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Sic transit gloria mundi

Perché Mediaset tace sul caso Signorini? Il silenzio imbarazzante che pesa più delle accuse di Corona

In altri Paesi, di fronte a presunte molestie, le aziende intervengono subito. Qui no. Nessuna nota ufficiale, nessuna sospensione cautelare, nessun chiarimento. Solo silenzio. Un silenzio che diventa posizione, protezione, scelta. E che apre una domanda: perché?

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    Il punto non è stabilire se Fabrizio Corona dica la verità o no. Quello riguarda le procure, gli avvocati, i tribunali. Il punto è che intorno ad Alfonso Signorini si è sollevata una tempesta mediatica gigantesca, con accuse pubbliche, testimonianze, interrogatori, parole pesantissime. Sui social non si parla d’altro, i giornali ne scrivono ogni giorno, l’immagine di Mediaset è trascinata dentro un vortice potenzialmente devastante. E l’azienda cosa fa? Niente. Non una riga. Non una parola. Non una postura pubblica.

    In qualunque altra azienda del mondo sarebbe impensabile

    Negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia, basta un sospetto del genere e partono immediatamente provvedimenti cautelativi: sospensioni temporanee, comunicati ufficiali, prese di distanza nette, annunci di indagini interne. È una regola non scritta ma rigorosa: prima si tutela il marchio, poi – eventualmente – si difende la persona.
    Qui no. Qui tutto tace. Qui si finge che non stia succedendo nulla. Qui si aspetta. Qui si ignora volutamente un dibattito gigantesco. Qui sembra quasi che si speri che passi la tempesta.

    Forse Signorini non è un semplice volto tv

    E allora sorge spontanea la domanda che tanti stanno facendo: perché questo silenzio?
    Perché di fronte a un caso che esplode a livello nazionale, l’azienda sceglie la linea dell’assenza? Forse perché Alfonso Signorini non è solo un conduttore, ma il custode dei segreti della casa del Biscione da trent’anni? Forse perché se davvero decidesse di “aprire la cassaforte”, rischierebbero in molti e non solo lui?
    È una domanda scomoda, certo. Ma ignorarla è impossibile.

    Il silenzio è già una risposta

    Mediaset può parlare quando vuole. Può chiarire, può prendere posizione, può difendere il suo uomo, può prendere le distanze, può annunciare verifiche. Ma non può più fingere che non stia accadendo niente. Perché quel silenzio è già una dichiarazione.
    E sì, è un silenzio imbarazzante.

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      Buon Natale da LaCity Magazine: il nostro regalo siete voi, tra lifestyle, spettacolo, tendenze e voglia di bellezza

      Moda, cinema, musica, televisione, cucina, beauty, viaggi, gossip, tendenze: LaCity Magazine ha raccontato un anno pieno di novità e passioni. Vi ringraziamo per averci scelto ogni giorno e vi auguriamo un Natale leggero, luminoso e pieno di cose belle. Il 2026 vi sorprenderà: noi saremo qui, pronti a raccontarlo.

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        Cari lettori,
        questo è il momento più semplice e allo stesso tempo più importante dell’anno: dirvi grazie e augurarvi Buon Natale. LaCity Magazine è un daily online che vive di curiosità, energia, creatività e voglia di raccontare ciò che rende la vita più interessante: lo spettacolo che emoziona, il cinema che fa sognare, la musica che accompagna i ricordi, la cucina che unisce, il beauty che fa stare bene, le tendenze che raccontano il cambiamento.

        In dodici mesi abbiamo condiviso notizie, storie, interviste, retroscena, ispirazioni e passioni. Abbiamo seguito i grandi eventi, gli scandali, i successi, le mode e le novità. E soprattutto lo abbiamo fatto insieme a voi, che ogni giorno scegliete di leggere LaCity Magazine per informarvi, divertirvi, distrarvi e trovare quello spazio di leggerezza intelligente che tutti, ogni tanto, meritiamo.

        Il Natale è una pausa luminosa: un momento per rallentare, respirare e trovare un po’ di bellezza nelle cose semplici. Il nostro augurio è che sia un Natale pieno di sorrisi, affetti, emozioni e piccoli piaceri. E che il nuovo anno porti nuove storie, nuovi sogni e nuova voglia di vivere bene.

        Noi continueremo a fare ciò che amiamo: raccontare la vita nelle sue mille sfumature, con il nostro stile e la nostra attenzione. Grazie per esserci, grazie per seguirci, grazie perché, ogni giorno, rendete LaCity Magazine quello che è.

        Dal direttore e da tutta la redazione,
        Buon Natale e Felice Anno Nuovo.

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          Signorini contro Corona, Corona contro Signorini: la resa dei conti tra ex complici di uno star system che finge di scandalizzarsi

          Lo scontro tra Alfonso Signorini e Fabrizio Corona non è uno scandalo morale, ma un regolamento di conti tra due figure cresciute nello stesso sistema televisivo. Un meccanismo noto da decenni, che trasforma il potere in intrattenimento, gli abusi in gossip e l’indignazione in spettacolo, mentre il vero problema resta intatto.

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            Chiariamo subito un punto, senza ipocrisie né prudenza lessicale: Alfonso Signorini non è il problema. È il sintomo. È la faccia pettinata, rassicurante, televisivamente educata di un meccanismo che da anni scambia il vuoto per spettacolo e il potere per talento. Se oggi è sotto accusa, non è perché abbia inventato qualcosa, ma perché ha incarnato alla perfezione ciò che questo sistema richiede: obbedienza alle dinamiche, cinismo mascherato da ironia, gestione del desiderio altrui come merce di scambio.

            E poi c’è Fabrizio Corona. Che improvvisamente scopre di essere il depositario della verità. L’uomo che oggi si atteggia a giustiziere morale è lo stesso che per anni ha campato, prosperato e si è arricchito esattamente grazie a quel mondo che ora finge di voler smascherare. Non è un pentito. È un escluso. E la differenza è enorme.

            Il punto non è che Corona parli. Il punto è che reciti la parte di chi “non sapeva”, quando invece sapeva benissimo. Anzi, partecipava. Frequentava. Usava. Guadagnava. Oggi si presenta come se fosse appena entrato in scena, come se non avesse passato una vita a giocare allo stesso tavolo di Signorini, con le stesse regole non scritte, gli stessi silenzi, le stesse ambiguità.

            Questo non è uno scandalo. È una resa dei conti. È una guerra tra ex alleati che si conoscono troppo bene. Gente che ha condiviso favori, coperture, opportunità e ipocrisie, e che ora si accoltella a colpi di podcast, interviste e minacce legali. La parola “sistema” viene agitata come una clava, ma non è una scoperta: è la casa in cui hanno abitato entrambi per anni.

            La televisione, intanto, osserva compiaciuta. Perché mentre Signorini viene dipinto come il volto del male e Corona come il profeta tardivo, il meccanismo resta intatto. Funziona. Produce ascolti, clip, meme, schieramenti da stadio. Trasforma accuse gravissime in intrattenimento e le lotte di potere in format. E il pubblico fa esattamente ciò che gli viene richiesto: si divide, si indigna, difende il proprio idolo, urla “vergogna” senza mai spostare lo sguardo dal tendone.

            Nel frattempo, questioni enormi vengono schiacciate sotto il peso del circo. Perché al di là di Signorini e Corona, entrambi milionari e perfettamente integrati nel sistema che fingono di combattersi, esiste un tema molto più scomodo: gli abusi di potere all’interno dello star system, soprattutto quando il potere passa dal desiderio, dalla promessa, dalla possibilità di “farcela”. Un tema che altrove ha prodotto movimenti come il #MeToo, e che qui viene ridotto a gossip, meme e tifo organizzato.

            Quando Corona pronuncia frasi come «se non andavi a letto con lui, non andavi in televisione», non sta rivelando un segreto arcano. Sta dicendo qualcosa che scrittori, giornalisti e autori raccontano da almeno sessant’anni. Da Truman Capote a Bret Easton Ellis, passando per Aldo Busi e il suo brutale ma onesto “obolo del sofà”. Davvero qualcuno crede che lo star system funzioni per merito puro? Davvero esistono ancora gli ingenui divorati da dinamiche che “non conoscevano”?

            La verità è più scomoda: questo sistema è marcio, sì, ma è noto. È accettato. È frequentato. E spesso, finché conviene, è persino difeso da chi oggi grida allo scandalo. Non esistono solo carnefici e vittime immacolate. Esistono zone grigie, compromessi, scelte consapevoli. E raccontarla diversamente serve solo a salvare le coscienze, non a cambiare le cose.

            Alla fine, non esplode nessuna verità. Non cade nessun impero. Cambiano i ruoli: chi era dentro ora accusa, chi era al comando ora si difende. Ma il tendone resta in piedi. E chi urla più forte non è il più puro: è semplicemente quello che non ha più nulla da perdere.

            Il resto è rumore. E la televisione, come sempre, ringrazia.

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              Con Giannini e Baracoa capiamo perché il piccolo cinema italiano affonda: la crisi nasce soprattutto dall’invisibilità dei suoi titoli più belli.

              Dopo aver visto un’opera intensa come Baracoa, con uno straordinario Giancarlo Giannini, diventa chiaro quanto il sistema continui a privilegiare sempre gli stessi nomi mentre i film più autentici restano confinati in rassegne e passaggi marginali. E mentre gioielli come In Vino Veritas faticano a trovare una sala, il pubblico si allontana, non per disamore ma per mancanza di ciò che l’Italia sa ancora raccontare.

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                Ieri sera ho avuto l’occasione di vedere in anteprima un film italiano davvero bello. Di quelli che ti lasciano gli occhi e il cuore pieni di immagini che ti restano addosso come profumo buono, non riuscivo a pensare ad altro: la crisi del nostro cinema non è una questione di talento mancante, ma di spazi mancati. In sala arrivano sempre gli stessi, i soliti noti, quelli che garantiscono un minimo di visibilità anche quando non portano grandi film. E intanto le opere più sorprendenti, più intime, più originali, restano intrappolate nei festival, nelle rassegne, nei desideri degli autori.

                Lo vediamo tutti: siamo qui a magnificare il Dracula di Luc Besson campione al botteghino, ma lasciatemelo dire, sfigura di fronte al vampiro di Coppola nel Dracula di Bram Stoker. E mentre applaudiamo i soliti blockbuster, nel nostro cinema di casa accadono piccole meraviglie che rischiano di non arrivare mai a destinazione. Prendete In Vino Veritas, carinissimo, con uno straordinario Joe Pantoliano: un attore cult amato da mezzo mondo, volto dei Soprano, di Matrix, di Memento. Un film che meriterebbe un suo spazio naturale, e invece appare e scompare come un frammento di un sogno visto di sfuggita.

                E poi c’è Baracoa. Lasciatemelo dire: un film bellissimo. Uno di quelli che solo noi italiani, quando ci ricordiamo chi siamo, sappiamo fare. Con un Giancarlo Giannini strepitoso, capace di riempire lo schermo anche solo camminando. La sceneggiatura di Filippo Ascione e la regia di Luis Ernesto Doñas costruiscono un racconto che parla di identità, maschere, libertà, famiglia, relazioni. È un film che parla di persone, senza scuse e senza scorciatoie.

                C’è il Generale, interpretato da Giannini, in conflitto con il figlio Pepe (Carlos Luis González), uomo ombroso che vive sul confine dell’illecito, tra il disincanto e il naufragio. C’è un diario scritto in russo, c’è un’amicizia che nasce dalla cura: lo straordinario Yadier Fernández, nel ruolo del medico Jimmi, visita ogni giorno il Generale, lo ascolta, gli parla, si ritrova custode di segreti più grandi di lui. Lo lava. Gli fa compagnia. Gli fa persino tornare il sorriso.

                Alla morte del Generale, Jimmi promette di portare le sue ceneri a Baracoa, nella casa di famiglia, accanto a quelle della moglie. Parte con Pepe. Ne nasce un on the road dolente e luminoso, una storia di formazione ma anche di riparazione, di pacificazione con ciò che siamo e che, volenti o nolenti, può sempre tornare. È un film che racconta la riscoperta dei legami, vecchi e nuovi, perché — come dice una battuta memorabile — “le rivoluzioni non finiscono mai”.

                Certo, non è un filmone di Hollywood o un episodio di qualche saga di supereroi ipervitaminizzati, ma spero con tutto me stesso che trovi spazio, che venga distribuita, che qualcuno si prenda la responsabilità di farlo arrivare al pubblico. Come accadde a Moccia, che trovò fama nelle fotocopie che i ragazzi si scambiavano a scuola. Ma Baracoa non è Moccia. Ha un pizzico di Almodóvar, un po’ Özpetek, un tanto se stesso. Un gran bel film, insomma.

                E allora mi viene naturale guardare i numeri: solo nel 2024, la Rai ha trasmesso 4.500 film — 1.800 italiani, 1.700 americani, 500 francesi, 150 inglesi, 100 tedeschi. Una mappa immensa. E dentro questa mappa, i nostri piccoli grandi film non trovano più spazio né in sala né in tv. Non trovano casa, non trovano pubblico, non trovano il tempo di esistere davvero.

                Poi ci stupiamo che la gente non vada più al cinema. E invece la risposta è lì, semplice e testarda: il pubblico c’è. Manca ciò che dovremmo offrirgli. Manca la possibilità di vedere le storie che sappiamo ancora raccontare. Buone, vere, nostre.

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