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Curiosità

Rimozione forzata. Quando il tatuaggio non ti piace più

Se stai pensando di rimuovere un tatuaggio, è importante consultare un medico estetico qualificato per discutere le opzioni disponibili e valutare i rischi e i benefici di ogni metodo.

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    Alzi la mano chi non ha almeno un piccolo tatuaggio sul proprio corpo. Pochi. La moda di tatuarsi parti del corpo, ormai ultradecennale, è ancora molto popolare. Ognuno gli dà il peso che vuole. Diventa un simbolo, uno sfizio, una scelta fatta in un momento particolare della propria vita. A ciascuno il significato che merita. Tuttavia, capita che col tempo qualcuno possa pentirsi e decidere di rimuoverli. Già. La domanda successiva è: come fare? Sono disponibili diverse tecniche ma prima di decidere bisogna informarmi bene. Anzi benissimo su cosa si va incontro.

    Ma una volta che lo fai perché lo togli?

    Secondo una ricerca del 2019 dell’Istituto Superiore di Sanità, le principali motivazioni per cui si desidera cancellare un tatuaggio sono: la perdita di significato del disegno (51,3%), non piace più (39,3%), il colore sbiadito (15,9%), motivi lavorativi (11,4%), motivi di salute improvvisi (11,4%), valutazioni preliminari del medico estetico.

    Alcune regole prima di procedere

    Prima della rimozione il medico estetico deve valutare bene la dimensione e profondità del tatuaggio, zona del corpo in cui è situato, numero di interventi e costi, caratteristiche del pigmento, metodi meccanici e chirurgici. Per rimuovere il tatuaggio si può intervenire con la dermoabrasione per la quale si utilizza il cloruro di sodio per causticare il tessuto. È una tecnica ormai quasi abbandonata. Oppure si possono utilizzare frese rotanti per rimuovere gli strati superficiali della pelle fino al pigmento. Con la criochirurgia si applica azoto liquido per necrotizzare i tessuti ma questa è una tecnica poco praticata per il rischio di cicatrici. Un’altra tecnica prevede l’asportazione chirurgica ideale per i piccoli tatuaggi, spesso utilizzata in caso di reazioni allergiche.

    Metodi chimici o laser

    Oggi i medici utilizzano principalmente l’acido tricloroacetico per i peeling chimici, anche se è una pratica meno comune a causa del rischio di necrosi e infiammazioni. Ma il metodo più utilizzato è quello del laser più efficace e sicuro. Funziona frammentando il pigmento, che viene poi eliminato dal sistema immunitario. Il laser “Q-Switched” è il più comune, utilizzato per diversi colori di pigmenti come il Ruby: 694 nm, efficace su nero, blu e verde. Nd: 1064 nm e 532 nm, efficace su nero, blu scuro, rosso, arancione e alcuni gialli. Alessandrite: 755 nm, efficace su nero, blu e verde. Negli ultimi anni sono stati sviluppati anche laser a picosecondi, più efficaci nel rimuovere i tatuaggi color pastello e quelli già trattati.

    Tatuaggi a fini medici

    Esiste anche la dermopigmentazione correttiva, utilizzata per scopi medici, come la ricostruzione dell’areola e del capezzolo, il trattamento di cicatrici e altre patologie della pelle. Questa tecnica può aiutare a migliorare il benessere mentale di chi la sceglie.

    Quante sedute sono necessarie?

    Di solito servono dalle quattro alle dieci sedute per rimuovere un tatuaggio. Tuttavia, i tatuaggi multicolore e quelli realizzati da professionisti possono richiedere più tempo e, in alcuni casi, l’utilizzo di più tipologie di laser.

    Rischi e le eventuali complicanze

    La rimozione del tatuaggio può comportare: alterazioni della pigmentazione (ipopigmentazione o iperpigmentazione, formazione di croste, vescicole, eritema transitorio e sanguinamento, reazioni allergiche dovute ai pigmenti.

    Il costo della rimozione

    Rimuovere un tatuaggio costa circa 150 euro per una piccola seduta, Una cifra che sale a 350 euro per tatuaggi estesi, Il numero di sedute dipende dalle caratteristiche del tatuaggio e viene deciso dal medico estetico.

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      Curiosità

      Dal Medio Oriente a Greccio: la lunga storia del presepe

      Dai primi richiami iconografici delle catacombe alla svolta di San Francesco nel 1223: ecco come è nato il presepe e perché è diventato un simbolo radicato nella cultura italiana.

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      presepe

        Una tradizione che affonda le radici nei primi secoli del Cristianesimo

        Il presepe, oggi presenza quasi scontata nelle case italiane durante il periodo natalizio, ha un’origine molto più antica e complessa. Le prime rappresentazioni della Natività compaiono già tra il III e il IV secolo d.C., soprattutto nelle catacombe romane, dove le comunità cristiane raffiguravano la nascita di Gesù attraverso pitture rudimentali: la Vergine, il Bambino e, talvolta, il bue e l’asino. Non si trattava ancora di presepi nel senso moderno, ma di immagini destinate alla venerazione e alla trasmissione del messaggio cristiano.

        Durante l’epoca bizantina e medievale, la scena della Natività diventò un tema ricorrente nelle chiese, nei mosaici e negli affreschi d’Europa. Tuttavia, la rappresentazione era ancora esclusivamente artistica, non tridimensionale e non legata a un contesto domestico o sociale.

        La svolta di San Francesco: il presepe “vivente” del 1223

        La nascita del presepe come lo intendiamo oggi viene comunemente attribuita a San Francesco d’Assisi. Secondo le Fonti Francescane, nel 1223 il santo organizzò a Greccio, in provincia di Rieti, una rievocazione della Natività con persone, animali e una mangiatoia reale. L’obiettivo non era decorativo ma spirituale: far comprendere, anche ai meno istruiti, il significato concreto e umano della nascita di Cristo.

        Papa Onorio III autorizzò quell’iniziativa, che divenne presto un modello imitato in molte comunità monastiche e parrocchie. Il presepe assunse così un valore catechistico, diventando uno strumento di divulgazione religiosa accessibile e immediato.

        Dal sacro all’arte: l’evoluzione dei presepi in Europa

        Nel tardo Medioevo e nel Rinascimento, il presepe iniziò a trasformarsi in una forma d’arte. Le prime statue in terracotta o legno compaiono nelle chiese italiane tra il XIV e il XV secolo. A Napoli, in particolare, si sviluppò una tradizione destinata a diventare famosa in tutto il mondo: quella del presepe barocco, ricco di personaggi, ambienti quotidiani e figure popolari.

        Tra il Seicento e il Settecento le famiglie aristocratiche commissionavano veri e propri scenari monumentali, arricchiti da pastori, venditori ambulanti, botteghe, locande e paesaggi complessi. Anche il Regno delle Due Sicilie contribuì alla diffusione del presepe artistico, con artigiani come i Ferrigno o gli scultori della scuola napoletana che ne fecero un simbolo culturale.

        In contemporanea, in altre regioni europee — come la Provenza con i santons, la Germania con i presepi in legno intagliato e la Spagna con i belén — la tradizione si diffuse e si radicò, assumendo caratteristiche locali.

        Il presepe domestico: una tradizione popolare del Novecento

        È solo tra Ottocento e Novecento che il presepe diventa una presenza stabile nelle case. Con la produzione industriale di statuine in gesso e, successivamente, in plastica, la scena della Natività diventa accessibile a tutti. L’Italia, in particolare, mantiene un ruolo centrale nella produzione e nell’artigianato, con poli storici come Napoli, Lecce, Trento e Genova.

        Oggi il presepe è un simbolo culturale e familiare più che strettamente religioso: un racconto visivo che unisce storia, fede, tradizione e creatività. Ogni regione ha sviluppato varianti tipiche, dai presepi viventi ai diorami, fino ai presepi meccanici e artistici.

        Una storia che continua

        La tradizione del presepe, partita dalle prime comunità cristiane e consolidata dall’intuizione di San Francesco, è oggi un patrimonio riconosciuto in tutto il mondo. La sua evoluzione dimostra come un gesto devozionale sia diventato un linguaggio artistico capace di rinnovarsi, mantenendo intatto il suo valore simbolico e identitario.

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          Curiosità

          Le tracce dell’intelligenza: cosa rivelano le abitudini di chi ha un QI più alto

          Dalle routine solitarie alla curiosità insaziabile, passando per l’autocontrollo: diversi studi mostrano che alcuni tratti ricorrenti sono più frequenti nelle persone con quoziente intellettivo elevato. Ecco quali.

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          Le tracce dell’intelligenza: cosa rivelano le abitudini di chi ha un QI più alto

            L’intelligenza non è un concetto semplice: non coincide con la cultura, né con il successo lavorativo, e non può essere ridotta a un numero isolato. Tuttavia, anni di studi psicologici hanno evidenziato che alcune abitudini quotidiane tendono a essere più diffuse tra individui con QI sopra la media, pur senza rappresentare una prova certa del loro livello cognitivo. Sono segnali, non diagnosi—tendenze statistiche che raccontano solo una parte della complessità umana.

            Preferenza per la solitudine

            Una delle correlazioni più discusse arriva da uno studio pubblicato sul British Journal of Psychology, secondo cui le persone con QI elevato mostrano più spesso una propensione a passare del tempo da sole. Non si tratta di antisocialità, ma della necessità di spazi tranquilli per riflettere, ricaricarsi e concentrarsi. La solitudine, in questi casi, diventa un mezzo per elaborare idee complesse o progetti personali.

            Curiosità e voglia di capire

            Un tratto quasi universale è la curiosità intellettuale. Chi possiede un’intelligenza superiore tende a fare domande, indagare ciò che non conosce e non accontentarsi delle prime risposte. La ricerca psicologica parla di “apertura mentale” (openness to experience), un fattore di personalità collegato sia alla creatività che alla capacità di apprendimento continuo.

            Lettura e consumo di contenuti complessi

            Molti studi hanno notato una maggiore propensione alla lettura, soprattutto di testi impegnativi o specialistici, così come alla fruizione di contenuti più articolati — podcast scientifici, documentari, approfondimenti. Non è tanto la quantità quanto la qualità: chi ha un QI elevato cerca stimoli che lo sfidino.

            Autocontrollo e capacità di pianificazione

            Secondo una ricerca pubblicata su Psychological Science, esiste una correlazione tra capacità cognitive e autocontrollo. In esperimenti su decisioni finanziarie e scelte impulsive, gli individui con QI più alto tendevano a rimandare la gratificazione per ottenere risultati migliori nel lungo periodo. Anche la pianificazione a medio-lungo termine risulta spesso più strutturata.

            Autoironia e humor complesso

            L’umorismo può essere un indicatore rivelatore. Lavori pubblicati su Intelligence hanno mostrato che l’apprezzamento per forme di comicità più elaborate — ironia, paradossi, humour nero — è più frequente in chi possiede una maggiore intelligenza verbale e astratta. Un tipo di comicità che richiede di afferrare rapidamente più livelli di significato.

            Disordine creativo (ma non sempre)

            Nonostante il luogo comune che associa l’intelligenza al caos creativo, la scienza non dà un verdetto definitivo. Alcuni studi sostengono che un ambiente leggermente disordinato possa stimolare il pensiero divergente; altri mostrano che un contesto ordinato favorisce concentrazione e autocontrollo. In realtà, la correlazione non è univoca: il disordine non è un indicatore di QI, ma può essere un effetto collaterale di uno stile di lavoro mentale più fluido.

            Pensiero critico e dubbio costante

            Chi ha un QI elevato raramente accetta un’informazione così com’è. Il dubbio non è sfiducia, ma uno strumento cognitivo. Analizzare le fonti, mettere in discussione i propri pregiudizi, valutare pro e contro: tutto questo richiede tempo, energie e una certa abilità nel gestire la complessità.

            Le abitudini possono suggerire molto, ma è bene ricordare che non definiscono l’intelligenza. Una persona può essere brillante senza amare la solitudine, oppure curiosa senza essere ordinata. Ciò che emerge davvero dagli studi è che le persone con QI elevato tendono a coltivare flessibilità mentale, interesse per il mondo e un costante desiderio di apprendere. Caratteristiche che possono essere sviluppate da chiunque, indipendentemente dai test.

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              Curiosità

              Pandoro o panettone? La sfida delle feste tra tradizione, gusti e creatività in cucina

              Dalla storia alle varianti gourmet, fino ai consigli degli esperti per scegliere e servirli al meglio: una guida per affrontare il duello più dolce del Natale.

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              Panettone o pandoro?

                Quando il Natale si avvicina, sulle tavole italiane si riaccende un duello che nessuna tregua gastronomica sembra riuscire a spegnere: panettone contro pandoro. Due dolci iconici, diversissimi nella struttura, nelle origini e nella percezione collettiva. Entrambi tutelati dal marchio di “prodotto da forno a lievitazione naturale” secondo un disciplinare del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ma con identità ben distinte.

                Il panettone, nato a Milano tra XV e XVI secolo secondo le versioni più accreditate, è caratterizzato da un impasto lievitato e arricchito con uvetta e canditi, previsti obbligatoriamente dal disciplinare per essere definito tale. Oggi convivono infinite varianti – dal cioccolato alle creme spalmabili, dalla frutta esotica alle versioni senza zuccheri aggiunti – ma l’aroma agrumato della scorza d’arancia rimane la firma più riconoscibile.

                Il pandoro, invece, arriva da Verona e vanta radici ottocentesche. Il suo impasto, morbido e compatto, è ricco di burro e uova e deve la sua soffice fragranza alla lunga lievitazione. Privo di canditi o frutta, è il dolce “neutro” per eccellenza, spesso preferito da chi cerca una dolcezza più semplice. La caratteristica forma a stella a otto punte e lo zucchero a velo – da spargere al momento – ne completano il rito.

                Negli ultimi anni la competizione si è fatta ancora più serrata, complice la crescita dei piccoli laboratori artigianali e delle pasticcerie di alta qualità. Molti consumatori, infatti, cercano prodotti lievitati naturalmente per almeno 24-36 ore, con ingredienti selezionati e senza conservanti aggiunti. Le vendite confermano una tendenza in crescita: secondo i dati dell’Unione Italiana Food, tra panettoni e pandori il mercato supera ogni anno i 100 milioni di pezzi venduti, con il panettone che registra un aumento costante, soprattutto nelle versioni “creative”.

                Ma come scegliere tra i due protagonisti natalizi? Gli esperti suggeriscono di valutare alcune caratteristiche chiave. Nel panettone è fondamentale l’alveolatura dell’impasto: deve essere irregolare e ben sviluppata, indice di una lievitazione corretta. Il profumo deve richiamare burro e agrumi, mentre la cupola deve risultare elastica. Per il pandoro, invece, la qualità si riconosce dalla sofficità: la fetta deve “strappare” con leggerezza e non risultare asciutta. Il colore giallo intenso è un buon indicatore della ricchezza dell’impasto.

                La sfida, però, non si ferma al prodotto: anche il modo in cui vengono serviti cambia il risultato in tavola. Il panettone, ad esempio, dà il meglio di sé se tagliato a spicchi verticali dopo averlo lasciato a temperatura ambiente per almeno un’ora. Il pandoro, invece, può essere porzionato a fette orizzontali per ottenere la classica “stella” che spesso diventa la base per creme al mascarpone, chantilly o gelati.

                Gli abbinamenti sono un altro terreno fertile per la creatività. Il panettone tradizionale si sposa con vini aromatici come Moscato d’Asti o Passito di Pantelleria, mentre le versioni al cioccolato trovano un alleato ideale nei rum o nei distillati morbidi. Il pandoro, più delicato, predilige spumanti dolci e bollicine leggere, ma può diventare sorprendente se accompagnato da creme agrumate che spezzano la sua dolcezza.

                Sul fronte dei consumatori la sfida resta aperta: chi apprezza la complessità del panettone difficilmente rinuncia ai canditi, mentre chi ama le consistenze più soffici dichiara fedeltà assoluta al pandoro. Eppure, nelle cucine di molti italiani cresce una tregua inedita: la convivenza pacifica dei due dolci sulla stessa tavola, spesso affiancati da versioni “limited edition”, glasse artigianali e farciture gourmet.

                Alla fine, forse, il vero vincitore non è l’uno né l’altro, ma la possibilità di trasformare questa rivalità gastronomica in un’occasione per condividere sapori e tradizioni. Perché, sotto l’albero, c’è spazio per tutti: per la cupola profumata del panettone e per la morbida eleganza del pandoro, entrambi ambasciatori di un Natale che, almeno a tavola, riesce sempre a mettere tutti d’accordo.

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