Cronaca
Papa Prevost e il nome mancato: “Aveva pensato di chiamarsi Agostino”
Il cardinale Filoni svela che Leone XIV avrebbe voluto omaggiare il suo ordine religioso scegliendo il nome del grande Dottore della Chiesa. Poi la decisione: “Ha ritenuto più opportuno ispirarsi alla tradizione di Leone XIII e dei grandi pontefici del passato”

In un momento di solennità assoluta, quando la voce del cardinale protodiacono ha annunciato dalla loggia centrale di San Pietro il nome del nuovo Papa – Leone XIV – in pochi avrebbero potuto immaginare che quel nome, destinato a entrare nei libri di storia, non fosse stata la prima scelta del neoeletto Pontefice. Robert Francis Prevost, infatti, aveva preso seriamente in considerazione un’altra possibilità, più intima e forse più personale: chiamarsi Agostino.
A rivelare questo retroscena è stato il cardinale Fernando Filoni, uno dei porporati presenti in Conclave, intervistato da Il Fatto Quotidiano. “Inizialmente Prevost aveva anche pensato alla possibilità di chiamarsi Agostino – ha raccontato – ma, alla fine, ha ritenuto che fosse meglio Leone”. Parole brevi, che però svelano molto più di quanto sembri.
Perché quel nome accarezzato e poi lasciato da parte, Agostino, non era un vezzo personale né una semplice suggestione. Era il riflesso profondo della vocazione religiosa di Papa Prevost, membro dell’Ordine di Sant’Agostino, uno degli istituti più antichi e colti della Chiesa cattolica, custode del pensiero del Dottore della Grazia. Un pensiero che ha segnato secoli di teologia, filosofia, spiritualità, cultura europea.
Agostino, per un agostiniano, non è solo un riferimento spirituale: è un punto di origine, una visione del mondo, un modo di vivere il sacro. Avrebbe potuto essere – se scelto – un programma pontificale fortemente identitario, incentrato sulla centralità dell’interiorità, sull’inquietudine come motore della fede, sulla tensione costante tra libertà e grazia.
Ma poi, nel momento cruciale, Robert Prevost ha scelto diversamente.
Ha scelto Leone. E questo, se possibile, racconta ancora di più.
Secondo molti osservatori, Leone XIV ha voluto rendere omaggio a Leone XIII, il pontefice che a cavallo tra XIX e XX secolo diede avvio a una nuova stagione della Chiesa nel mondo moderno, con l’enciclica Rerum Novarum e un impegno costante su lavoro, diritti, giustizia sociale. Il cosiddetto “Papa dei lavoratori”, ponte tra dottrina e contemporaneità, tra autorità e compassione.
Ma la scelta del nome Leone potrebbe contenere anche richiami più antichi, come quello a Leone I Magno, il Papa che fermò Attila, non con la forza delle armi ma con l’autorità morale e spirituale della parola. Un richiamo alla leadership forte ma non autoritaria, alla capacità di reggere la Chiesa nei tempi di burrasca.
La doppia suggestione – Agostino e Leone – mostra le due anime del nuovo Pontefice: una spirituale e contemplativa, radicata nella tradizione monastica agostiniana, e una pastorale e riformista, consapevole del bisogno di guidare la Chiesa in un’epoca complessa e polarizzata.
Il cardinale Filoni, parlando di quella scelta, ha sottolineato anche il clima positivo che ha accolto l’elezione di Prevost nel Conclave: “Personalmente sono molto soddisfatto, ma credo di poter dire che tutti quelli che ho incontrato tra i confratelli cardinali hanno manifestato grande gioia. Una gioia che si è rafforzata per la simpatia umana e la cordialità che Papa Leone ha espresso fin da subito”.
E infatti la scelta di Leone XIV sembra voler unire in un unico nome ciò che i cardinali hanno cercato nel nuovo Papa: solidità e apertura, carisma e dottrina, fermezza e ascolto.
Il nome “Agostino”, sebbene non sia stato scelto, resta come un’ombra luminosa, un riferimento interiore che probabilmente continuerà a guidare il pensiero del Pontefice. È la radice invisibile da cui sgorga un pontificato che molti già immaginano improntato alla riflessione, alla giustizia sociale, alla spiritualità più profonda.
Se Leone sarà il volto pubblico del Papa, Agostino ne sarà forse l’anima.
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Italia
Quel missionario diventato Leone XIV sfidò le bombe per restare accanto al popolo peruviano
Da giovane sacerdote agostiniano, Robert Prevost affrontò le minacce di Sendero Luminoso e scelse di non abbandonare la sua comunità in Perù.

Prima di diventare Papa Leone XIV, Robert Prevost era un giovane missionario con lo spirito ribelle e la determinazione di chi non abbandona la propria gente. Arrivato in Perù nel 1985, in uno dei periodi più bui della storia del Paese, affrontò direttamente le minacce del gruppo guerrigliero maoista Sendero Luminoso, che cercò di allontanarlo con intimidazioni e atti di violenza. Ma Prevost non si fece spaventare. Quando una bomba distrusse la porta della chiesa in cui celebrava messa e le autorità ecclesiastiche gli consigliarono di fuggire, decise di rimanere accanto alla sua comunità. La gente correva da lui, lo ascoltava, lo seguiva nei pellegrinaggi, nei giochi, nelle preghiere.
Un sacerdote fuori dagli schemi
Arrivato a Chulucanas, una città ai margini della giungla, Prevost non era il classico sacerdote austero e distante. Portava jeans, parlava uno spagnolo incerto e giocava a basket con i ragazzi. Hector Camacho, che all’epoca era un giovane chierichetto, lo ricorda come un prete capace di coinvolgere tutti: organizzava attività sportive, assumeva allenatori di karate e nuoto, accompagnava i giovani in spiaggia. Ma la sua vera missione era dare speranza alla comunità e guidarla tra le difficoltà. Lottò per proteggere la sua gente dalla violenza e per costruire una comunità fondata sulla solidarietà, resistendo alle pressioni esterne che volevano costringerlo a lasciare il Paese.
La minaccia e la scelta di restare
Durante la sanguinosa guerra tra Sendero Luminoso e il governo, la Chiesa era spesso bersaglio di attacchi. Molti sacerdoti nordamericani furono minacciati di morte e invitati ad abbandonare le loro parrocchie entro 24 ore, altrimenti sarebbero stati uccisi.Eppure, nessuno di loro lasciò il Perù. Prevost e i suoi compagni rimasero, convinti che il loro ruolo fosse troppo importante per abbandonare le persone che si affidavano a loro. Cristobal Mejia, oggi vescovo di Chulucanas descrive il futuro Leone XIV come un uomo studioso, profondo e determinato, sempre pronto a viaggiare nelle zone rurali per portare conforto e aiuto. Nel 2015 ottenne la cittadinanza peruviana, dimostrando ancora una volta il suo legame indissolubile con il Paese.
Un pastore che odorava di pecora
Il suo impatto sulla comunità è stato così forte che ancora oggi viene descritto come “un pastore che ha odore di pecora”. Un’espressione usata per indicare un leader spirituale che non si è mai distanziato dal suo popolo. Il sacerdote Oscar Antonio Murillo Villanueva racconta che Prevost non rimase mai in silenzio davanti alle ingiustizie. Denunciò i massacri, le inondazioni e l’inerzia dei governi, schierandosi sempre dalla parte dei più deboli. Camacho, il chierichetto che ha vissuto quei momenti al suo fianco, racconta che quando sua madre morì, Prevost rimase incredibilmente calmo, accettando il dolore con fede e serenità.
Fu lo stesso Camacho a chiedere il permesso di dare a sua figlia il nome della madre di Prevost, e il futuro Papa accettò con gioia, diventandone anche il padrino. Mildred Camacho, oggi 29enne e madre di famiglia, conserva ancora le lettere ricevute da lui, dove le raccontava dei suoi viaggi e delle sue missioni. “Mi ha sempre chiesto di tenerlo nelle mie preghiere, così come lui teneva noi nelle sue”, dice mostrando le foto che le inviava.
Italia
Suore in fuga nella battaglia del convento: accuse di gestione sospetta
A Vittorio Veneto, un gruppo di suore ha lasciato il monastero di San Giacomo di Veglia denunciando l’intestazione improvvisa dei conti del convento e un clima di ostilità. Il Vaticano commissaria la struttura, tra polemiche e tensioni.

Nel cuore del monastero di San Giacomo di Veglia, a Vittorio Veneto, si è consumata una vicenda che sembra uscita da una telenovelas. E invece è una storia reale fatta di tensioni, accuse reciproche e una fuga notturna di un gruppo di suore.Tutto ha avuto inizio con una lettera inviata due anni fa a Papa Francesco da quattro suore, che denunciavano presunti maltrattamenti e comportamenti non consoni all’interno della comunità. Dopo diverse ispezioni e indagini, il Vaticano ha deciso di commissariare il convento e di sostituire la badessa Aline Pereira Ghammachi, 41 anni, con una figura più anziana.
Situazione degenerata
Alcune suore hanno denunciato la sparizione di fondi, sostenendo che i nuovi incaricati avrebbero intestato a loro stessi i conti bancari e postali del monastero, per un ammontare di oltre 200mila euro, privandole di qualsiasi controllo sulle risorse della comunità. “Ci hanno esautorato completamente. Spariti i contanti che suor Aline aveva nella sua cella”, hanno dichiarato due delle undici suore fuggite di notte, raccontando di un clima sempre più ostile che le ha costrette a lasciare il convento senza soldi e senza una destinazione certa.
Il convento e le suore fuggitive
Le suore parlano di accanimento contro la loro comunità, che prima si autogestiva secondo lo spirito benedettino, e ora è stata stravolta dall’intervento del Vaticano. Secondo la loro versione, l’abate Lepori avrebbe spezzato l’armonia e imposto nuove regole che hanno portato alla rottura definitiva. Risultato? Una fuga organizzata come un’uscita di prigionieri. Le suore infatti hanno portato di nascosto i bagagli fuori dal convento, allontanandosi alle prime luci del giorno e passando dai carabinieri per notificare l’accaduto. “Siamo scappate senza nemmeno i soldi per la spesa”, raccontano. E aggungono che molte delle attività che facevano parte del convento—come l’orto gestito da ragazzi disabili—sono già state sospese.
Quale futuro per il monastero?
Secondo le suore fuggite, la comunità rimasta nel convento è composta perlopiù da anziane, che faticheranno a gestire tutte le attività senza aiuti esterni. Ritengono che la chiusura sia solo questione di tempo, visto che la nuova badessa ha deciso di allontanare i collaboratori esterni. E soprattutto di ridimensionare, se non annullare, la vita del monastero. E così mentre le gerarchie vaticane difendono la decisione del commissariamento, le suore fuggite continuano a denunciare quanto accaduto, parlando di una realtà distrutta e di un sistema di controllo imposto che ha cancellato lo spirito originale della comunità.
Mondo
Donald Trump trasforma la Casa Bianca in una Mar-a-Lago bis: oro, quadri e persino la Coppa del Mondo sul tavolo
Nello Studio Ovale ora spuntano 20 quadri stretti come sardine, cimeli d’oro e persino una riproduzione del trofeo FIFA. E tra i progetti di Trump c’è pure l’idea di asfaltare il Giardino delle Rose per farne un patio “imperiale”.

Donald Trump e la sobrietà continuano a viaggiare su binari separati. Da sempre amante dell’opulenza senza freni, l’ex presidente e attuale inquilino della Casa Bianca sembra determinato a trasformare lo Studio Ovale in una succursale della sua celebre (e kitschissima) residenza di Mar-a-Lago. L’ultima “trovata”? Oro a profusione, quadri a valanga e una Coppa del Mondo ben in vista dietro la scrivania.






Il regno del kitsch
Il nuovo restyling della Casa Bianca non lascia spazio all’immaginazione: pareti completamente ricoperte da venti ritratti di personaggi storici – da Reagan a Lincoln, passando per Andrew Jackson e Benjamin Franklin – che rischiano di litigare per un centimetro di muro libero. Una scelta che stona con la sobrietà dei predecessori: Biden si era fermato a sei quadri, Obama addirittura a due, lasciando spazio anche all’arte contemporanea.
Grandeur assoluta
Trump, invece, va dritto verso la grandeur assoluta: sulla celebre Resolute Desk, accanto ai consueti telefoni rossi e neri, spunta un fermacarte dorato con il suo cognome a caratteri cubitali, nemmeno fosse la firma di un imperatore romano. Non contento, ha fatto sistemare su un tavolo alle sue spalle la riproduzione della Coppa del Mondo FIFA, una scelta non casuale visto che il Mondiale del 2026 si terrà negli Stati Uniti.
Stile Casamonica
E non finisce qui. Persino il telecomando del presidente sarebbe stato “rivestito” in oro, in perfetto stile Mar-a-Lago, mentre la First Lady Melania assiste (pare non troppo convinta) alle trasformazioni del marito che, già nel 2016, aveva speso quasi 2 milioni di dollari per personalizzare l’ala Ovest della Casa Bianca.
Ma l’ultima idea del tycoon lascia davvero a bocca aperta: l’asfaltatura del Giardino delle Rose per realizzare un patio da usare come spazio di rappresentanza. Sì, avete letto bene: uno dei luoghi simbolo della presidenza americana potrebbe essere trasformato in un’area pavimentata degna della corte di Versailles o di una villa di Las Vegas.
Mentre il mondo osserva con stupore (e qualche risata) questo barocco revival in salsa trumpiana, lo Studio Ovale somiglia sempre più a una sala da tè rococò. Resta solo da capire quale sarà la prossima mossa di Donald “Re Sole” Trump. Un lampadario in cristallo Swarovsky da qualche tonnellata o un tappeto persiano versione XXL?
Per ora, l’unica certezza è che la sobrietà in Casa Bianca sembra aver fatto le valigie.
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