Società
Convivenza… vade retro! Quando vivere separati è meglio
Dalle coppie comuni a Hollywood, sempre più innamorati scelgono di vivere in case separate. Meno routine, più passione. L’amore a distanza (ma senza lasciarsi) sta diventando il segreto di molte relazioni felici.

Ci hanno insegnato che l’amore si nutre di vicinanza, di gesti quotidiani e di abitudini condivise sotto lo stesso tetto. Eppure sembra che la convivenza non sia più di moda. Sempre più coppie stanno riscrivendo le regole della relazione ideale, scegliendo di vivere separate pur restando profondamente legate. Non si tratta di una separazione affettiva, ma di una decisione consapevole per preservare la propria autonomia, abitudini, mantenendo viva la passione ed evitando il rischio della monotonia.
L’amore oltre la convivenza: quando separati è meglio
In un mondo che corre veloce e in cui il tempo personale è spesso sacrificato, alcuni innamorati hanno capito, quindi, che l’indipendenza può rafforzare il legame invece di minarlo. Gwyneth Paltrow e Brad Falchuk, ad esempio, hanno vissuto in case separate per un anno dopo il matrimonio, permettendo ai loro figli di adattarsi alla nuova realtà senza forzature. Ashley Graham e Justin Ervin, invece, hanno scelto di non passare più di due settimane lontani, trasformando ogni incontro in un momento speciale.
Un metodo per rinnovare il desiderio?
L’amore a distanza (o in due case diverse) permette di conservare un senso di mistero, di dare spazio alla crescita personale e di ritrovarsi con un desiderio rinnovato. Ogni incontro diventa un’occasione preziosa, un momento da vivere con intensità e non solo come parte della routine quotidiana.
E c’è chi lo fa per necessità
Ci sono coppie che vivono divise a causa degli impegni di lavoro o situazioni familiari. Ma ce ne sono altre che lo fanno per scelta, riconoscendo che l’amore non si misura in chilometri, ma nella qualità del tempo trascorso insieme. Forse un giorno l’idea della convivenza come unico modello relazionale perderà il suo carattere assoluto per essere sostituita da un approccio più fluido e personalizzato, in cui ogni coppia potrà trovare il proprio equilibrio. Perché l’amore, in fondo, non è una questione di metri quadri condivisi, ma di connessione autentica e desiderio reciproco.
INSTAGRAM.COM/LACITYMAG
Società
Instagram svela i like degli amici. Benvenuti nel grande reality dei segreti social
Una nuova funzione ci permette di vedere i contenuti che i nostri seguiti apprezzano. Tra sorprese, contraddizioni e qualche scivolone, scopriamo chi sono davvero… o forse avremmo preferito non saperlo.

Era tutto più semplice quando si poteva credere che la propria cerchia di amici e conoscenti avesse gusti impeccabili e fosse coerente con ciò che condivideva. Ma Instagram ha deciso di alzarci il sipario sulla realtà, quella vera, mostrando a tutti i like che lasciamo in giro. E così, quello che fino a ieri era un segreto solo per noi, oggi è diventato un racconto trasparente della nostra personalità nascosta. E così scopri che la tua migliore amica mette like su tutti i post di energumeni culturisti appena usciti dalla palestra e intanto pensi: avrà certe voglie da soddisfare? Lo stesso vale per il tuo ex che scopri solerte frequentatore di improbabili post con super tettone e un lato B made in sudamerica. E’ l’effetto digital bellezza…
La vendetta di Instagram
Ora possiamo sbirciare tra gli apprezzamenti di chi seguiamo, scoprendo che il paladino dei diritti potrebbe mettere cuoricini a post di politici che quei diritti li vorrebbero annientare. Oppure scopri che la ragazza sempre spensierata nelle foto ha una collezione di citazioni malinconiche sotto le sue dita. E del cinefilo che disprezza i blockbuster che non si perde un reel dei cinepanettoni ne vogliamo parlare… Ci sono coppie da favola che nella vita digitale postano solo tramonti romantici, ma nei loro like spuntano contenuti che suggeriscono le loro più recondite perversioni. E che dire dell’ex collega che pubblica con orgoglio le foto della sua carriera, ma riempie di cuoricini i meme sugli ambienti lavorativi tossici. Il ragazzo che critica la superficialità delle relazioni, ma non si perde neanche un contenuto «soft» delle sue influencer preferite.
E poi ci sono i timidi, quelli che non postano mai nulla, ma passano ore e ore a scrollare, lasciando like discreti su contenuti profondi, curiosi o divertenti. Insomma, tra la vita che si mostra e quella che si scopre nei dettagli, questo nuovo Instagram potrebbe far emergere verità che nessuno aveva richiesto.
Ma la domanda è: sapere tutto questo renderà i social meno spontanei?
Se gli utenti sapranno che i loro like sono di dominio pubblico, inizieranno a limitarsi, evitando di esprimere il proprio reale interesse? Niente affatto, proseguno imperterriti. Insomma, eravamo tutti pronti a farci vedere nelle stories, ma siamo davvero pronti a essere scoperti nei nostri like? Se davvero vale il motto «Dimmi cosa apprezzi e ti dirò chi sei», forse è il momento di scegliere più saggiamente dove cliccare quel cuoricino. Oppure, molto semplicemente… di tornare a guardare senza lasciare tracce.
Società
Dialetti d’Italia: quanti sono e dove si parlano di più. Ecco la mappa regione per regione
Un patrimonio linguistico vasto e diversificato rende l’Italia uno dei paesi più ricchi di varietà dialettali in Europa. Ecco la mappa delle principali lingue e dialetti sul nostro territorio.

L’Italia non è solo la culla della lingua italiana, ma anche un mosaico di dialetti e lingue locali che raccontano la storia, la cultura e le tradizioni delle diverse regioni. Nonostante l’italiano sia la lingua ufficiale, il nostro paese è un vero e proprio tesoro linguistico, con almeno 13 lingue tutelate per legge e un numero di dialetti che potrebbe superare il centinaio.
Lingue e dialetti: un’Italia multilingue
Accanto all’italiano, si parlano quotidianamente lingue come il napoletano, il veneto, il sardo, il friulano, il siciliano, il piemontese, il lombardo, l’emiliano-romagnolo e il ligure, tutte riconosciute come espressioni linguistiche fondamentali del patrimonio culturale nazionale. A queste si aggiungono le lingue delle minoranze linguistiche ufficialmente tutelate, come il tedesco nel Trentino-Alto Adige, il francese in Valle d’Aosta e lo sloveno in Friuli Venezia Giulia.
Ma non è tutto: in molte regioni italiane, i dialetti si ramificano ulteriormente. In Sicilia, ad esempio, il dialetto siciliano presenta varianti significative a seconda delle province. Lo stesso fenomeno si riscontra in Veneto, Sardegna, e perfino in regioni centrali come Abruzzo, Marche e Umbria, dove le differenze tra un paese e l’altro possono essere sostanziali.
Dove si parla di più il dialetto in Italia?
Secondo recenti analisi statistiche, le regioni dove i dialetti sono ancora largamente utilizzati sono la Campania e il Veneto. In Campania, oltre il 30% della popolazione usa il dialetto come lingua principale nella vita quotidiana, una percentuale che si avvicina ai livelli del Veneto. Tuttavia, l’uso del dialetto cala drasticamente nei grandi centri urbani e tra le nuove generazioni, con gli anziani che rimangono i principali custodi di queste parlate tradizionali.
Un patrimonio in continua evoluzione
Oltre ai dialetti italiani, l’Italia è anche arricchita dalla presenza di lingue parlate da comunità straniere, come russo, arabo, cinese, ucraino, e persino lingue meno diffuse come swahili, urdu e coreano, portate da chi ha scelto il nostro paese come nuova casa.
Questa diversità linguistica fa dell’Italia un luogo unico, dove passato e presente convivono. I dialetti, pur subendo un calo generazionale, continuano a rappresentare un valore inestimabile per chi li parla, ricordando che ogni regione ha la sua voce e la sua storia.
Società
Smart working sotto controllo? No, la geolocalizzazione dei dipendenti è vietata
Una società regionale della Calabria è stata multata per aver monitorato la posizione dei lavoratori in remoto. Il Garante della privacy interviene: nessun datore di lavoro può tracciare la posizione dei dipendenti, perché viola i principi di dignità e libertà.

Lavorare da casa significa maggiore autonomia e flessibilità, ma non per tutti. In Calabria, una società regionale ha provato a controllare i propri dipendenti in smart working. Ha chiesto loro di attivare la geolocalizzazione di pc e smartphone per verificare che lavorassero dall’indirizzo dichiarato. Il risultato? Una multa di 50mila euro inflitta dal Garante per la privacy, che ha ribadito un principio fondamentale: nessun datore di lavoro può tracciare la posizione geografica dei suoi dipendenti in remoto.
Il controllo a distanza multato
La vicenda riguarda Arsac, l’Azienda Regionale per lo Sviluppo Agricolo della Calabria, che ha adottato un sistema di controllo a distanza. Ai lavoratori veniva richiesto di timbrare digitalmente in entrata e in uscita tramite un’applicazione chiamata Timerelax. Ma non solo. Subito dopo dovevano dichiarare via e-mail la loro posizione. In alcuni casi, l’azienda contattava i dipendenti telefonicamente e chiedeva loro di attivare la geolocalizzazione per verificare se fossero davvero nel luogo indicato nell’accordo di smart working. Chi risultava altrove rischiava un procedimento disciplinare.
Geolocalizzare i lavoratori: perché è vietato?
Il Garante ha sottolineato che una sorveglianza di questo tipo è in contrasto con le normative sulla protezione dei dati personali e con lo Statuto dei lavoratori, che tutela la dignità e la libertà individuale. Monitorare in modo costante la posizione di un dipendente significa ridurre il suo spazio di libertà, trasformando il lavoro remoto in una sorta di tele-sorveglianza continua. Il datore di lavoro, anche se titolare del trattamento dei dati, deve rispettare i principi della privacy: non può utilizzare strumenti tecnologici perseguendo il controllo diretto delle attività dei lavoratori, perché ciò comporta una compressione della dignità personale.
Il caso calabrese non è isolato
Sempre più aziende cercano sistemi per verificare l’effettiva presenza dei lavoratori nelle sedi dichiarate. C’è chi impone la videocamera accesa, chi controlla gli accessi ai sistemi aziendali e chi utilizza software di monitoraggio delle attività. Tutti questi strumenti possono essere leciti solo se rispettano precise condizioni: devono essere dichiarati, regolamentati e non devono mai ledere i diritti fondamentali della persona.
Il reclamo della dipendente che fa scattare l’indagine
A far emergere il caso è stata una dipendente di Arsac, che ha presentato un reclamo contestando il procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti. Secondo l’azienda, la geolocalizzazione era solo un’esigenza organizzativa e di sicurezza, e non aveva finalità punitive. La lavoratrice, però, ha dimostrato che la sua posizione era stata verificata a distanza senza consenso esplicito, generando una contestazione disciplinare. Il Garante ha stabilito che la società ha violato le norme sulla privacy, infliggendo una multa di 50mila euro. Il trattamento dei dati con la geolocalizzazione è vietato, perché non rispetta né le regole in materia di protezione dei dati personali, né quelle speciali in tema di lavoro agile.
Una pratica diffusa?
L’avvocata Paola Zanellati, esperta di diritto del lavoro e privacy, sottolinea un problema sistemico. “Ciò che sorprende è che le aziende continuano a commettere gli stessi errori”, afferma. “Videosorveglianza, geolocalizzazione, controllo degli accessi: nonostante la normativa sia chiara, le imprese ancora violano le regole”. Quanti altri datori di lavoro stanno utilizzando strumenti di tracciamento senza che i dipendenti lo sappiano? Questa vicenda potrebbe essere solo la punta dell’iceberg, un caso emblematico di controllo illecito mascherato da esigenza organizzativa.
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