Sic transit gloria mundi
Conte e la disfatta in Liguria: dai diktat su Renzi alla vendetta (silenziosa) di Grillo
In una delle sue roccaforti storiche, il Movimento 5 Stelle subisce il contraccolpo di una guerra interna mai così aspra. La campagna anti-Renzi e il siluramento di Grillo hanno lasciato il segno: il M5S esce dall’ennesima sconfitta con il fiato corto e una leadership sempre più traballante.

Il Movimento 5 Stelle non ne azzecca più una. Non ce l’ha fatta neppure in Liguria, una delle regioni dove affondano le radici grilline, la terra dove si è generata la scintilla iniziale del Vaffa da cui è poi nato il M5S. Ed è proprio lì, a casa di Beppe Grillo, che si consuma la beffa per Giuseppe Conte che, nel mezzo del suo braccio di ferro con l’Elevato, ha deciso di fare di testa propria. E che dire del suo veto sui renziani, una mossa che di certo non ha portato fortuna. Risultato? M5S sotto al 5%, un crollo drastico rispetto ai risultati delle europee, dove aveva preso oltre il doppio.
Un messaggio chiaro per l’ex premier, che ha preferito rinunciare ai voti di Italia Viva e ora deve fare i conti con un Movimento che, almeno in Liguria, sembra non rispondere più ai suoi comandi.
Giuseppe Conte esce da queste elezioni regionali con numeri decisamente ridimensionati e con una serie di problemi che affondano le radici ben oltre la performance elettorale. Un tracollo che suona tanto come una sconfitta personale per l’ex premier: il suo “no a Matteo Renzi” era una mossa tattica studiata per compattare l’elettorato grillino, ma ha finito per spaccare più che unire. Conte ha escluso i voti renziani, ma non è riuscito a garantire neppure quelli “di casa sua”, non riuscendo a convincere nemmeno l’anima più storica e radicata del Movimento.
Conte ora è nel mirino non solo degli avversari storici della destra, ma anche di quelle frange interne al centrosinistra che guardano con crescente freddezza alla sua leadership, specie tra le figure influenti del Partito Democratico. Pur rimanendo formalmente alleati nella coalizione, alcune posizioni di Conte hanno incrinato la fiducia tra i partiti, generando tensioni che minano l’unità del campo largo.
La scelta di imporre la linea sui renziani, accettata a denti stretti dal PD, ha creato dissapori che hanno iniziato a logorare i rapporti tra gli alleati, aggravando ulteriormente la posizione dei pentastellati. Un’alleanza che oggi sembra sempre meno solida e che per i democratici comincia ad assomigliare a una politica di isolamento più che di costruzione.
D’altro canto, la disfatta in Liguria è avvenuta sotto gli occhi attenti di Beppe Grillo, appena “licenziato” da Conte e poco intenzionato a tacere di fronte a quello che giudica uno stravolgimento degli ideali originari del Movimento. Nelle ultime settimane, Grillo si è mosso con passo indipendente, apparendo persino accanto a Marco Bucci, candidato del centrodestra, e scegliendo di non votare per Andrea Orlando, rappresentante del campo progressista. Una mossa che ha il sapore di una precisa provocazione, un chiaro messaggio contro la direzione presa dai pentastellati di Conte.
Come se non bastasse, poche ore prima del voto, il fondatore del Movimento ha rilasciato un video in cui attaccava duramente il metodo di selezione dei candidati, bollandoli come “catapultati dall’alto” e liquidando il meccanismo come “bassa democrazia”, un velenoso rimando al passato pre-grillino. L’attacco di Grillo non è solo politico, ma anche ideologico, e pesa come una pietra su un risultato già amaro: una richiesta di “estinzione” del Movimento, almeno come l’abbiamo conosciuto finora.
Conte è nel mirino, insomma, non solo da parte di elettori insoddisfatti e dall’opinione pubblica, ma anche della stessa base grillina, che fatica a riconoscersi in un progetto sempre più lontano dall’idea originaria. L’ex garante del Movimento torna ora sulla scena attraverso alleanze laterali, come quella con Nicola Morra, un altro volto storico legato all’anima grillina più radicale. Morra ha sfiorato l’1%, erodendo il già esiguo bacino di voti dei 5 Stelle e sottraendo quelle manciate di consensi che avrebbero potuto sostenere il candidato unico del centrosinistra, Orlando.
Un duro colpo che il PD, però, ha reso meno amaro ottenendo il 28,4% dei voti complessivi e risultando primo partito: insomma, ha fatto i suoi compiti. Mentre la performance dei pentastellati ha fatto crollare tutto il castello! Così l’Avvocato del Popolo si ritrova oggi, politicamente, con più critiche che supporto. Chi, nel centrosinistra, aveva scommesso su un Conte pacificatore, abile nel tenere insieme le fila di una grande coalizione, guarda ora con sempre maggiore scetticismo alla sua gestione.
L’ex premier dovrà ora fare i conti non solo con la debacle elettorale, ma con un processo di revisione interna che potrebbe essere appena all’inizio. La sua leadership appare minacciata da chi, come Grillo, è disposto a rivendicare le sue scelte e a criticarlo anche dall’esterno, mettendo in luce le debolezze di una dirigenza che si è forse spinta troppo lontano dalla visione originaria di un movimento “dal basso” e rivoluzionario
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Sic transit gloria mundi
Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”
Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.
Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.
Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.
Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.
Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.
Sic transit gloria mundi
Il Senato salva Sangiuliano dal processo per la “chiave di Pompei”: 112 voti bastano a fermare l’accusa di peculato
Il caso ruotava attorno al simbolico omaggio di Pompei finito in un regalo privato. La Giunta per le immunità ha riconosciuto l’atto come compiuto nell’interesse pubblico e non come reato ordinario. I legali dell’ex ministro ricordano che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che la chiave era stata acquistata e pagata, diventando sua proprietà.

Palazzo Madama ha fatto scudo all’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, bloccando il processo per peculato che rischiava di aprirsi attorno alla “chiave d’onore” di Pompei. Con 112 voti favorevoli e 57 contrari, l’aula del Senato ha respinto l’autorizzazione a procedere, accogliendo la linea della Giunta per le immunità: il gesto di donare la chiave a Maria Rosaria Boccia non costituirebbe reato ordinario, ma un atto riconducibile all’esercizio della funzione di governo e al perseguimento di un interesse pubblico preminente.
La vicenda aveva incuriosito l’opinione pubblica nei mesi scorsi, trasformandosi in un caso mediatico: la chiave, simbolo del legame con la città archeologica, era stata regalata dall’ex ministro a una conoscente, scatenando polemiche e sospetti di appropriazione indebita. I difensori di Sangiuliano hanno sempre sostenuto la piena legittimità dell’operazione, ricordando che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che, tramite la procedura prevista dalla legge, l’ex ministro aveva acquistato e pagato l’oggetto, diventandone il proprietario a tutti gli effetti.
Il voto in aula è arrivato dopo una giornata di interventi accesi, tra ironie e schermaglie politiche. Il leghista Gian Marco Centinaio ha scherzato in diretta: «Lasciamo i colleghi nella suspense… Sim Salabim!», strappando un sorriso in un dibattito altrimenti teso.
Non solo Sangiuliano: nella stessa seduta, Palazzo Madama ha affrontato altre questioni di immunità parlamentare. Maurizio Gasparri ha incassato il via libera dell’aula sulla sua insindacabilità per le frasi rivolte al magistrato Luca Tescaroli nel 2023, giudicate collegate ad atti parlamentari come interrogazioni e interventi in aula. A favore hanno votato 117 senatori, mentre 23 – tra M5s e Avs – hanno detto no.
Sic transit gloria mundi
“Comunisti no, gay solo se non sculettano”. Il delirio dello chef stellato in cerca di personale
Dalla nostalgia per la cucina “da caserma” agli insulti ai giovani cuochi, passando per i tatuaggi di Mussolini e la svastica: lo chef stellato Paolo Cappuccio racconta il suo personale concetto di rigore. Un concentrato di luoghi comuni, rancore sociale e arroganza padronale condito da accuse pesanti e zero autocritica.

C’è chi usa i social per condividere piatti e ricette. E poi c’è Paolo Cappuccio, chef napoletano classe 1977, che ha preferito farlo per pubblicare un post a metà tra la bacheca fascistoide e lo sfogo da bar sport. Il testo – rimosso dopo insulti e minacce di morte – vietava l’assunzione di «fancazzisti, comunisti, drogati, ubriachi e per orientamento sessuale». E ora lo chef stellato, lungi dal fare marcia indietro, rivendica ogni parola.
«Da dopo il Covid i dipendenti fanno quello che vogliono», attacca. «Un cuoco arriva in ritardo e ti dice che se non ti va bene se ne va. Lo riprendi? Si mette in malattia. E il medico lo giustifica pure». Il quadro che dipinge è quello di un’Italia dove gli chef sono martiri e gli stagisti dei ricattatori seriali. Ma per Cappuccio la colpa non è solo dei giovani. È dei “comunisti”.
«Il dipendente comunista lo riconosci subito», assicura con inquietante certezza. «Si lamenta della mensa, vuole sapere la tredicesima prima ancora di iniziare. Quelli di destra invece sono operosi e vogliono diventare titolari. La differenza è abissale». E pazienza se nel 2025 parlare così significa semplicemente fare propaganda da osteria.
Poi ce l’ha con MasterChef, i “cuochi cocainomani del Nord”, i dipendenti con le “devianze sessuali”. E con chi? Con chi osa presentarsi col “pantalone calato” o, peggio, «con i tacchi a sculettare in cucina». Come si distingue, secondo lui, un gay accettabile da uno “sbagliato”? Non lo dice, ma lo fa capire. La linea è sottile, quanto una padella sporca: «Se sei serio e lavori, sei dei nostri. Altrimenti, no».
Quando si parla dei tatuaggi – Mussolini, svastica, Altare della Patria – si passa dal ridicolo al tragico. «Se vietano la falce e martello mi cancello la svastica», dice con candore. «Per me è solo una protesta». Non contro la storia o i crimini del nazismo, ma «contro i radical chic che parlano di poveri e poi vanno in Costa Azzurra». Applausi. Ironici.
«Siamo schiavi dei dipendenti», si lamenta ancora. Una frase che detta da un datore di lavoro suona quanto meno surreale, se non offensiva. Ma l’uomo non fa una piega. Anzi, rilancia: «Nel mio albergo ho beccato anche un pedofilo. Ma non l’ho potuto licenziare. Giusta causa? Non esiste».
Che lo chef abbia avuto esperienze negative con parte del suo personale non è in discussione. Che la sua risposta sia un mix di disprezzo sociale, semplificazioni ideologiche e pregiudizi sessisti, purtroppo neppure. Se i giovani cuochi fuggono da brigate tossiche, forse una riflessione servirebbe. Ma a Cappuccio non interessa. Troppo impegnato a contare i “like” tra nostalgici e reazionari.
E, si spera, a cancellare le prenotazioni di chi, la roba cucinata da uno chef così, non vuole neppure annusarla da lontano.
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