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Mondo

Perchè il Fisco italiano chiede 12,6 milioni a Elon Musk?

Quest’ultima richiesta al magnate americano dimostra l’impegno delle autorità italiane nell’assicurarsi che le multinazionali del digitale paghino le tasse sui profitti generati in Italia.

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    La Guardia di Finanza, l’Agenza delle Entrate e la Procura di Milano hanno preso di mira Elon Musk. Al magnate hanno chiesto 12,5 milioni di euro per una presunta “dichiarazione infedele” del periodo tra il 2016 e il 2022 del social media Twitter. Un periodo antecedente all’acquisto di Musk del social rinominato X. L’indagine, condotta dal pm Giovanni Polizzi, già protagonista di altre indagini sui colossi del web, coinvolge gli ex vertici di Twitter. Mentre Musk potrebbe essere responsabile dal punto di vista economico. La richiesta è legata alla monetizzazione dei dati degli iscritti al social di cui si conoscono molte informazioni a fini pubblicitari. In pratica la Guardia di Finanza e la Procura di Milano hanno contestato alla piattaforma di aver generato redditi in Italia senza versare l’IVA dovuta.

    La caduta della Tesla e le ricadute sugli affari di Musk

    Nelle stesse ore in cui si diffondeva la notizia della nuova avventura politica di Elon Musk al fianco di Donald Trump le vendite di Tesla in Europa crollarono. In Germania dove l’ex startupper ha fatto campagna elettorale per i neonazisti di Afd – seconda forza politica per numero di voti nelle ultime elezioni – le vendite di Tesla sono crollare del 59,5%, in Francia del 63%, in Norvegia del 38% e in Gran Bretagna dell’8%. Ora c’è anche la tegola del Fisco italiano a preossupare Elon. La richiesta in sé sembra quasi ridicola per X, un’azienda che ha generato 3,4 miliardi di dollari di fatturato nel 2023 ma che, se confermata, potrebbe influire sui margini di guadagno delle piattaforme. Quello che disturba di più è il teorema assunto da Procura e GdF. Se fosse confermato le piattaforme dovrebbero pagare per introiti derivanti dagli iscritti con la consegunza che i margini di guadagno calerebbero sensibilmente. Lo scorso dicembre la Procura di Milano ha chiuso una indagine che parte dai medesimi presupposti ma riguarda Facebook e su Instagram. Insomma si potrebbe creare un precedente con sviluppi imprevedibili.

    Google e il pagamento di 326 milioni di euro al Fisco italiano

    Intanto Google ha versato 326 milioni di euro al Fisco italiano per chiudere un’indagine su una presunta evasione fiscale di circa un miliardo di euro tra il 2015 e il 2019. L’inchiesta della Procura di Milano e della GdF contestava alla divisione europea di Google, con sede legale in Irlanda, di aver omesso la dichiarazione e il pagamento delle imposte sui redditi prodotti in Italia. Secondo gli inquirenti, Google avrebbe operato in Italia attraverso una “stabile organizzazione occulta“, utilizzando server e infrastrutture tecnologiche locali per offrire i propri servizi digitali. Questa struttura, secondo la Procura, avrebbe generato ricavi tramite la vendita di spazi pubblicitari senza pagare le imposte dovute. Dopo la ricostruzione dell’attività economica svolta in Italia, Google ha scelto di regolarizzare la situazione, collaborando con l’Agenzia delle Entrate e versando le somme contestate. Ma questo non è il primo caso. Nel 2017, infatti, Google aveva già pagato oltre 306 milioni di euro per chiudere un’altra inchiesta analoga relativa agli anni 2009-2015 .

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      Mondo

      Pete Hegseth, il generale del botox: “Vuole un esercito a sua immagine”. E mentre predica disciplina, si liscia le rughe

      Il 45enne ex volto di Fox News, noto per le sue crociate contro “soldati grassi e trascurati”, avrebbe ceduto al bisturi soft per rifinire la sua immagine. “È ossessionato dal corpo e dall’idea di forza”, racconta una fonte interna. Intanto il Dipartimento della Difesa attacca la stampa ma non smentisce.

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        L’unica guerra vinta, finora, sembra quella contro le rughe. Pete Hegseth, 45 anni, ex anchorman di Fox News e oggi capo del Pentagono nell’amministrazione Trump, è finito nel mirino del Daily Mail per un presunto trattamento estetico a base di botox. Le immagini pubblicate dal quotidiano britannico mostrano il segretario della Difesa prima e dopo un ciclo di iniezioni che, dicono i bene informati, risalirebbe a circa un mese fa.

        Niente conferme ufficiali dal Dipartimento della Difesa, che ha definito “spazzatura” l’articolo, ma le foto parlano chiaro: pelle più liscia, fronte immobile, linee d’espressione sparite. E così, mentre il mondo osservava le crisi in Ucraina e Medio Oriente, il guerriero dell’America si sarebbe concesso un blitz di vanità.

        Hegseth, veterano dell’Iraq e volto simbolo della destra trumpiana, aveva da poco invocato “standard fisici più duri” per le forze armate, criticando “i soldati grassi, i tatuaggi e la cultura del disimpegno”. Un approccio militare e morale che sembra cozzare con il suo nuovo volto di cera.

        Una fonte interna al Pentagono, citata dal Daily Mail, racconta un retroscena gustoso: “È tutta una questione di ego per Pete. È sempre stato pieno di sé, ma ultimamente il suo ego è alle stelle. È ossessionato dal suo corpo e ora vuole creare un esercito a sua immagine”.

        Hegseth non è nuovo alle polemiche. Ex opinionista tv e autore di bestseller patriottici, ha costruito la propria carriera sulla retorica dell’uomo forte, il patriota puro, l’americano che non cede al politically correct. Ora, però, l’eroe del fitness patriottico deve fronteggiare una nuova accusa: quella di essersi arreso alla più borghese delle debolezze, il bisturi.

        Per qualcuno, la trasformazione estetica è solo un dettaglio. Per altri, è la metafora perfetta del nuovo Pentagono: duro con gli altri, morbido con se stesso.

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          Mondo

          Quando la politica imita la TV: perché Putin crede che Trump e Civil War segneranno la fine dell’impero americano

          Tra fiction e geopolitica, il Cremlino vede nel ritorno di Trump alla Casa Bianca e nel film distopico di Alex Garland che (in Italia chiunque può vedere su Amazon Prime) il preludio a una disgregazione degli Stati Uniti. Un’analisi che intreccia la realtà e la fantasia per sostenere l’idea di un impero al tramonto.

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            Può un film distopico che in Italia tutti possono vedere su Amazon Prime influenzare la politica del mondo intero? La risposta potrebbe sembrare no, ma non per Vladimir Putin. In Russia, Civil War, il film diretto da Alex Garland, è stato accolto come molto più di un’opera di intrattenimento: è stato interpretato come una rappresentazione concreta del declino dell’impero americano, una visione che, agli occhi del Cremlino, si intreccia perfettamente con la rielezione di Donald Trump.

            Un futuro distopico

            La trama del film, ambientata in un futuro distopico, segue un gruppo di giornalisti in un’America devastata dalla guerra civile, dove odio, intolleranza e disuguaglianza dilagano senza controllo. Garland dipinge un quadro terribilmente realistico di un Paese in frantumi, incapace di affrontare le sue crisi interne e divorato dalla violenza. L’opera, concepita come una metafora critica, in Russia è stata vista come una previsione di ciò che potrebbe realmente accadere.

            Non è solo un film

            Per il Cremlino, Civil War non è solo un film, ma un modo per analizzare e interpretare le fragilità americane. Non a caso, il titolo è stato tradotto in russo con un’enfasi particolare sulla “fine di un impero”, e il messaggio del film è stato adattato alla narrativa politica locale. Secondo molti osservatori russi, l’America di oggi rispecchia fin troppo bene quella immaginata da Garland: un Paese polarizzato, segnato da tensioni razziali, disuguaglianze economiche e un sistema politico sempre più paralizzato dai conflitti interni.

            Il collasso di una superpotenza

            In questo contesto, la rielezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti è vista da Mosca come l’elemento che potrebbe accelerare il collasso di questa superpotenza. Non si tratta di simpatia o di un’alleanza strategica con l’ex presidente americano. Al contrario, Putin e il suo entourage sembrano essere pienamente consapevoli del fatto che Trump non sarà un leader facile con cui trattare, né tanto meno un amico della Russia. Ma proprio per questo motivo, lo considerano il leader ideale per alimentare ulteriormente le divisioni interne agli Stati Uniti.

            Il suo peggior nemico

            Secondo questa visione, Trump non è il salvatore dell’America, ma il suo peggior nemico. La sua retorica divisiva, il suo stile di governo imprevedibile e la sua tendenza a sfidare le istituzioni democratiche sono considerati il catalizzatore perfetto per portare l’America più vicina al baratro. E in un mondo in cui il cinema spesso anticipa o rispecchia le ansie della realtà, Civil War diventa una lente attraverso cui il Cremlino osserva e spera di capire l’evoluzione del nemico numero uno.

            Trump non è visto come un alleato della Russia

            Mikhail Zygar, giornalista russo in esilio, ha descritto con lucidità questa strategia in una sua analisi: “Trump non è visto come un alleato della Russia, ma come un’arma contro l’America stessa. La sua rielezione è considerata un’opportunità per alimentare il caos e accelerare la disgregazione degli Stati Uniti”.

            La lettura russa di Civil War non è casuale. Il film, con la sua rappresentazione spietata di un’America che implode sotto il peso delle sue contraddizioni, risuona profondamente in un Paese che da sempre guarda agli Stati Uniti come a un rivale da superare. Il Cremlino ha trasformato questa opera cinematografica in una sorta di mappa geopolitica: una guida simbolica alle fragilità americane e un modo per rafforzare la propria narrativa di un Occidente in declino.

            Ma quanto di questa visione è realtà e quanto è solo un desiderio proiettato? L’America è davvero sull’orlo di un collasso simile a quello immaginato da Garland, o il Cremlino esagera deliberatamente per alimentare la sua propaganda interna? Quello che è certo è che il ritorno di Trump alla Casa Bianca promette di portare nuove sfide, non solo per gli Stati Uniti ma per l’intero equilibrio globale.

            E mentre Civil War continua a essere trasmesso come un avvertimento distopico, per Putin e il suo entourage è qualcosa di più: una possibile profezia che attendono con impazienza di vedere avverarsi. Forse Hollywood non cambierà il mondo, ma l’idea che possa farlo rende il gioco geopolitico ancora più interessante, e decisamente inquietante.

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              Cronaca

              Siete dei latitanti? Scappate qui… non vi prenderanno mai

              Ecco i Paesi nel mondo in cui non valgono gli accordi per l’estradizione nei quali è possibile rifugiarsi per sfuggire al carcere italiano.

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                Quali sono i Paesi che non hanno accordi di estradizione con l’Italia o che non estradano cittadini italiani latitanti verso il nostro Paese? Il loro elenco può variare e dipendere da diversi fattori. Dalla mancanza di trattati bilaterali alle leggi nazionali che proteggono i delinquenti dalla estradizione, o per considerazioni politiche e diplomatiche.

                I Paesi dove si rischia meno

                Nella lista dei Paesi che spesso non hanno accordi di estradizione con l’Italia o che pongono restrizioni all’estradizione troviamo la Cina che per impostazioni politiche spesso non estrada i propri cittadini. Segue la Russia che ha una politica restrittiva riguardo l’estradizione dei propri cittadini ma non nei confronti di cittadini italiani che hanno commesso crimini. Il Vietnam come la Cina, il raramente estrada i propri cittadini così come l’Arabia Saudita che non concede l’estradizione per vari motivi, inclusi quelli religiosi e politici. L’Iran non ha accordi di estradizione con molti paesi occidentali, compresa l’Italia. La Corea del Nord è estremamente improbabile che accetti qualsiasi richiesta di estradizione.

                La mancanza di cooperazione aiuta la malavita

                Cuba storicamente rifiutata molte richieste di estradizione da paesi occidentali. In Somalia la mancanza di un governo centrale stabile rende difficile qualsiasi cooperazione internazionale sull’estradizione. Così pure in Siria Paese nel quale le attuali condizioni politiche e di sicurezza impediscono accordi di estradizione efficaci. Tutti i Paesi senza relazioni diplomatiche con l’Italia come Bhutan o Tuvalu, Stato insulare polinesiano, potrebbero non avere accordi di estradizione semplicemente perché non hanno relazioni diplomatiche stabilite con l’Italia.

                I magnifici nove

                I Paesi nel mondo in cui con certezza non valgono gli accordi per l’estradizione – e quindi quelli in cui è possibile rifugiarsi per sfuggire al carcere in Italia – sono nove in tutto: dal Nepal alla Cambogia, dalle Seychelles alla Malesia, da Capo Verde al Belize. E inoltre Giamaica, Madagascar e Namibia. In Italia l’estradizione è regolata dall’articolo 13 del codice penale italiano che stabilisce come sia regolata dalla legge penale italiana, dalle convenzioni e dagli usi internazionali. Il nostro Paese, dal 1873, ha stipulato diversi accordi di estradizione bilatere con la maggior parte dei Paesi nel mondo.

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