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Sic transit gloria mundi

Il ciuffo più famigerato della tv pronto a fare il bis: dopo i disastri in Mediaset, Andrea Giambruno punta alla Rai

Nonostante lo scandalo che ha distrutto carriera e vita privata, l’ex “signor Meloni” sogna un programma tutto suo. La Rai sarà davvero pronta a correre il rischio?

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    Andrea Giambruno sembra deciso a giocare la sua ultima carta per tornare sotto i riflettori. Dopo i disastri professionali e personali che lo hanno travolto, il giornalista cerca una via per riscattarsi e riprendere il suo posto davanti alle telecamere. Il nuovo obiettivo? La Rai, che potrebbe rappresentare un inaspettato trampolino di rilancio. Ma per un personaggio che ha trasformato due fuori onda in un boomerang devastante, il ritorno in video è tutt’altro che scontato.

    I danni in casa Mediaset sono stati sotto gli occhi di tutti: due clip, mandate in onda da Striscia la notizia, hanno svelato il lato peggiore del conduttore. Nel primo fuori onda, Giambruno si era lanciato in commenti sessisti sulle sue colleghe, lasciandosi andare a battute volgari che poco si addicono a un professionista della tv. Nel secondo, aveva superato ogni limite con proposte indecenti che includevano orge collettive per “stemperare lo stress” sul lavoro. Il tutto condito da atteggiamenti spavaldi e un tono che definire fuori luogo è un eufemismo.

    La reazione di Mediaset è stata rapida e decisa. Andrea Giambruno è stato sospeso dal video, pur rimanendo formalmente in azienda. Una mossa che sa di compromesso: troppo clamore per licenziarlo, ma impossibile immaginare di rimetterlo davanti alle telecamere. Nemmeno le scuse pubbliche, affidate a un’intervista a Dritto e rovescio, sono riuscite a migliorare la sua posizione. L’immagine del giornalista pentito, con il volto contrito e le parole studiate, non ha convinto né l’azienda né il pubblico. Il danno d’immagine, del resto, era ormai irreparabile.

    Nonostante tutto, Giambruno non ha rinunciato al sogno di un ritorno in grande stile. Dopo il fallimento del tentativo di partecipare a Belve, il programma di Francesca Fagnani su Rai 2, sembra aver messo gli occhi su un progetto ancora più ambizioso: uno show tutto suo, magari proprio negli studi Rai. L’idea di un suo rilancio nella tv pubblica, però, rischia di sollevare più di qualche sopracciglio. Il passato recente pesa come un macigno, e il suo nome è ancora associato a uno dei casi mediatici più imbarazzanti degli ultimi anni.

    Anche sul fronte personale le cose non vanno meglio. La fine della relazione con Giorgia Meloni, premier e madre di sua figlia, ha aggiunto ulteriore caos alla sua vita. Dopo anni di apparente stabilità familiare, Giambruno si è ritrovato solo. I suoi tentativi di ricostruire un equilibrio, come la breve frequentazione con Federica Bianco, attivista leghista e aspirante attrice, si sono rivelati un buco nell’acqua. Quella che era stata descritta come un’amicizia speciale non si è mai trasformata in una relazione stabile, lasciandolo di nuovo in un limbo sentimentale.

    Quanto al possibile supporto della sua ex compagna, Meloni sembra intenzionata a mantenere un atteggiamento distante. La premier ha preferito smarcarsi dalla vicenda, concentrandosi sul proprio ruolo istituzionale e lasciando che l’ex compagno gestisca i suoi problemi in autonomia. Essere il padre della figlia della premier potrebbe avere qualche vantaggio indiretto, ma Giorgia non sembra disposta a intervenire direttamente per aiutarlo. Del resto, un coinvolgimento più attivo avrebbe il rischio di legare la sua immagine a una vicenda che il pubblico percepisce ancora in modo estremamente negativo.

    Il quadro che emerge è quello di un uomo che tenta disperatamente di riprendere in mano le redini della sua vita e della sua carriera, ma che si trova a combattere contro una montagna di difficoltà. La Rai, ammesso che decida di offrirgli una possibilità, potrebbe rappresentare l’ultima chance per Giambruno di rientrare nel giro della televisione che conta. Ma un eventuale fallimento sarebbe un colpo mortale per una carriera già pesantemente compromessa. Il conduttore, intanto, continua a coltivare la speranza di tornare protagonista.

    La domanda ora è: riuscirà Andrea Giambruno a convincere la Rai a puntare su di lui? E soprattutto, il pubblico è pronto a perdonarlo e accoglierlo di nuovo davanti alle telecamere? Il rischio di un nuovo passo falso, in un contesto già delicato, è altissimo. Il ciuffo più famigerato della tv sembra deciso a giocare la sua ultima carta, ma il futuro resta incerto. Quel che è certo è che, al momento, il suo nome resta indissolubilmente legato a uno dei periodi più controversi della televisione italiana. Per ora, ogni speranza sembra scontrarsi con la realtà di un ambiente televisivo che non perdona facilmente e che non ha dimenticato il clamore mediatico suscitato dai suoi errori. La strada è tutta in salita, e il conduttore lo sa. Una salita che, per lui, potrebbe rivelarsi l’ultima occasione.

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      Il Papa venuto dal futuro: perché Leone XIV ha già fatto la rivoluzione

      Meno proclami, più strategia. Il nuovo Papa non urla, ma agisce: ricompone le fratture interne, cambia il linguaggio, riporta ordine e introduce un modello di leadership a lungo termine. Con un dettaglio non trascurabile: ha iniziato a rivoluzionare tutto… restando apparentemente fermo

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        Non ha alzato la voce, non ha fatto gesti eclatanti, non ha rovesciato nulla. Eppure Leone XIV ha già fatto la rivoluzione. La sua, a ben vedere, è una delle più subdole ed eleganti operazioni di riforma degli ultimi anni: un cambiamento interno, sottile, profondo, silenzioso. Una rivoluzione nella forma che trasformerà la sostanza.

        Il pontificato del primo Papa americano (e peruviano) della storia si annuncia come una fase di transizione, certo, ma anche come un ritorno a una forma più “classica” di conduzione della Chiesa. Senza rinnegare Francesco, ne ha assorbito l’eredità su pace, giustizia sociale e dialogo con i poveri. Ma lo ha fatto spogliandola del pathos sudamericano e della forza mediatica del predecessore. Dove Francesco camminava tra la folla, Prevost resta sullo sfondo. Dove Francesco abbracciava, Leone XIV osserva e media. Ma, attenzione, non è affatto debolezza: è consapevolezza.

        Quella che stiamo vedendo non è una virata a destra o a sinistra – categorie che nel mondo ecclesiastico valgono quanto un righello nel mare aperto – ma un aggiustamento di rotta per navigare attraverso acque sempre più torbide: lo scontro tra “correnti” interne alla Curia, la pressione delle opinioni pubbliche globali, la crisi vocazionale e identitaria del clero, la secolarizzazione inarrestabile in Europa e il radicalismo emergente in altre aree del mondo. Tutto questo, Prevost ha deciso di affrontarlo con un’arma che nella Chiesa ha sempre funzionato: il tempo.

        Perché è il tempo la vera novità di questo pontificato. Dopo tre papi anziani, l’elezione di un pontefice giovane cambia l’intero scenario: non serve più pensare a soluzioni tampone o a gestioni ordinarie, ma a progetti di lungo corso. Il nuovo Papa può permettersi di ragionare come un costruttore di cattedrali, non come un amministratore in scadenza di mandato.

        La sua età è una risorsa politica e strategica, soprattutto in un contesto globale dove i leader sono spesso anziani, stanchi, logorati. Prevost, al contrario, ha tempo e visione. Può permettersi di iniziare ora un’opera di ricucitura interna, di pacificazione tra le varie anime della Chiesa, di ricentratura sul Vangelo come bussola spirituale e geopolitica. Il tutto senza bisogno di proclami roboanti, che a lungo andare stancano.

        Il cambio di stile si nota subito anche nella comunicazione. Meno storytelling, più sobrietà. Niente frasi fatte, niente retorica. Il nuovo Papa parla per sottrazione. Non accarezza i media, non cavalca i social. Al massimo li attraversa con passo lento. Eppure, ogni parola è pesata, meditata, calibrata per durare. Come quella con cui ha aperto il suo pontificato: «La pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante». Una frase che sembra una carezza, ma che contiene un’architettura spirituale e diplomatica potentissima.

        Perché la pace, per Leone XIV, non è solo un auspicio ma un programma. È l’unico ponte possibile tra la Chiesa e il mondo lacerato che la circonda. È anche il punto di continuità più evidente con Papa Francesco: il rifiuto di ogni logica di guerra, la critica al riarmo europeo, l’attenzione ai popoli martoriati da conflitti dimenticati. Ma lo fa con un tono che è tutto suo: meno appelli pubblici, più diplomazia silenziosa.

        E se c’è una rivoluzione che Leone XIV ha già messo in atto, è proprio questa: riportare la Chiesa a un ruolo di regia silenziosa, capace di parlare ai potenti con il linguaggio dei secoli, non con i post su X. Capace di tenere il timone dritto, anche quando le onde sono alte e la nave cigola. E soprattutto, capace di non cedere alla tentazione di farsi partito o fazione.

        La tentazione, oggi più che mai, sarebbe forte: usare la visibilità globale del papato per occupare spazi politici, influenzare agende, dirigere voti. Ma Prevost non ci casca. Forse perché sa bene che, nella lunga storia della Chiesa, le vere rivoluzioni non le ha fatte chi urlava più forte, ma chi sapeva aspettare.

        Leone XIV ha cominciato il suo pontificato con pochi gesti e molte omissioni. Ma proprio in quelle omissioni, nella scelta di non forzare, di non dividere, di non provocare, si sta già costruendo un nuovo modo di essere Papa. Più difficile da raccontare, forse. Ma potenzialmente molto più potente.

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          Sic transit gloria mundi

          Tutti a parlare di pace, ma a Istanbul ci va solo Zelensky: Putin e Trump mandano i camerieri

          Blaterano di tregua, ma si tengono alla larga. L’ucraino ci mette la faccia, gli altri due solo arroganza e deleghe

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            Alla fine la montagna, come da copione, partorirà il solito, patetico topolino diplomatico. Mancano meno di 48 ore al vertice di Istanbul, il primo vero incontro negoziale tra Russia e Ucraina da tre anni a questa parte, e l’unico dei tre leader che ha il coraggio (e la decenza) di presentarsi è Volodymyr Zelensky. Gli altri due, Donald Trump e Vladimir Putin, blaterano di pace, parlano a raffica di “cessate il fuoco” e “soluzioni”, ma poi si defilano. E mandano i sottoposti.

            Zelensky, almeno, ci mette la faccia. “Vengo io, ovunque serva, basta che Putin si presenti”, ha detto con la consueta schiettezza. Vuole incontrare il leader russo vis-a-vis, e glielo ripete ormai da giorni. Ma da Mosca il solito silenzio nebbioso: né conferme né smentite. Il portavoce Peskov balbetta frasi vaghe, mentre le solite fonti “bene informate” annunciano che a Istanbul, al posto dello zar, ci sarà il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Insomma, la Russia c’è, ma con il pilota automatico.

            Trump non è da meno. Dopo aver accennato a una possibile partecipazione in prima persona, ieri da Riad ha annunciato che a rappresentarlo sarà il segretario di Stato Marco Rubio. Una mossa utile giusto a mantenere il nome nei titoli dei giornali, ma che sa tanto di “mandate avanti gli altri”. Eppure, Trump trova il modo di commentare: “Mi aspetto buoni risultati”. Certo. Magari dal divano.

            Intanto, Zelensky continua a picchiare sul punto: “Putin non vuole la pace. Se non viene a Istanbul, vuol dire che non ha alcuna intenzione di fermare la guerra”. E chiede nuove sanzioni, ancora più pesanti, se il leader del Cremlino dovesse rimanere nella sua dacia a rimuginare. La risposta di Putin? Il solito sarcasmo velenoso: “Chi ci sanziona fa il male della Russia… e anche il proprio”. Un disco rotto che ormai non convince più nessuno, se non la corte di falchi di cui si circonda.

            Per non farsi mancare nulla, Mosca ribadisce anche le condizioni: la “denazificazione dell’Ucraina” e l’eliminazione delle “cause profonde” della guerra. Tradotto: il solito bla bla per non cedere su nulla. E tutto mentre l’Occidente guarda, commenta, e incrocia le dita.

            Dalla parte di Kiev, il braccio destro di Zelensky, Andrei Yermak, è netto: “Se Putin non si presenta, sarà la prova definitiva che la Russia non vuole trattare”. E se invece arrivasse, Kiev è pronta anche a rivedere il decreto che vieta ufficialmente il dialogo con lui. Ma serve un segnale, e non arriverà.

            A sperare ancora ci prova la Germania. Il ministro degli Esteri Johann Wadephul prova a mettere pressione: “La Russia non dovrebbe lasciare una sedia vuota. Ma se viene, deve essere davvero interessata alla pace”. Non a giocare a Risiko geopolitico.

            Morale: tutti parlano di pace, ma poi si tengono ben lontani dal tavolo. L’unico a rischiare in prima persona è Zelensky. Gli altri? Troppo impegnati a farsi belli davanti alle telecamere, o a manovrare nell’ombra. Ma almeno, risparmiateci la retorica.

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              Il cardinale malato che non c’è: veleni da conclave, Parolin nel mirino dei corvi

              La smentita della Santa Sede è arrivata puntuale, ma il danno è fatto: l’indiscrezione sul presunto malore di Pietro Parolin sembra avere tutto il sapore di una manovra per affondare la candidatura del Segretario di Stato.

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                Niente malore, niente infermieri, niente camici bianchi sfreccianti nei corridoi vaticani. Solo una fake news ben confezionata, diffusa a colpo sicuro nel giorno giusto, e rimbalzata sul web come una miccia accesa tra le panche della Congregazione generale. Il bersaglio? Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, considerato tra i nomi più forti in vista del Conclave del 7 maggio. L’obiettivo? Farlo apparire fragile, inaffidabile, fisicamente non all’altezza. E così, quando in serata la smentita ufficiale del Vaticano ha bollato tutto come “priva di fondamento”, il sospetto è diventato certezza: questa non è cronaca, è strategia.

                Il primo a lanciare il siluro è stato CatholicVote.org, sito americano notoriamente vicino all’ala più conservatrice del cattolicesimo Usa. Da lì, l’indiscrezione ha fatto il giro dei social, degli ambienti ultracattolici, delle chat dei vescovi più intransigenti. Tutto secondo copione. Parolin, va detto, è l’uomo che più incarna il volto istituzionale e pragmatico della Chiesa. È stato il custode dell’equilibrio bergogliano, ma senza mai diventarne megafono. Troppo diplomatico per i tradizionalisti a stelle e strisce, troppo “moderato” per i teologi della sinodalità a tutti i costi. Il capro espiatorio perfetto.

                Classe 1955, originario di Schiavon, in provincia di Vicenza, Pietro Parolin entra in seminario a 14 anni, resta orfano di padre a dieci, studia alla Pontificia Accademia Ecclesiastica e inizia la sua carriera diplomatica in Africa, poi in Messico e Venezuela. Parla correntemente sei lingue, conosce a memoria gli equilibri tra Santa Sede e Cina, ha tenuto i contatti con regimi impresentabili senza mai sporcarsi le mani. Un uomo di equilibrio, ma anche di potere. Ed è qui che scattano le gelosie.

                Alcuni, in queste ore, leggono gli attacchi come una rappresaglia per il ruolo giocato da Parolin nella definitiva estromissione di Angelo Becciu dal Conclave. Fu lui, secondo fonti curiali, a mostrare in aula le lettere siglate da Francesco — quando era ancora ricoverato — in cui si confermava la decisione irrevocabile di escludere Becciu. Una mossa che qualcuno ha vissuto come uno sgarbo personale e istituzionale. Il resto lo fa il veleno, mai assente nelle sagrestie romane, soprattutto in tempo di elezione.

                Eppure, nel caos di queste giornate, Parolin continua a non sbilanciarsi. Esce dalle Congregazioni in silenzio, entra tra i primi, esce tra gli ultimi. Sa che ogni parola potrebbe diventare un boomerang. Ma intanto resta uno dei candidati più solidi: ha esperienza, reti internazionali, capacità di mediazione, credibilità tra i cardinali che non vogliono uno strappo netto ma neppure un clone di Francesco. E se i progressisti dovessero capire che nessuno dei loro riuscirà a superare il quorum, potrebbero anche convergere su di lui.

                Resta però un’incognita: quanto il fango lanciato in questi giorni avrà davvero lasciato traccia? I 129 cardinali elettori non si lasciano condizionare facilmente, ma il dubbio insinuato — la crepa, per quanto smentita — può bastare a spostare voti decisivi, soprattutto se si arrivasse a una battaglia lunga e fatta di ballottaggi sotterranei.

                Intanto, Parolin guarda e attende. Come il diplomatico che è, non rincorre le smentite. E come il prete che è stato — figlio di una maestra, cresciuto all’oratorio — sa che ogni attacco è anche una prova. A pochi giorni dalla prima votazione, le manovre si fanno più esplicite e le trappole più insidiose. Ma c’è un dettaglio che chi diffonde bufale dovrebbe ricordare: la porpora non è impermeabile al fango. Ma non lo è nemmeno la memoria della Chiesa. E in Sistina, ogni passo falso — anche uno solo — può costare il trono… pardon, il soglio!

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