveva già deciso di voltare pagina, quanto ha influito questa scelta sull’umore, la tensione e la prestazione della squadra a Monaco?
I tifosi se lo chiedono, e le risposte – amarissime – iniziano ad arrivare. In campo, l’Inter è apparsa stanca, disunita, spenta in modo inspiegabile per una finale di Champions. Una squadra smarrita, con la testa altrove. Ora si scopre che non era l’unica testa altrove: anche quella dell’allenatore era già proiettata a Riyad, verso un contratto plurimilionario, una nuova vita e, per qualcuno, un addio senza onore.
«Potrebbe sembrare qualcosa di improvviso – ha detto ancora Calzada – ma è il frutto di un lungo lavoro». Parole che lasciano poco spazio all’interpretazione. Inzaghi era già stato scelto da settimane, probabilmente mentre l’Inter affrontava le semifinali con grinta e speranza. Eppure, per correttezza apparente, ha chiesto che tutto venisse messo in pausa. Non cancellato, solo messo in pausa.
Ora il puzzle si compone. L’Al-Hilal cercava un profilo internazionale, un tecnico europeo con curriculum solido e temperamento pacato. Inzaghi, da finalista di Champions e vincitore di Supercoppe e Coppa Italia, rappresentava il nome perfetto. Meno ingombrante di un Mourinho, meno costoso di un Klopp, ma con sufficiente esperienza da gestire uno spogliatoio di stelle, da Neymar a Koulibaly.
Il futuro del tecnico, intanto, è già scritto. Un triennale sontuoso e la promessa di un ruolo centrale nella crescita del calcio saudita. Ma il suo passato, quello interista, ora si scolora sotto una luce meno romantica. Le lacrime a fine gara, le mani giunte verso la curva, la panchina vuota e il saluto accennato: tutto rischia di sembrare una messinscena. Anche se fosse stato solo un tentativo di tenere tutto insieme fino all’ultimo.
Nel frattempo, i tifosi dell’Inter si interrogano. Sapevano che Inzaghi se ne sarebbe andato, ma speravano almeno che fosse fino in fondo “uno di loro”. Invece no. Era già altrove. E a Monaco, forse, si è giocato qualcosa di più di una semplice finale persa. Si è perso un legame. Si è spezzata un’illusione.
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