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Lifestyle

Vivere come la Carrà, ora si può!

A quasi tre anni dalla scomparsa di Raffaella Carrà, l’appartamento romano della showgirl cala il prezzo di vendita. La cifra arriva a 2 milioni di euro, ed è completa di campi da tennis, piscina e un parco. Ma nessuno compra. Perché?

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raffa

    Affidato ora a una prestigiosa agenzia immobiliare, l’appartamento di Raffaella Carrà è rimasto intatto, intoccato, sin dalla sua scomparsa nel 2021. È ancora in vendita e offre a tutti la possibilità di sbirciare nel suo lussuoso rifugio. Situata nel quartiere di Vigna Clara, a Roma, la casa presenta prestigiosi arredi e complementi unici. L’appartamento ha 2 ingressi, 9 stanze, sauna, palestra e tanto altro su 384 mq.

    In foto alcuni degli ambienti dell’appartamento in vendita

    Ancora nessun compratore
    Raffaella Carrà, nome d’arte della conduttrice televisiva e showgirl italiana Raffaella Pelloni, ha trascorso gli ultimi anni della sua vita nell’appartamento, ora in vendita ma, nonostante siano trascorsi quasi tre anni dalla sua scomparsa, gli interni dell’appartamento sono rimasti intatti: la cucina con i piani di lavoro in marmo, la zona living luminosa e dagli arredi anni ’70, come pure i bagni dall’aspetto ricercato, ma con rifiniture del secolo scorso.

    L’eredità di Raffaella
    La straordinaria carriera di Raffaella Carrà ha spaziato da ballerina a cantante, da presentatrice a autrice televisiva e attrice, conquistando il cuore del pubblico non solo in Italia, ma anche in Spagna, America Latina e oltre. Grazie alla sua lunga carriera di successo, ha accumulato un notevole patrimonio, che include diverse proprietà immobiliari, tra le quali l’appartamento. L’eredità di Raffaella è stata destinata, dunque, in parte ai suoi nipoti, che considerava come propri figli, in parte a Japino & figli di ex famiglia, che sembrano essere inclusi nel testamento.

    I probabili motivi di un immobile invenduto
    Ci sono diversi motivi per cui potrebbe essere difficile vendere un lussuoso appartamento, magari ha vecchi impianti poco efficienti dal punto di vista energetico, aumentando i costi operativi per il nuovo compratore; quindi, i potenziali acquirenti potrebbero essere scoraggiati dall’idea di dover affrontare costi aggiuntivi per aggiornare gli impianti per renderli più efficienti. Oppure le tecnologie superate, come un sistema di riscaldamento datato potrebbe non essere in grado di fornire il comfort e l’efficienza desiderati.

    In definitiva, gli impianti obsoleti possono influenzare notevolmente il valore di rivendita dell’appartamento. Potenziali acquirenti potrebbero essere preoccupati per la svalutazione dell’immobile nel tempo, o rendere più difficile una rivendita in futuro. Questi alcuni dei motivi che potrebbero rendere riluttante un acquirente ad acquistare un appartamento con impianti datati, a meno che non siano disposti a investire nel loro aggiornamento.

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      Animali

      Snack per cani: premio, vizio o strumento educativo?

      Tra premi, coccole e rischi di eccessi, il tema degli snack per i cani divide molti proprietari. Ma secondo gli esperti, se scelti e dosati nel modo giusto, possono essere alleati preziosi del benessere e dell’educazione del nostro amico a quattro zampe.

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      Snack per cani

        Il dilemma del bocconcino

        C’è chi li considera una coccola irrinunciabile e chi, invece, teme che rovinino la dieta. Gli snack per cani — che si tratti di biscottini, bocconcini di carne o premi masticabili — sono da tempo al centro di un dibattito tra proprietari e veterinari. “Fanno bene o fanno male?”, è la domanda più frequente tra chi desidera viziare il proprio cane senza correre rischi per la salute.

        Secondo la dottoressa Zita Talamonti, medico veterinario comportamentalista, la risposta non è un semplice sì o no: “Gli snack possono essere molto utili, purché usati nel modo corretto. Sono strumenti efficaci sia nell’educazione del cane, come rinforzo positivo, sia come momento di coccola e gratificazione”.

        Il rinforzo positivo: perché funziona

        In ambito educativo, gli snack sono parte di una strategia ben precisa: il rinforzo positivo. “Il cane impara molto più velocemente quando un comportamento corretto viene premiato piuttosto che quando viene punito”, spiega la dottoressa Talamonti. “Un bocconcino nel momento giusto, unito a un ‘bravo!’ o a una carezza, rafforza la relazione con il proprietario e aiuta a fissare il comportamento desiderato”.

        Non tutti i cani, però, rispondono allo stesso tipo di stimolo. “Alcuni preferiscono il cibo, altri un gioco o un momento di attenzione. Capire cosa motiva di più il proprio cane è parte del lavoro educativo”, sottolinea la veterinaria.

        Quando e come dare gli snack

        Gli snack non devono essere distribuiti a caso. È importante farne un uso mirato, legato a un contesto preciso: un esercizio ben riuscito, un momento di calma o una routine di cura. Ecco alcune situazioni in cui il bocconcino diventa utile:

        • Addestramento: piccoli premi rendono l’apprendimento più rapido e piacevole.
        • Relax e igiene orale: snack masticabili aiutano a tenere puliti i denti e riducono lo stress.
        • Stimolazione mentale: nascondere premi in giochi interattivi favorisce la concentrazione e riduce la noia.

        Il segreto sta nelle quantità. Gli snack non dovrebbero superare il 10% delle calorie giornaliere del cane, per evitare sovrappeso e problemi digestivi. Se usati per l’addestramento, meglio sceglierli piccoli, leggeri e a basso contenuto calorico.

        Quali scegliere (e quali evitare)

        Oggi il mercato offre una vasta gamma di snack per cani, ma non tutti sono uguali. “È fondamentale leggere le etichette”, avverte la dottoressa Talamonti. “Meglio orientarsi verso prodotti naturali e specifici per cani, a base di proteine di qualità, privi di zuccheri, coloranti o conservanti artificiali”.

        Tra le alternative più sane e facili da preparare in casa ci sono:

        • Carne o pesce essiccato, senza sale né condimenti.
        • Frutta e verdura sicure, come mela, banana, carote o zucchine (senza semi).
        • Snack funzionali per l’igiene orale, approvati dal veterinario.

        Assolutamente da evitare, invece, cibi tossici come cioccolato, cipolla, aglio, uva, avocado o ossa cotte, che possono causare gravi intossicazioni.

        Il ruolo emotivo della “coccola”

        Gli snack non sono solo nutrimento o strumento educativo: hanno anche un forte valore relazionale. “Offrire un premio al cane, se fatto con equilibrio, è un gesto d’affetto e comunicazione”, spiega la veterinaria. “Diventa un momento di connessione tra animale e proprietario, rafforzando il legame di fiducia”.

        Tuttavia, è bene evitare che lo snack diventi una risposta automatica a ogni richiesta del cane. “Il rischio è viziarlo, trasformando il premio in un diritto acquisito. Lo snack deve restare un gesto consapevole, non un’abitudine compulsiva”, avverte l’esperta.

        In sintesi: sì agli snack, ma con criterio

        Gli snack possono essere alleati del benessere e dell’educazione del cane, ma solo se integrati in una dieta bilanciata e usati con moderazione. La chiave è il buon senso: scegliere prodotti naturali, premiare nei momenti giusti e non abusarne.

        Come conclude la dottoressa Talamonti: “Un bocconcino offerto con affetto e misura può dire molto di più di mille parole: è un modo per comunicare con il cane nel suo linguaggio, quello della fiducia e del rispetto reciproco”.

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          Libri

          “L’uomo che pesò l’eternità”: Giuseppe Bresciani e la vertigine del tempo circolare

          Nel suo nuovo libro L’uomo che pesò l’eternità, Giuseppe Bresciani intreccia storia, filosofia e mito per dare voce al leggendario conte di Saint Germain, l’uomo che ha sfidato il tempo. Una confessione poetica e visionaria che riflette sull’infinito, sull’amore e sull’eterno ritorno delle vite.

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            Ci sono libri che si leggono, e libri che si attraversano. L’uomo che pesò l’eternità, l’ultimo romanzo di Giuseppe Bresciani per AltreVoci Edizioni, appartiene a questa seconda categoria: non si consuma, si vive. È un testo che avvolge, che sfida il lettore con una narrazione sospesa tra la materia e il mito, e che alla fine lascia la sensazione di aver assistito a un rito più che a una semplice storia.

            Bresciani scrive con una prosa limpida e avvolgente, che ha qualcosa del respiro dei grandi romanzieri europei della prima metà del Novecento. Ogni pagina è calibrata, cesellata, eppure fluida come un pensiero antico che torna alla luce. Ma ciò che rende L’uomo che pesò l’eternità un romanzo davvero raro è la sua architettura circolare: un racconto che si richiude su se stesso come un anello, o meglio come l’ouroboros — il serpente che si morde la coda — simbolo della rinascita e del tempo che si rigenera.

            Il protagonista, il leggendario conte di Saint Germain, attraversa i secoli come un viandante tra i sogni. La sua voce, che si alza dalle prime pagine come un sussurro confessionale, diventa quella di un uomo che ha visto tutto e non può morire. Bresciani lo fa parlare non con la retorica dell’immortalità, ma con il peso della memoria: un’eco che sembra provenire da una biblioteca dimenticata del mondo. Roma innevata, un mattino di Natale del 1940: è qui che lo incontriamo, solo tra le statue del Pincio, intento a raccontare se stesso e la propria condanna a durare.

            Il tempo nel romanzo non è mai lineare. È un mare in tempesta dove il protagonista naviga da tre secoli, tra incontri, passioni, rivoluzioni e rivelazioni. Ogni vita che assume è un ciclo che si apre e si chiude, come una spirale che torna al punto d’origine. E in questo movimento incessante — dove la storia dell’uomo diventa metafora della storia umana — si avverte un profumo di filosofia: l’idea che l’eternità non sia un dono, ma un peso da misurare, appunto, come suggerisce il titolo.

            C’è in queste pagine un’eco di Borges, nei labirinti del tempo e della memoria, e un riflesso di Mann, nel modo in cui l’immortalità diventa una condanna intellettuale. Ma c’è anche la dolcezza visionaria di Coelho e la profondità umana di Hugo: un equilibrio raro, che solo una scrittura consapevole e colta come quella di Bresciani riesce a mantenere.

            Il conte di Saint Germain, nella sua ricerca di conoscenza e di amore, diventa un archetipo dell’uomo moderno: eterno eppure fragile, onnisciente eppure solo. “Ho navigato per tre secoli sulle acque impetuose della storia”, confessa. Ed è impossibile non sentirlo vicino, come se la sua voce fosse la nostra — il desiderio universale di trattenere il tempo, di misurarlo, di non lasciarlo svanire.

            Bresciani costruisce un racconto che vive di ritmo e di respiro, dove l’avventura incontra la metafisica. Non c’è compiacimento stilistico, ma una cura artigianale della parola, una lingua che vibra e si fa musica. Le descrizioni di Roma, i dialoghi con le statue, gli amori che bruciano come lampi nella notte del tempo: tutto concorre a creare un’esperienza sensoriale e intellettuale insieme.

            È un libro che si legge con lentezza, come si assapora un vino antico o una melodia lontana. E quando si chiude l’ultima pagina, ci si accorge che il viaggio non è finito: la storia torna a sé stessa, ricomincia, si ripete in eterno, proprio come l’ouroboros che rappresenta la vita che si divora e si rinnova.

            In un panorama editoriale spesso affollato di storie effimere, L’uomo che pesò l’eternità è un romanzo che osa parlare dell’infinito. E ci ricorda che ogni vita, per quanto breve, è un ciclo compiuto dentro un disegno più grande — quello dell’eterno ritorno delle cose.

            Giuseppe Bresciani firma così non solo un romanzo, ma un’esperienza di conoscenza. Un’opera che lascia il segno e che, come il suo protagonista, continuerà a vivere a lungo, sospesa tra il tempo e l’eternità.

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              Cucina

              Cachi vaniglia: il dolce tesoro della Campania che profuma d’autunno

              Tra i prodotti agroalimentari tradizionali della Campania, il caco vaniglia si distingue per il suo gusto unico e per la versatilità in cucina. Scopriamo dove nasce, come riconoscerlo e perché fa bene alla salute.

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              Cachi vaniglia

                Chiunque viva in Campania sa che l’autunno porta con sé un profumo inconfondibile: quello dei cachi vaniglia, frutti dolcissimi e succosi, considerati una vera eccellenza del territorio. Questa varietà, appartenente alla specie Diospyros kaki, è inserita tra i Pat – i Prodotti Agroalimentari Tradizionali italiani – ed è coltivata soprattutto nelle province di Napoli e Salerno, tra l’area vesuviana, l’agro Acerrano-Nolano e la zona Sarnese-Nocerino.

                Le condizioni pedoclimatiche di questi territori – terreni vulcanici, clima mite e ventilato – sono ideali per la crescita di questo frutto, che arriva sui mercati tra fine ottobre e inizio novembre. Il caco vaniglia si riconosce subito: la sua forma è tonda e leggermente appiattita, la buccia sottile assume tonalità dal giallo-arancio al rosso intenso a seconda della maturazione, mentre la polpa, di colore ambrato o bruno-rossastro, è tenera, dolce e punteggiata da semi.

                Nonostante il nome, la vaniglia non c’entra nulla con la botanica del frutto: l’appellativo deriva semplicemente dalle note aromatiche calde e rotonde che ricordano la celebre spezia, e che rendono questa varietà unica per profumo e delicatezza.

                Un concentrato di energia e benessere

                Dal punto di vista nutrizionale, il caco vaniglia è un piccolo scrigno di vitamine e sali minerali. In 150 grammi si trovano circa 105 calorie, fornite soprattutto da zuccheri naturali, ma bilanciate da un alto contenuto d’acqua e fibre. È ricco di vitamina C e betacarotene, precursore della vitamina A, che contribuisce alla salute di pelle e vista.

                Studi condotti su varietà italiane di kaki (tra Lazio, Campania, Puglia e Sicilia) confermano la presenza di pectina e fibre solubili, sostanze che aiutano a regolare l’assorbimento degli zuccheri e a controllare i livelli di colesterolo nel sangue. Inoltre, il frutto fornisce potassio – circa 250 mg ogni 150 grammi – utile per il controllo della pressione arteriosa e per il corretto funzionamento dei muscoli.

                Grazie al basso contenuto di sodio e all’effetto diuretico, i cachi vaniglia sono perfetti per contrastare la ritenzione idrica. Tuttavia, chi soffre di diabete o segue regimi alimentari controllati dovrebbe consumarli con moderazione, sempre dopo aver consultato il proprio medico o nutrizionista.

                Un frutto che si gusta in ogni fase di maturazione

                Una delle caratteristiche più apprezzate dei cachi vaniglia è la loro versatilità: possono essere mangiati sia sodi che morbidi, a seconda delle preferenze. A differenza dei cosiddetti “cachi tipo” (come il Loto di Romagna), che devono maturare in cassette per perdere l’astringenza dovuta ai tannini, i vaniglia sono commestibili appena raccolti.

                Il segreto sta nell’impollinazione: nelle coltivazioni campane si piantano alberi maschili accanto a quelli femminili, così i frutti risultano naturalmente dolci e non “allappano”.

                Quando sono più compatti, i cachi vaniglia sono perfetti in macedonie, yogurt, porridge o insalate autunnali. Se invece sono ben maturi, diventano ideali per frullati, dolci da forno o confetture profumate, magari da abbinare a formaggi stagionati o salumi per un contrasto agrodolce tipicamente mediterraneo.

                Un simbolo d’autunno da riscoprire

                Il caco vaniglia è molto più di un frutto stagionale: è un emblema della cultura contadina campana, un’eredità che racconta di terre fertili e di saperi antichi. Oggi sempre più aziende agricole lo coltivano secondo metodi sostenibili, preservando una varietà che rischiava di essere dimenticata.

                Dolce, aromatico e benefico, questo frutto rappresenta una delle eccellenze italiane dell’autunno, capace di unire gusto e salute. Portarlo in tavola significa assaporare non solo la sua polpa vellutata, ma anche un pezzo autentico della tradizione agricola campana.

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